907 parole; tempo di lettura stimato: 6 minuti circa.
A illustrare il racconto, un’opera di Giulia Spinelli.
Una femmina alla finestra: ha ossa allungate, esili da cicogna: è insolente, litigiosa, sospettosa verso il vivere – che è l’unico eroismo a macchiarla.
La femmina sono io.
Mercoledì avrò questa cosa da fare: leggere a una “unprofessional audience” Bestia Pelosa, il più onesto dei miei racconti: veste condita a idealità della Allerleirauh. Fui sopraffatta, a dispetto del mio orgoglio stantio, dalla sognante scioccheria delle vergini inserrate o in amore. Ancora chiusa, ormai bella seppure bambina nei tratti, relegata in una dimensione limbica: non donna, malgrado i miei rancorosi ventisei anni; non bambina a ragione di quelli, con aria grama da figlia di re vietata al sole, rifiuto una vita che ormai non si è fatta benvolere che, anzi, mi ha defraudata.
Perciò mi sono chiusa a chiave.
In anello siedo alla finestra, tra le mura di una casa rosso mattone, che nella flora si mima esotica, in economia: una lugubre signora di Shalott, inoperosa, non-tessente, che si trastulla a ombre. Pensavo alla malia della pelle animale, pensavo che non desideravo essere vista – a stento mi guardo – e proprio allora ho veduto. In strada ho gettato l’occhio. Non so cosa sentissi quando avvenne il fatto, ricordo che mandavo a mente il discorso da tenere, la necessità della mia ritrosa di sortire dall’involucro bestiale per uscirne donna – come avrei dovuto fare io stessa, prima che lei – e la necessità mia di parlare chiaramente perché comprendessero. Era da capire – e amare – la principessa bardata a ocelot volpi e testuggini, e, per suo mezzo, quella di cui è simulacro, nascosta, chiusa a chiave. Così ricamavo a mente la storia, in potenza frantumando la rassegnazione che mi mura la bocca, per finalmente intruder nel mondo con la mediazione della Dognipelo.
Non un riflesso, ma un suono: giù in strada, lontano, estranei in fuga notturna.
Il loro sesso mi era irrilevante: facevano chiasso, tanto bastava. Ho guardato ancora, con i miei occhi che occhi non sono – così inetti alla vista – un uomo e una donna a inseguirsi; la notte fattucchiera da due soldi ha dato a lui i tuoi lineamenti. Subito quell’uomo eri tu. Dovrai essere indulgente se così mi sono infuriata – nonostante non fossi tu, non potessi essere tu: ti so smarrito in remote tropicalità dorate – ma la vita odiosa è stata un corteggio di abbagli. I miei amori, amori non potevano definirsi ma lampeggi, fantasie, e poi tu, l’innumerevole dei miraggi – quanto agognato reale! L’immaginazione – il mio dono – sempre, mi ha, poi, tradita. Dimoro nell’irrealtà. Sono miope, ho occhi che non vedono senza mediazione; così come non so spiegare il mio dramma se non per mezzo della Bestia Pelosa; così come il mio sangue di donna, perfino, non ha consistenza o rossore; così come, per anni, mi sono data – anche questo per finta – a un generoso amante, ma riversa su un fianco, riversa e vergine senza essere presa. Non sono donna compiuta – il limbo mi si addice – e, come hai visto, perseguitata dalla immaginazione. Adesso insegui questa donna con fratte di rosso e di nero per capelli, mentre non hai corso al mio fianco come se non valessi consumare caviglie – e, pure, ti avrei accolto con tutti gli onori, mutata in leonessa – vincendoti un ruolo nella farsa degli atti copulatori che me riguardano come l’umanità tutta, monotonamente. La vita ho trascorso inseguita da mio padre e mia madre, dall’uomo-eglantina – armato a rose intraprese la ventura – dai lutti e dai doveri, da un pazzo dedito alle sevizie, sempre dilacerando chi si è provato ad amarmi. Sono una Atalanta: farmi rincorrere è vizio – e proprio una corsa, adesso, mi esclude. Il senso del mio esilio è in questo pas de deux a cui, così incernierata, non sono ammessa. Titubante lei non si fa vincere, non ancora. Sguscia sul tappeto di aghi e foglie con grevità squittente. Giocate, irrispettosi verso i silenziosi ed esiliati mangiatori di ombre, che di ombre non sono mai stanchi – perché è tutto ciò che hanno. Occulta dietro la tenda, le mani sotto al mento, un livido elettrico sul polpaccio sinistro – capillari come ragni e stelle – con occhi vacui sprezzo la realtà: lascio fluire i capelli da tessitrice fantasiosa. Io con la mente sempre pronta alla lotta, pugnace e lodata da questa fantoccesca intellighenzia di periferia, sono stata da te, tuo malgrado, stanata. Eri nel non-linguaggio – l’ennesimo territorio liminale, ignavo, adatto all’ibrido che sono – l’unico luogo dove la parola, il liquido amniotico in cui vivo aspersa, è inefficace. Dimenticarti sarà smettere un sogno, svegliarsi, picconare l’ennesimo bamboccio imbastito dalla principessa sotto la pelle di bestia; è indegno di un essere umano che tutto ciò a cui si aspiri sia poi irrealizzabile – che le aspirazioni siano, traslate nella vita, nient’altro che un riflesso sbiadito. Questo sarebbe stato anche con te.
Mi sono chiusa a chiave: con la cappa irsuta e animalesca proteggo la principessa e i suoi sogni malati. A cavalli si nutre, a eroi fiammeggianti, a cortesi portatori di fiori e corone. Sciocchezze e oscenità – oscena proprio perché sogna. La tua sagoma si fa audace: le dita mi mordo per la solidità da abete del tuo corpo – reale mi esclude – come si piange un morto. Ma sei tu davvero, alla fine? L’hai finalmente afferrata e le gravi addosso. Io sono l’esclusa, la prigioniera.
Regina e padrona scelgo di preservarmi sotto il manto animale: in eterno mi chiudo a chiave – solo in cerniera si può vivere di fantasticheria.
Perché eroe è chi dubita della vita con le sue macchie d’ombra.

Un pensiero su “Mi chiudo a chiave”
Una poesia in prosa, suadente, barocco, fantastico (nel senso letterale), noir.