Bellissima
Le spazzole ripuliscono il parabrezza, una coppia d’archi che stride andata ritorno andata – poi Thomas dà un colpo alla leva e crollano su un lato senza aver risolto il problema. Non si vede niente. Oltre il vetro, la nebbia ricorda fiamme esauste. Il calore respira attraverso la grana nera. Va avanti da settimane, il vapore e la condensa sembrano resti di un incendio e grattano la gola. Il respiro di Thomas è una nuvola a zero gradi.
Gaia è in ritardo.
Non le dice niente quando sale, inseguita dall’eco dei suoi passi che si sono affrettati verso l’auto, accorciando l’attesa di un decimo di secondo. Centometrista per piaggeria. Le sorride. Dove vorrebbe andare, con quelle scarpe. Con quei polpacci lunghi e una struttura ossea che promette di diventare l’impalcatura di carne che frolla dentro a un involucro di pelle raggrinzita prima della sepoltura.
«Andiamo?»
«Sì».
«Andiamo».
Non mette in moto. E lei non ha messo la cintura. Fa scivolare la borsetta dalle ginocchia al tappetino. Non lo farebbe se avesse guardato a terra. Ma è buio, non ci fa caso. Thomas è una faccia velata dell’oro pulviscolare di un lampione vicino al parcheggio. Le sembra sia bello come in foto e nei racconti delle sue amiche. Che abbia notato le sue gambe nude. Poggia una mano sulla sua coscia, tesa sotto ai jeans. Audace, ma se la sente – ha messo il rossetto. È quello, e non il suo vestito corto o le sue unghie acuminate, che guarda Thomas. Labbra opache che accendono la nebbia. Le sigilla col pollice. Gaia le schiude per incoraggiare una penetrazione orale. Poco, vorrebbe sembrare elegante. Lui si ritrae, cerca nella luce l’impronta di rosso sul polpastrello. Gaia giurerebbe che stia ridendo quando dalla sua bocca esce, simile a uno scoppio: «e questo, dove l’hai preso?»
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«Quanto hai?»
L’altro non gli risponde, sta mezzo dentro e mezzo fuori, un piede puntato al marciapiede e la conversazione dura cinque o sei secondi, tre battute al massimo; poi gli mette in mano i soldi, venti carte che ha rubato dalla borsetta della sua tipa. Si danno la mano e via, si sfila, sbatte la portiera e sprofonda nel bianco, con le mani in tasca e la lingua che rimesta saliva tra i denti. Forse aspetterà di voltare l’angolo, forse no – continua a non vedersi niente, di giorno come di notte. Cammina nel latte. Quasi non si accorge di chi viene dalla direzione opposta.
Neanche Thomas se ne accorge. Non lo guarda più, ha preso i soldi e messo in moto. Detesta avere a che fare con quella gente. Lo chiamano amico, ma l’unica cosa da amici che fanno è sboccargli in macchina quando va male. L’ultima volta è stato Schizzo, una settimana fa. Non ha avuto tempo di pulire, ha tolto il grosso con la carta di giornale e i fazzoletti e girato il tappetino. La puzza si sente ancora. Gaia non si è lamentata. Ha il suo rossetto in tasca, gli pesa negli stessi jeans da ieri sera. È un astuccio di plastica nero e morbido al tatto, cilindrico, interrotto da un anello al centro. Lo sfila. Avvita finché la punta, smussata dalle labbra di Gaia, non emerge. Ha incise sopra le venature della sua bocca e ricorda quella sera che gli era apparsa enorme e rossa, rifinita di plastica – adesso si usa, niente di strano. Se la sarà fatta regalare da qualcuno. Troia al collagene. Avvita ancora, lo stick è paonazzo, eretto. Potrebbe rompersi, così svita il meccanismo e quello torna a nascondersi, al sicuro dal suo impaccio con i cosmetici femminili. Infila il tappo, preme fino a sentire un piccolissimo clic che esplode nella nebbia. Lo ripone in tasca. Thomas ingrana la retromarcia, deve muoversi. Da quelle parti non lo conoscono.
—
Lo chiama quando è allo stop. Quando torni, dove sei. Assorbito dall’imbottitura dei sedili. Non ce l’ha il bluetooth, è il vivavoce che pulsa dal posto del passeggero. Si concede la soddisfazione di quella voce che si impanica senza risposta. Quando diventa sgolata si inclina verso il cellulare.
«Sto per strada».
Lo sente, il rumore del traffico, l’ha capito che sta guidando, ma quanto ci mette ancora, che sta sempre in giro e non avvisa mai, va e torna e si fa i cazzi suoi, ma oggi deve farsi vedere o lo sbatte fuori di casa, ultimo avviso, non ne può più, è impossibile continuare così, c’è la bambina che lo aspetta, non era tutto per lui? Non diceva di volerle bene, almeno a lei?
«Non azzardarti».
La voce si ripiega in scuse che crocchiano di segnale scadente.
«Devo fermarmi in un paio di posti. Non so quanto ci metto. Dille che mi aspetti, dille che torno, stasera».
Thomas chiude la telefonata e pensa alla genitorialità. Si accende una sigaretta, abbassa il finestrino quanto basta a non soffocare e diventa grigio anche dentro all’abitacolo, in quella merdosa carcassa che tira avanti a calci. È calmo, e non è la nicotina. Il traffico ondeggia allo stesso ritmo di sempre, a quell’incrocio, a quell’ora. Il semaforo, più avanti, blocca la viabilità. I volti dietro ai finestrini si reclinano sugli schermi dei cellulari o si tendono alla nebbia. Cercano il movimento del veicolo che li precede, il piede sospeso sull’acceleratore. Vogliono la vibrazione sotto la suola, il muso di lamiera elettrica che si lancia in avanti. Quella gente odia la stasi. Produce tutto il giorno: corre, timbra, si affanna, stampa, controlla, firma formule di cortesia, e intanto lui avvelena i loro figli, mogli, mariti e sorelle. È il cattivo della storia familiare che i più fortunati sversano sulla poltrona dello psicoterapeuta. Lo sa. Sa anche che con una pasticca prescritta al momento giusto avrebbe la metà dei clienti. Qualcuno no, per qualcuno non ha senso fare questo discorso, quelli assumerebbero i farmaci come mentine; c’è chi nasconde la roba nella zuccheriera di famiglia e finge di andare a fare il caffè per passarsene una punta sulle gengive – amore, ma quanto ci metti? Dai, che gli ospiti ti stanno aspettando.
—
Quella storia gliel’ha raccontata Alice.
«Mio padre è un gran figlio di troia», glielo ripete anche oggi. È il suo mantra, non sa se funzioni, se serva a farla stare meglio. Quando sale in macchina ci entra del tutto, lei. Si raggomitola sul sedile posteriore perché muore di freddo, trema tutta. Thomas forza l’impianto di riscaldamento della carcassa. Vuole che stia bene. A lei fa lo sconto. La riaccompagna a casa dal lavoro quasi ogni giorno perché sui mezzi l’hanno beccata non si sa quante volte senza biglietto e dice che la gente la guarda e a lei non piace, le hanno fatto delle cose.
Thomas vorrebbe vomitare sul volante come ha fatto Schizzo la scorsa settimana.
«Hai una faccia».
«Non ho niente. Sono stanco. Sono uscito con una».
«Com’è?»
Thomas non risponde. Sente il peso del rossetto nella tasca, manda un sospiro e Alice capisce. Morde le nocche delle mani. Anche lei sembra una bambina. Quella che si prende cura di lui, anche se è lui a riaccompagnarla a casa perché non guida e ha paura degli uomini sull’autobus.
«Se ti va puoi restare. Devo passare da una parte, una cosa veloce. Poi torniamo, così non fai tardi».
«Facciamo sempre tardi».
Alice lavora in un magazzino ortofrutticolo. Sciacqua caspi d’insalata, ripulisce patate e zucchine dalla terra. Le serve quel lavoro, mette da parte quello che riesce per potere, un giorno o l’altro, schiodare di lì. Ha diciannove o vent’anni, i capelli corrosi e un corpo che scompare nei vestiti troppo larghi. Non mangia, non ha fame. Fuma troppo, è colpa sua – prezzo amico: sono amici – lei, l’unica che potrebbe chiamare amica. A cui asciuga il vomito dal viso senza odiarla. A volte vorrebbe baciarla e prometterle qualcosa, ma il massimo che riesce a fare è dire a Déisi che tornerà a casa la sera e comunque non ce la fa.
Passano a prendere le birre, prima. È una cosa loro, non importa se dovrebbero essere altrove. Scende lei, anche se è stanca. Si danno le spalle, bevono nel parcheggio, la macchina è calda; fuori, la nebbia comincia a confondersi col buio. Smette di bruciare di bianco, si illividisce fino a farsi cieca.
Alice preme la fronte contro il finestrino, lo appanna a malapena. Tiene gli occhi chiusi.
«Secondo te sale, stanotte?»
Confida nel freddo che le si è conficcato nelle falangi dopo ore a sciacquare verdure sotto l’acqua. Che geli l’umidità e ritorni lo scintillio liquido del buio. Thomas dimentica di essere davanti a un supermercato. Fantasmi scorrono al di là del parabrezza, appesantiti dalle buste della spesa. Orario di fine turno, concluso con pollo in cellophane e sughi in scatola. Passano senza vedere né lui né il viso semiaddormentato di lei e infilano la testa in portabagagli che sbattono. Thomas accende la radio. Abbassa il volume finché non rimane un sussurro di ninnananna. Quantifica la birra rimasta in fondo alla lattina con un movimento del polso, decanta quel che rimane della pausa a motore spento. Alice è scivolata sul sedile, la guancia giallastra posata tra le braccia. Le risponde anche se non lo sente più.
«No. Non credo».
—
«Dille che scenda».
Chiude la telefonata in una sorsata di acqua naturale. L’ultima. Accartoccia la bottiglia e la butta sul tappetino del sedile del passeggero dove si era accucciata Gaia. Gli ha scritto poco fa e lui non le ha risposto. Smetterà di cercarlo, era una conclusione prevista. Dovrà solo mettere un po’ più di trucco sopra all’umiliazione che le ha schiaffeggiato in faccia: non lo racconterà alle amiche, meglio fingere che non facciano per lei certi ragazzi, certi giri. Ripiegare sul tipo conosciuto in palestra, dicono sia sposato. Non potrà essere peggio dell’ultimo.
Thomas è arrivato quasi puntuale, sono le undici e quaranta. Non vuole salire, preferisce aspettarla e portarla fuori, non importa se è tardi per una bambina. Si occupa di lei come può, fa quello che ci si aspetta in una famiglia decente. Quello che avrebbero dovuto fare con lui. Troppo tardi.
Déisi sale in macchina con lo zaino. Sa che l’ha riempito, lo fa ogni volta, sperando che lui, che è grande e guida, ha diciott’anni e può fare quello che vuole, la porti via insieme a quella sua amica troppo magra. Ogni volta deve deluderla e prenderla per mano fino al pianerottolo, assicurandosi che non le venga in mente di scappare. Ma a questo può pensarci dopo. Le sorride, lei lo abbraccia, gli avvolge la testa in maniche imbottite.
«Hai fatto tardissimo. La mamma è infuriata».
«Poi le passa».
«Ma papà ha picchiato il muro. Ha detto che picchia anche te».
«Poi ci pensiamo».
Lo zaino è quello di scuola perché a scuola non ci va più e al posto dei libri può tenerci i vestiti. Thomas lascia un bacio tra i capelli di Déisi. Sono lunghi pochi centimetri, un’abitudine lasciata da quando a scuola glieli tiravano e tornava a casa con la cute insanguinata, le mani piene delle ciocche cadute. Li accorcia con la forbice, da sola, ma non li tinge.
«Ho una cosa per te».
Infila una mano in tasca, ma Déisi lo blocca.
«Facciamo che indovino?»
«Va bene».
Déisi si sfila la sciarpa da attorno al collo e la usa per coprirsi gli occhi, annodandola dietro la testa. Gli tende le mani. Thomas si ferma su quei palmi bianchi e affonda la mano nei jeans. Il respiro di Déisi è veloce, si coagula sul vetro. Ci sono solo loro lungo la strada. La nebbia ingoia il contorno dell’auto e assorbe anche loro due.
«Perché lo fai, Thomas?»
«Perché sei una ragazza. Alle ragazze piacciono queste cose».
Non si è abbassata la sciarpa dagli occhi. Il labbro pende incerto, storto e un po’ umido.
Una lacrima scivola via da sotto la lana. Lui le impugna le mani e stringe. La lacrima arriva al collo e si infila nel cappuccio della sua felpa, che prima era appartenuta a Thomas. Le chiude le mani attorno al cilindro scuro del rossetto. A Déisi è bastato il clic del tappo per capire cosa fosse. «Vorrei che lo provassi, almeno. Lo fai per me?»
«Non lo so».
Sotto la sciarpa, sembra una ragazzina come tutte le altre. Non diversa da Gaia, che si inietta schifezze sotto i pori e impila sul viso strati di fondotinta e ombretti. Déisi non vuole rimediare all’errore che è la sua faccia, un errore commesso da altri e di cui non ha colpa. Si aggrappa alle sembianze infantili e si nasconde, schivando i riflessi degli specchi e delle finestre. Una volta non ero così – dice, imitando voci anziane, piangendo la miseria che le hanno inflitto prima ancora che si avvicinasse all’adolescenza. Una volta ero bellissima.
«Sei bellissima».
Thomas è sempre stato una testa di cazzo e non ha intenzione di smettere di mentirle.
«No».
Si domanda cosa accadrebbe se smettesse di farlo. In quel ‘no’ che Déisi gli scaglia addosso, indignato, compare la lusinga di un’illusione. Potrebbe, ma non vuole, credergli: è suo fratello, le vuole bene, la conosce e la ama. Lei è bellissima.
Stringe il rossetto e lo infila nello zaino. Thomas capisce che lo metterà da parte insieme a tutti i vestiti, i trucchi e i prodotti per capelli che le ha portato. Un giorno, forse, si metterà davanti allo specchio – un giorno, sì, che mentire non basterà più. Ma forse non sarà necessario perché l’avrà illusa abbastanza. E somiglierà, anche se pochissimo, a tutte quelle ragazze che si scopa sul sedile che occupa Déisi, l’unica che vuole vedersi riflessa accanto. Lo abbraccerà forte, la sua bambina.
«Andiamo?»
Déisi ha abbassato la sciarpa sul collo. La sua tenera deformità gli sorride. Thomas accende la radio e alza il volume.
«Andiamo».
A illustrare: D. Harder, Crossing Milwaukee Avenue (https://flic.kr/p/H5CZCj) e una scena tratta da Battle Angel Alita (Gunnm) di Y. Kishiro