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Idiosincrasie

Autore
Marco Angelini
A scelta dello Chef
Narrativa generale
22 dicembre 2022

Dalle mie parti, dove sono nato, quando provano una grande gioia – non una qualunque – vanno in brodo di giuggiole.
Ecco, quando è nato mio figlio Samuele, tutti quanti andavano in brodo di giuggiole non appena lo vedevano – ma qui mica sanno che è un infuso, e neanche com’è fatta una giuggiola. Ricordo la gente all’ospedale, tutti a farci i complimenti.
Parenti, amici, anche gli estranei che passavano di là per far visita a qualcun altro. Ma io vidi qualcosa nel suo sguardo che non mi piaceva. Subito, dal primo istante. Mi vergognavo a dirlo, e non lo dissi. Cristo sa quanto l’ho sempre amato e ogni domenica andavo in chiesa a pregare e chiedevo cos’era che scorgevo in quegli occhi che gli altri non vedevano.
Così entrai nella mia fase grigia, la chiamo così, in cui vivevo di gioia e di inquietudine. Oggi direi anche di inconsapevolezza, perché ancora non capivo, eppure avevo tutto sotto ai miei occhi.
A ripensarci, se ne avessi parlato subito con mia moglie Giulia, le cose sarebbero andate diversamente.
Invece ho covato da solo questo cruccio interiore e mi sentivo l’unico detentore di un mistero orrendo.

Lavoravo su me stesso ma non era facile. A volte credevo di avere io qualcosa che non andava. Era mio figlio, che poteva esserci di strano?
Capii, finalmente, quando Samuele aveva appena compiuto un anno.
Ricordo il momento in cui vidi nel suo viso il mento di Stefano, il nostro vicino di casa. Lo guardavo giocare sul letto. Allora vivevamo in un quartiere fuori zona, un bel quartiere, fatto di piccole villette a schiera, ognuna con il suo giardino e il suo posto auto. Stefano e Carola vivevano al di là della strada ed erano nostri amici da anni. E quello era il mento di Stefano, non c’erano dubbi. La mia certezza fu un trauma. Andai in bagno, mi sciacquai la faccia, bevvi un sorso dal rubinetto, ma quando tornai la prima cosa che notai fu quella. Il mento del nostro dirimpettaio era lì sotto ai miei occhi, era così evidente…
Quel giorno iniziò la mia fase blu, come la chiamo io.
Non ne parlai con mia moglie. Mi avrebbe preso per pazzo e poi non potevo accusarla di qualcosa così, senza avere alcuna prova. In compenso bruciavo di gelosia e di odio. Sia a casa che al lavoro correvo in bagno e vomitavo bile. Quando facevamo l’amore non riuscivo a venire perché sentivo la sua vagina bagnata dallo sperma di Stefano. Iniziai a inventare scuse per evitare i rapporti sessuali, ma non sempre ci riuscivo, perché certe sere mia moglie insisteva e si lamentava. Alla fine accettò l’idea che fosse un problema d’ansia, e mi disse che le stava bene fare solo con la bocca, ma per me non cambiava nulla: restava l’idea fissa di quello che aveva lasciato in lei il padre di mio figlio.
Ed era solo l’inizio.
Una domenica mattina ci eravamo preparati per andare in chiesa e mentre stavamo lì nel vialetto a chiudere la porta di casa ci passò davanti la famiglia dei Santoro. Anche Michele, il capofamiglia, è emigrato come me, ma lui viene dalla Puglia. Si stavano incamminando verso la Santa Messa, proprio come noi.
Mi venne un colpo quando notai, per la prima volta, il colore dei capelli di Michele. Se ne avessi strappato una ciocca e l’avessi messa sulla testa di mio figlio, non si sarebbe notata la minima differenza.
Ora, la cosa era certa; voglio dire, non vi erano margini di dubbio. Il mento di mio figlio era quello del mio dirimpettaio, mentre il colore dei suoi capelli era quello del mio vicino di casa.
Coincidenze, coincidenze, me lo ripetevo di continuo e per di continuo intendo che non lasciavo alla frenesia della mia mente irrequieta un solo istante di pausa. Coincidenze, di cui non riuscivo a parlare con Giulia.
Sedavo la mia collera fumando le canne che mi vendeva il fidanzato di mia nipote e, quando riuscivo, mi facevo prescrivere sonniferi dal medico.
Samuele prese la varicella e lo portai dal pediatra. Unico uomo in una sala d’aspetto colonizzata da madri, riuscii a godermi con serenità l’attesa del nostro turno. Abbracciavo mio figlio febbricitante amandolo nonostante tutto.
Quando chiamarono il nostro nome, conobbi il Dott. Gatti e allora il cerchio si chiuse. Ebbi davanti lui e al contempo gli occhi di mio figlio, dai quali era cominciato tutto.
Mia moglie e il Dott. Gatti, il pediatra, mia moglie e Stefano, il dirimpettaio, mia moglie e Michele, il vicino.
Può accadere, l’ho letto, si chiama multipaternità, come per i gatti. Due cuccioli di due padri diversi, nel mio caso due padri per un cucciolo solo. Questo m’era successo, che era peggio ancora.
Smisi di bere e di prendere sonniferi. Mi limitavo a una canna dopo cena, tutte le sere.

Fu allora che le cose iniziarono ad accadere di notte. Le notti caratterizzarono la mia fase nera.
La prima notte dopo aver conosciuto il donatore degli occhi di mio figlio, sognai il suo sperma che entrava nel corpo di Giulia e ne fecondava gli ovuli. Anche la notte seguente feci lo stesso sogno, ma lo sperma era quello di Stefano. Poi venne il turno di quello di Michele e infine del mio.
Lo avevo letto da qualche parte, su un forum forse, o una rivista, che può capitare, quando si è donne e si è troie come mia moglie.
Ma c’era anche il mio sperma in Samuele. La sua bocca piccola era la mia, il suo naso a patata era il mio, come anche la sua fronte bassa e magari anche qualcosa che aveva dentro, come lo stomaco o la milza o l’intestino. Può capitare. Lo avevo letto.

Iniziò la mia fase rossa. A un certo momento un particolare dell’aspetto di mio figlio mi saltava agli occhi più di ogni altra cosa, con una tale insistenza che dovevo porvi rimedio, se non volevo impazzire.
Michele fu il primo e fu facile. Dopo cena uscii a buttare la spazzatura e lo attesi dietro al garage di casa sua. Sapevo che ogni sera si rifugiava lì a fumare una sigaretta di nascosto dalla moglie. Lo presi alle spalle, avevo in testa il passamontagna che usavo sulla neve e pure la mascherina con le lenti arancioni. Gli diedi un colpo in testa con il manico del coltello ma non bastò, allora gliene diedi un altro paio e svenne. Lo trascinai sotto l’albero nel retro del suo giardino, al buio: un po’ alla volta gli strappai i capelli. Sarebbe stato più facile rivedere mio figlio dopo quel giorno.
Michele fu dimesso dall’ospedale dopo parecchi giorni. Noi del vicinato gli organizzammo una piccola festa di benvenuto: c’erano i tavolini con le torte fatte in casa e piccoli panini, ma quando scese dall’auto ci rendemmo conto che non c’era niente da festeggiare. Ciascuno si limitò ad abbracciarlo, a dargli un saluto e una pacca sulla spalla; ce ne andammo via alla svelta.

Poi venne il turno di Stefano – il mento di mio figlio era il suo. Con lui fu più difficile. Con un passamontagna nuovo e gli occhiali da sole lo aggredii nel parcheggio del suo posto di lavoro, la sera, prima che entrasse in auto.
Lo stesi a terra, afferrai il martello a due mani e gli sferrai un colpo deciso al mento. Il risultato fu diverso da quello che volevo. Forse lo colpii male o forse troppo forte, fatto sta che venne via tutta la mandibola, si girò al contrario, come se la parte inferiore della sua faccia fosse volta di profilo. Il mento era maciullato di sicuro, ma anche tutto il resto. Era troppo. Lo lasciai lì.

Il vicinato era in allarme, fu organizzato un gruppo di vigilanza, di cui vollero che io facessi parte. Per quel che mi riguardava, avevo terminato con loro. Mi restava solo il Dott. Gatti. Ogni notte i sogni mi conducevano a lui, ma li tenevo a bada.
Ripresi a bere e diventai bravo a falsificare le ricette dei sonniferi.
Scoprii che il vino bianco stava meglio con gli ansiolitici, il rosso invece con i sonniferi.
Una domenica mattina dissi a Giulia che andavo a fare due passi e, una volta fuori casa, chiamai il pediatra: mio figlio sta poco bene, glielo porto a far vedere. Provò a dirmi che era domenica, che non poteva, ma fui insistente: non volevo portarlo al pronto soccorso, aveva la febbre alta e mi fidavo solo di lui, non importava il costo della visita.
Lo presi alle spalle quando aveva già inserito la chiave nella serratura. Lo scaraventai a terra nell’ingresso del suo studio e nel tempo che la porta sbatté alle mie spalle lo avevo stordito. Mi misi a cavalcioni sul suo petto. Un’autoreggente di mia moglie legata in faccia e un paio di occhiali presi dal ferramenta celavano la mia identità. Non fu facile. Gli occhi non si cambiano, o ci sono e sono quelli, o non ci sono più. Quando gli conficcai il cacciavite dentro all’occhio sinistro pensai che sarebbe morto, e invece no. Una qualche forma di consapevolezza sopravvisse in me quanto bastò per non accecarlo completamente. Non si trattava di compassione, volevo che con l’occhio buono potesse vedere come lo avevo ridotto. Segnai un perimetro di pizzo ondulato tutto intorno al suo occhio destro, e questo sarebbe bastato. Chiunque, me compreso, avrebbe guardato quello sfregio e non più l’occhio uguale a quello di mio figlio.
Il Dott. Gatti era lì, privo di sensi. Quanto avevo fatto sarebbe dovuto bastare, come per gli altri.
Invece no. Gli tirai giù i pantaloni e gli tagliai il pene. Usai il coltello. Non le palle, il pene.
Il giorno dopo lessi sulla locandina che era morto.

I sonniferi divennero troppi e pure le canne e l’alcol. Entrai nella mia fase viola, o forse quella era la rossa e la viola era quella precedente.
Giulia aveva capito, non so come e fino a che punto, ma aveva capito. Lei mi vedeva strano e io per non apparire strano prendevo ancora più pillole.
Iniziai ad andare in giro con il coltello, uno nuovo – un serramanico da tre dita a punta ricurva che chiamai Rocco, il nome di mio nonno. Giulia me lo trovò in tasca e io le dissi che mi faceva stare più tranquillo, se a qualcuno fosse venuto in mente di aggredire pure me. Non so cosa pensasse davvero, però capii che non volle dirmi nulla.
Una sera, quando rientrai a casa, stava piangendo e aveva sul tavolo una bottiglia di vino bianco quasi finita. Mi chiese se ero stato dal Dott. Gatti e io le dissi di no. Non credo che abbia chiamato lei i poliziotti. Sarà stata una telecamera a fregarmi, qualcuno che aveva visto qualcosa dalle scale o che aveva sentito dei rumori. Le urla del dottore, forse. Non fu lei.
Fatto sta che arrivarono i poliziotti e trovarono il coltello, quello vecchio, il cacciavite, ma soprattutto il pene. Lo avevo tenuto solo perché mia moglie – che tanto gusto aveva provato ad usarlo – ne perdesse completamente le tracce. Lo trovarono e quella fu la fine.

Ciò che ero stato fino a un attimo prima, non lo ero più un attimo dopo.
Pensavo, verrà il momento in cui ascolteranno anche le mie ragioni. Ci sarà pur qualcuno che mi dovrà ascoltare.
La grandissima meretrice è lei, avrei voluto dire, e quei bastardi se lo meritavano. Pene a parte, perché quello era stato un errore. Ma non c’era nessuno a cui dirlo. Non era mai il momento giusto.
Io e la mia pazzia fummo rinchiusi in un posto dove non potevamo fare del male a nessuno. Anche se avessi voluto, non c’erano facce intorno a me, a parte quella della guardia di giorno e quella della guardia di notte. Due facce che non mi dicevano nulla, facce come tutte le altre. Se fossi stato pazzo, pensavo, le avrei detestate e aggredite come quelle di Michele, di Stefano e del Dott. Gatti. Invece rimasi buono e tranquillo.
Iniziarono a farmi visitare da un medico dei cervelli. Prima una volta a settimana, poi più di frequente. Mi prelevavano dalla cella e mi portavano in una stanza bianca, spoglia, mi facevano sedere su una sedia inchiodata a terra con i polsi incatenati ai braccioli.
Il medico dei cervelli stava tre metri più in là, seduto alla sua scrivania.
Finalmente qualcuno a cui dire le cose, pensai.
Io parlavo e parlavo senza sapere se le cose che dicevo andassero bene o male – lui non diceva nulla – e intanto il tempo passava.
Finché un giorno, a circa metà seduta, mi fermai. Il medico dei cervelli, alla sua scrivania, senza dire una parola fece un gesto che aveva fatto molte altre volte. Si tolse gli occhiali, li appoggiò e si strinse il naso fra il pollice e l’indice della mano destra. Poi mi guardò.
Il naso a patata, il mento sfuggente e la linea delle rughe che correva dall’estremità degli occhi alla bocca, piccola, più stretta del naso…
Non so perché non me ne fossi accorto prima, fu come osservarlo per la prima volta.
Fui aggredito dal panico. Quel volto mi dava la nausea e anche il mio. Non capivo. Distoglievo lo sguardo e ogni volta che lo fissavo era più uguale a me. Il profilo del naso, gli zigomi, il colore dei capelli e anche le orecchie piccole senza lobi. La forma della testa come una pagnotta troppo tonda. Era insopportabile.
Mi agitavo dentro alle mie manette, lui restava calmo. Mi portarono via.
Quella notte feci l’unica cosa che potevo: presi un pezzo della branda su cui dormivo e iniziai a lavorarmi la faccia. Gli zigomi richiesero tempo e fatica, e anche l’osso su cui poggiano le sopracciglia. Andai avanti tutta la notte, in silenzio, perdendo i sensi diverse volte e rimettendomi all’opera non appena mi riprendevo. Quando arrivò la guardia del mattino, ero riuscito a occuparmi solo delle arcate sopracciliari, degli zigomi e del naso. Il materasso era imbrattato di sangue.
Mi imposero misure restrittive sempre più severe, ma non cedetti. Passarono alcuni mesi prima che riuscissi a procurarmi il dente di una forchetta. Quella notte ricalcai una a una le mie rughe: tagliai e aprii i solchi, uno dopo l’altro, poi feci piccoli brandelli della pelle per creare nuove linee sul mio volto. Finii prima dell’alba.
Dissero che era stata colpa della guardia di notte, così la sostituirono con un uomo grasso, dalle guance ricche e sovrabbondanti. Era bravo nel suo lavoro e attento, non mi perdeva mai di vista. L’anno dopo mi procurai il tappo di una penna, con il quale finalmente mi occupai della bocca.

Ricordo il ricovero ospedaliero che seguì come il periodo più sereno della mia seconda vita. Oltre a imbottirmi di antidolorifici, mi avevano interamente fasciato la faccia. Neanche un centimetro di pelle scoperta, nessun lineamento affiorava da quella matassa di tessuto gonfia e informe. Nessuno specchio, nessun riflesso.
Poi, una mattina, mi fece visita Giulia. Non la vedevo da quando mi avevano arrestato.
Entrò nella stanza con un’aria strana. Mi salutò freddamente. Si fece vicina, indossò i guanti di lattice e si mise a srotolare la benda. Non diceva una parola, soltanto srotolava, passava il cotone imbevuto di disinfettante, riprendeva a srotolare.
L’afferrai per un polso: Giulia, le dissi, e nient’altro.
Lei ritrasse la mano e mi disse che era l’infermiera.
Riprese il suo lavoro. Ogni volta che la guardavo, era più simile a Giulia.

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A illustrare il racconto: Augustus Egg, Past and Present no. 1 (1858); e Edvard Munch, Sjalusi (1907)