Il bosco
Avevo comprato la casa vicina al bosco perché non riuscivo più a vivere in città, non dopo che le cose con Sofia si erano complicate sino a quel punto. Così avevo dato fondo ai risparmi per quel casale dalle mura ruvide, al limitare del bosco. L’agente immobiliare era stato onesto: costava poco perché non lo voleva nessuno. C’erano spifferi, gli infissi erano marci, la corrente ogni tanto saltava per intere giornate. Per raggiungerlo, poi, bisognava attraversare una lingua di bosco e farlo a piedi di notte era fuori discussione. «È come una prigione», mi disse sorridendomi inerme, «ma più fredda».
Ambientarmi naturalmente non fu un problema, dopo l’allenamento alla solitudine che la metropoli mi aveva inflitto per quasi quarant’anni. Dove prima c’erano luci e riflessi nelle pozzanghere ora c’erano batteri e muschi che avviluppavano tutto ciò che era troppo lento per fuggire. I gatti e i cani riuscivano sempre a cavarsela. Ricordo che si rincorrevano nell’alopecia del mio prato fra latrati e bestemmie e poi, come stelle cadenti, lampeggiavano per un tratto nel mio campo visivo prima di estinguersi nel buio.
Io e la casa ci capimmo molto in fretta. Ognuno aveva bisogno dei suoi spazi e dei suoi silenzi. Svuotai la cantina dai rifiuti dei precedenti occupanti e ricavai un piccolo spazio per lavorare sul retro, nella stanzetta che una volta doveva essere stata uno sgabuzzino o un deposito. C’erano ammassate tante cose di cui non capivo l’utilità: canotti, vecchi giornali, decorazioni natalizie, elenchi telefonici dalle pagine increspate dall’umidità. Scavai il mio nido fra gli scatoloni e gli diedi la forma cava e accogliente di un utero, poi piazzai la scrivania sotto la finestra per avere una vista perfetta sul bosco che incombeva verso la casa con una schiera dritta e angosciosa di alberi aguzzi.
Presto imparai a conoscere i suoni del bosco. Quando faceva buio aumentavano d’intensità, come se fosse il sole ad ammansire le bestie. Col buio finiva la pigra sonnolenza del giorno, lasciando spazio a un’inquietudine sommersa e diffusa che galvanizzava ogni creatura: i gufi si lamentavano, i cani ululavano alla luna. I gatti – con i loro occhi di cristallo e le loro pance pelose e flosce – si azzuffavano alzando grida oscene al cielo impotente. Tutto sembrava attivarsi in una follia che gli esseri diurni faticavano a comprendere.
Nel bosco non c’era luce né fiammella che rischiarasse le tenebre. Anche il sole e la luna, vigliacchi, se ne stavano rannicchiati dietro la coperta verde e soffocante degli alberi. Di notte mi dimenavo nel sonno perché la sentivo pizzicare sulla pelle come una malattia, la mia coperta verde e spessa di lana – la percepivo mentre si attorcigliava e lentamente mi stritolava. Prima del risveglio annaspavo, accendevo la luce, la sorprendevo mentre mi stava ingoiando dilatandosi con lenti spasmi ritmici.
La luce ubriacava le zanzare, molava i loro istinti denudandoli da ogni sonno. Così di notte erano allucinate e sveglie e si accalcavano freneticamente contro le zanzariere per oltrepassarle come soffi di vento. Io le adescavo col mio sangue, mettendomi in piedi a qualche millimetro dalla rete mentre il loro ronzare si faceva assordante. Le guardavo accanirsi contro la finestra e impazzire mentre bevevo vino sino a farmi sciogliere le gambe.
Poi crollavo sulla poltrona e mi addormentavo e loro una per volta si stancavano e desistevano o forse venivano allontanate da qualche ignoto predatore. Sentivo le loro urla feroci nei sogni, le sentivo minacciarmi e blandirmi con parole terribili quando mi abbandonavo al calore artificiale dell’imbottitura e all’illusione di sicurezza che i vetri della mia nuova casa erano in grado di regalarmi.
La foresta intanto persisteva. Mi atterriva e mi seduceva. Ogni mattina mi alzavo quando ancora era buio, mandavo giù una tazza di caffè e tre biscotti bianchi, poi uscivo. Con i guanti, il cappello, la giacca pesante. Passeggiavo lungo il sentiero che si snodava fra alberi secolari e arbusti contorti, alzando lo sguardo per non perdere mai contatto col cielo, per rimanere sempre una creatura d’aria nonostante la chiamata sguaiata della terra. Solo in questo modo riuscivo a sentire i rami sulla faccia e sulle mani tagliarmi la pelle senza farmi male.
Dall’interno del bosco potevo osservare il fuggire invisibile e fragoroso della vita che si nascondeva fra le foglie per scrutare meglio la mia avanzata. Quando avevo camminato abbastanza da dimenticare il percorso riuscivo a decifrare la via venefica dei funghi che istillavano sinistre consapevolezze nelle cortecce degli alberi e capivo istintivamente il micelio, che regnava sotto i miei piedi e compenetrava ogni cosa come un sovrano sommerso e assoluto, e gli escrementi degli animali incastonati come gemme odorose nel sentiero brullo.
La strada si faceva stretta, tortuosa; finiva. Dopo qualche passo nell’intrico degli alberi era impossibile capire dove fosse il sentiero. Allora mi voltavo, cercavo nei muschi e nelle orme scavate nel terreno gelato un indizio sul mio passaggio, ma non c’era più nulla. Nessun segnale, nessun indizio. Solo l’adrenalina impazzita, il sentore di essere preda. L’importante era non dimenticare dove fosse il cielo, come quando si finisce sott’acqua. Vai verso la luce e tornerai a respirare.
Alla fine riuscivo sempre a riemergere dal bosco. L’esperienza mi estenuava e mi eccitava. Tornavo a casa col fiato corto, le braccia e le guance graffiate dagli artigli dei rami, le unghie bordate di nero come quelle di un tombarolo. Era sempre una sorpresa vedere le piante diradarsi e sciogliersi in un prato selvatico per far emergere lentamente dalla nebbia la mia casa. Ogni cosa sembrava più luminosa, più colorata, più serena. Il brivido che avevo sulla schiena lentamente si distendeva in un crampo piacevole e poi svaniva. Il rientro ogni volta era un miracolo tascabile, un’occasione buona per bere due bicchieri di vino, accendere il camino e chiudere fuori dalle finestre la natura. Ogni tanto rimanevo a guardarla illividirsi e ingoiare il sole, mano a mano che la notte mi spingeva verso il sonno.
Un giorno venne a trovarmi un uomo che non conoscevo. Vidi i suoi piedi di cuoio disegnare un’ombra ineguale nel profilo della porta chiusa, prima ancora di udire il suo bussare affrettato. Mi si presentò come il custode. Aveva una divisa anonima grigia e un cappello da poliziotto, orlato di sudore. Entrò senza aspettare il mio invito, come se fosse un po’ padrone del bosco che includeva anche la mia nuova casa.
«Non è qui da molto», constatò.
Io annuii, gli servii distrattamente un caffè.
Volle anche un bicchiere di grappa, che ingollò subito chiudendo gli occhi, come di fronte a un medicinale spiacevole ma necessario.
Poi proseguì: «Mi dicono che l’hanno vista nel bosco, all’alba. So che può essere affascinante, ma non deve farsi ingannare. Il bosco è pericoloso».
Gli versai un altro bicchiere, rimasi in silenzio.
«Non sono qui per darle ordini. È lei il padrone. La invito però alla cautela. Chi non ci è nato fatica a familiarizzare col bosco e con i suoi ritmi».
«Mi vuole spaventare? È qui per minacciarmi?»
Lui si schermì, agitò le mani:
«Non mi fraintenda. Gliel’ho detto: comanda lei. In questa casa, almeno. Forse anche nel prato. Il bosco però è roba mia. Mi pagano per prendermene cura, capisce».
«Per chi lavora?»
«Il bosco ha le sue regole e anche lei le deve rispettare. Non ci si va di notte, non si abbattono alberi, non si mangiano i funghi, non si nutrono gli animali».
«Non ho intenzione di fare nulla di tutto ciò».
«Ora forse no. Ma le verranno strane idee. Venivano a tutti i proprietari. Quindi stia attento e non si faccia traviare da certi pensieri malsani».
Fu così che cominciai a nutrire le bestie. Non per bisogno di compagnia né per altruismo, ma semplicemente per sfida. Il custode aveva lasciato dietro di sé un odore malsano di corteccia e sciroppo per la tosse. La sua voce mi rimbombava ancora fra le tempie come un canto gregoriano.
Quel giorno stesso lasciai un piatto fuori casa, pieno dei miei avanzi. C’erano croste di formaggio, prosciutto, bucce di patata. Poggiai il piatto per terra, contro il muro del casale, in quella che ritenevo ancora mia giurisdizione. Quella notte sognai il custode e le sue scarpe di cuoio, mentre fuori le bestie del bosco gridavano e si rincorrevano. Quando fu mattino constatai con piacere che il piatto era stato svuotato.
Nei giorni seguenti variai dieta. Aggiunsi legumi e carne rossa, latte intero e torsoli di mela. Le bestie mangiavano tutto. Non riuscivo mai a vederle, sentivo solo che grufolavano di notte affondando il muso nella ciotola di ceramica. Di mattina solo i gatti, dai rami bassi su cui riposavano, mi rivolgevano occhiate ambigue che interpretai come assoluta gratitudine. Notai che avevano il pelo più lucido e che il ventre qualche femmina tricolore stava cominciando a gonfiarsi.
La foresta mi stava ringraziando.
Quando arrivai a preparare ogni notte otto piatti pieni di cibo, non ebbi più paura nemmeno dei cani. Sazi e annoiati, giravano in piccoli branchi e si dedicavano a scaramucce di poco conto con gli altri animali. Ogni tanto uno dei capibranco mi fissava col suo sguardo antico e rimaneva fermo in piedi davanti alla soglia di casa, senza mai abbassare le palpebre. Le sue zampe piantate nel muschio e nell’erba rada erano come pilastri ispidi.
«Salute a te, vecchio capo».
I suoi compagni non osarono mai uscire dalla boscaglia in mia presenza. Anche durante questo strano cerimoniale rimanevano tutti in attesa, con le orecchie dritte e le narici spalancate.
Speravo non capissero di potermi sopraffare.
Fu una conseguenza naturale del mio nuovo legame con gli animali: le mie escursioni si fecero via via più ardite. Una volta penetrai nel folto del bosco a piedi nudi, al tramonto. Di sera ogni anfratto vibrava con un suono grave e costante come un lamento, come la cantilena di una vecchia pazza. Il groviglio di rami si faceva sempre più folto mano a mano che procedevo verso la fonte del rumore: un fiume.
Si apriva come uno squarcio fra i muschi e i funghi strisciando con la sua anatomia sinistra, da rettile. Le scaglie rilucevano nere e preziose, le spire si annodavano alle rocce e si discioglievano in una cascata fragorosa non più alta delle mie ginocchia. Poi proseguivano, strisciavano, s’insinuavano sotto il terreno. Provai il desiderio di toccarlo per sincerarmi che fosse liquido, ma un brivido mi impedì di arrivare così vicino alle sponde: c’era qualcosa che mi osservava, dall’alto? Non vedevo altro che rami, eppure ero sicuro che qualcosa mi stesse seguendo. Avvertivo chiaramente il suo puzzo, un odore di sesso e di salsedine che sembrava alieno nella quiete paludata della foresta.
«Chi è?» gridai.
Non ci fu eco, non ci furono reazioni da parte del bosco che continuò a respirare il suo vento erbaceo e pietroso. Mi voltai diverse volte come per sorprendere un aggressore nascosto, e alla fine mi rintanai nel tronco cavo di una vecchia quercia per riprendere fiato e dare tempo al mio cuore di rallentare.
Intanto, dall’alto, qualcosa di appiccicoso mi colò lentamente sul collo.
«È resina».
Il guardiano studiava le macchie scure sul bavero della mia giacca. Mi aveva riportato a casa senza dire una parola, dopo avermi rinvenuto privo di sensi accanto al torrente. Mi ero svegliato nell’attimo esatto in cui le sue mani nodose mi avevano sollevato afferrandomi per le spalle.
«Ho sentito qualcosa che mi sbavava addosso».
«Sono gli alberi. Questa è resina, si sente dall’odore».
Toccò ancora il tessuto macchiato come per saggiare le proprietà fisiche della sostanza che stava esaminando. Poi la annusò, la grattò con le unghie.
«Perché continua a guardarla, se è così sicuro?»
«Perché è resina».
Prima di congedarsi caricò il fucile e levò la sicura. Mi parlò dei cani randagi e di altri animali irrequieti.
«Le suggerirei di non entrare nel bosco, per qualche giorno. La luna piena agita gli animali e rende le prede molto più visibili. Bisogna stare attenti in questi giorni. Bisogna essere pronti per…»
Un rumore lo distrasse. Lo osservai imbracciare il fucile e stringere i denti sino a farli scrocchiare. Oltre la soglia la notte brulicava di forme confuse. Mi sporsi con un brivido congelato nella spina dorsale e incrociai lo sguardo fugace di un gatto impegnato a dilaniare qualcosa di enorme e morente coi denti.
«Bisogna stare attenti. Bisogna…»
Il giorno dopo chiamai Sofia. Le parlai del bosco, della mia nuova vita. Sembrava contenta come lo sono tutte le persone che si sono liberate improvvisamente di un problema ingombrante.
«Tu come stai?»
Mi accorsi solo dopo mezz’ora che il filo del telefono era stato mangiato dai topi e che l’apparecchio era muto.
Qualche settimana dopo preparai un piatto di carne semicruda e lo mangiai in veranda mentre gli animali dal bosco si avvicinavano guardinghi alla luce giallastra della casa. Non erano esattamente cani. Camminavano su due zampe o strisciavano, talvolta saltavano come popcorn su una lastra bollente. Digrignavano i denti. La loro bava era come la traccia iridescente di una lumaca. Io li attiravo verso la casa e ridevo, poi rovesciavo i piatti con gli avanzi a terra. Li guardavo cibarsi di ogni cosa con uno strano senso di superiorità.
Io ero diverso. Dovevo tenerlo a mente. Avevo le posate, i piatti, le coperte. La casa d’improvviso mi sembrava qualcosa di determinante per distinguermi dagli altri animali. Il telefono, le forbici, le ante chiuse della dispensa. Un giorno – faceva freddo – mi svegliai e mi accorsi di essere steso sul pavimento di legno scabro della cucina. Qualche bestia era riuscita a sfondare una zanzariera e aveva fatto scempio della mia dispensa. C’erano brandelli di cibo sparsi dovunque, cartoni squarciati, macchie di latte. Raccolsi ogni cosa e riposi gli avanzi come si custodiscono reperti archeologici. Constatai solo alla fine che le mie mani erano ferite e i miei denti sporchi di sangue.
Parlai a lungo, di questo e d’altre cose, con Sofia. Mi rispondeva col rumore degli alberi e delle sirene lontane della polizia. Non avevamo più bisogno di telefoni, bastava il pensiero. Con lei ero me stesso, ero diverso. Ricordavo ogni cosa anche se mi faceva male ripensare a come era finita la nostra storia.
Il custode ogni tanto mi passava a trovare e mi portava notizie allarmanti dal bosco. Le bestie erano diventate pericolose. L’avevano aggredito, una sera erano pure riuscite a disarmarlo. Per fortuna aveva il suo coltello agganciato alla cintura. Per fortuna era capace di usarlo. Ribadì che era essenziale tenersi alla larga dagli alberi. Tutto ciò che sembra sicuro nasconde insidie, tutto ciò che pare in luce cela ombre minacciose. Come le nuvole, come il cielo.
Su Sofia l’ombra si era abbattuta nella forma di una zampa selvatica. Le era piovuta addosso da un angolo oscuro del cielo e si era allargata sino a colorarle la pelle di una tonalità che non le apparteneva. Era suo quel rosso? Era suo il blu dei lividi, il bianco lattiginoso degli occhi rivoltati?
Le bestie predavano i propri simili. Il guardiano me lo spiegò mentre mi sedeva di fronte con il fucile posato sulle gambe. Continuava a tamburellare con le dita sulla canna.
«Le bestie si stanno organizzando, in qualche modo hanno capito molte cose».
Annuii. Mi morsicai la pelle dura attorno alle unghie sino a farmi uscire il sangue. Le bestie avevano provato ad entrare in casa mentre dormivo. Avevano assaltato e distrutto il capanno degli attrezzi, in cerca di cibo, avevano ribaltato la jeep del guardiano da qualche parte vicino al torrente.
«Di cosa si nutrono?»
«Di altre bestie. Di funghi, di radici, di ricordi».
Le mie radici erano altrove. Mi sentivo sradicato, mutilato. Passavo ogni giorno molte ore steso sul pavimento. Mi piaceva il contatto col legno, con le sue vene aperte e disseccate. Mentre stavo a terra seguivo con i polpastrelli i percorsi tortuosi dei nodi e i labirinti scavati dalla linfa. Mi sembrava di riemergere. La sera cucinavo per me e per le altre bestie, poi mi spogliavo di ogni cosa e correvo nel bosco.
Non c’erano rumori, non c’erano ricordi. Solo altri animali coi loro respiri e la loro giustizia martoriata. Mi aggredivano non appena la luce della casa alle mie spalle si faceva abbastanza fioca. Non li vedevo mai, ma sentivo i loro denti affondarmi nei polpacci, sentivo le loro unghie straziarmi la carne.
Sofia era il mio cibo, la mia acqua, la mia casa. Lo avevo capito troppo tardi. Il mio sguardo si apriva su di lei come su un campo di grano. Sofia era luce e civiltà e ordine.
Ne parlai col guardiano. Provai a fargli capire il mio punto di vista, provai a parlargli nella lingua che mi era più congeniale, ma lo vidi sempre più preoccupato mano a mano che il mio discorso si srotolava in guaiti e barriti che incorporavano esattamente i concetti che mi maturavano lentamente dentro la testa. Avevo capito ormai che non esistevano parole più esatte di un ruggito.
«Non la capisco».
Fu allora che provai a parlare alle bestie. I miei latrati si persero e confusero nei loro latrati, in un’eco di odio e di rimorso che ci accomunava. Di notte, nel bosco, provai a parlare anche con Sofia, dovunque fosse, ululando alla luna con tutta la violenza di cui ero capace.
I piatti allora si ammassarono nel lavabo e con loro le mosche. Un unico manto nero si contorceva al mio passaggio e si posava come polvere sui vetri rotti, sugli armadi squassati, sulle mie membra dilaniate dal rimorso e da qualcosa che non riuscivo a capire.
Ripensavo a Sofia, a com’era finita, mentre gettavo alle bestie altra carne cruda. Il guardiano l’ultima volta che era passato mi aveva minacciato col fucile.
«Non ti avvicinare! Non ti avvicinare, ho detto!»
Poi aveva sparato. Non ricordo altro rumore, ricordo solo un muggito potente che aveva scosso le fondamenta della casa e ridato vita al legno secco con cui qualche sprovveduto l’aveva edificata, troppo vicina alla natura per poter sopravvivere.
Accanto alle confezioni di cibo sventrato che continuavo ad ammassare fuori dalla porta d’ingresso per le bestie era comparso il segnale che stavo aspettando: una scritta fatta con le unghie nella carne tenera del legno. “Grazie”.
Ormai le bestie erano dovunque. Le sentivo correre per i corridoi, cantare in bagno, farsi la doccia. Le sentivo discutere di politica e prendersi a morsi per un pezzo di pane, le vedevo nitide mentre mi osservavano come si osserva un televisore. Mi additavano coi loro artigli unti, mi sorridevano con le loro mascelle ferine piene di sangue dicendomi cose che faticavo a comprendere, gridando, poi mi portavano fuori trascinandomi giù dalle scale annoiate della casa, mi gettavano nel delirio dei grilli e delle zecche e mi dicevano di correre.
Vai, dicevano. Sei libero.
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A illustrare il racconto: Dark Path, fotografia di James Moxley (www.jamesmoxley.com); e J. Martin, A nocturnal scene with saurians and sea-creatures fighting each other in the water (1840; particolare)