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La vela sul dorso

Autore
Giulio Iovine
Ciclo #16 - Lo spaghetto dimezzato
Narrativa generale
20 ottobre 2023

Guarda come son tranquilla io
Anche se attraverso il bosco
Con l’aiuto del buon Dio
Stando sempre attenta al lupo
L. Dalla, Attenti al lupo

L’unica cosa positiva dell’inverno, almeno dove abito io, è che è breve. In un paio di mesi la parte brutta è passata e la pianura torna piena di sole, boschi e vapori. La nonna mi ha rivelato che il nostro inverno non è nemmeno il più rigido concepibile, ce ne sono di peggiori, addirittura posti in cui la temperatura va sottozero. Considerato quello che sopportiamo con il nostro, non voglio nemmeno provare ad immaginarmeli.

Di notte, naturalmente, stiamo al chiuso. La scorsa estate abbiamo trovato, tra le rovine della megalopoli, un edificio tutto sommato ancora intatto, e al pianterreno un salone di grandi dimensioni con dei loculi incassati nelle pareti, dove facciamo il fuoco la sera. Ci chiudiamo poi a chiave nella sala, ci stringiamo l’un l’altro sotto una cinquantina di piumoni, e ci addormentiamo nel tepore. La mattina dopo però la sala è quasi tornata alla temperatura dell’ambiente esterno, e siamo costretti a cercare il sole.

Uno dopo l’altro, in fila ordinata, usciamo all’aria aperta. Il freddo improvviso immediatamente ci rende torpidi e comatosi. Con fatica tremenda mettiamo un piede davanti all’altro. Stringo la nonna per mano, con il terrore che stavolta non ce la faccia. Attraversiamo gallerie scavate nei grattacieli crollati, superiamo blocchi di cemento e di vetro, fino all’antico parco sulla collina, che è esposto a oriente e fin dalle prime luci dell’alba riceve tutta la radiazione solare. Arriviamo lì ormai sulle soglie del coma, l’organismo che minaccia di chiudere bottega, e ci sparpagliamo sul grande prato, pronti ad innalzare la vela dorsale.

Non ci vuole molto, è un meccanismo automatico – ci togliamo magliette e camicie, rimaniamo a torso nudo, carponi sull’erba; e gli estensori delle vertebre, da ripiegati sottopelle che erano si innalzano verso l’alto, perpendicolari alla spina dorsale. Sono cinque in tutto e sostengono un’ampia vela di pelle che corre parallela alla schiena ed è alta, quando siamo a quattro zampe, quasi quanto un uomo. Il cervello, sentendo la vela spiegarsi al sole, apre automaticamente i capillari che la percorrono – aumentano il battito cardiaco e l’afflusso del sangue. In meno di un’ora, scaldato dal sole, il sangue passa da quindici a trenta gradi, ed eccoci pronti per iniziare una nuova giornata.

Mentre aspetto di essere caldo abbastanza, di solito mi guardo intorno; e anche se li conosco da un vita osservo ancora con meraviglia gli edifici sfondati e distrutti, le montagne in lontananza coperte di neve, il bosco percorso dalla brina appena fuori dalla megalopoli, i rami secchi e i cumuli di foglie vermiglie sotto lo strato di nevischio. Stanotte ha quasi gelato. Vicino all’imbocco della valle dove sorgeva la megalopoli è ancora visibile, in lontananza, lo spazioporto, con i relitti delle astronavi buttate intorno alla rinfusa come giocattoli. Quando ero piccolo nonna mi raccontava che i nostri cugini uomini un tempo vivevano qui, e poi se ne erano andati per sempre, su navi come quelle, che non navigavano sul mare, ma nel cielo.
E io, curioso:
– Non potevano portarsi via pure noi?
– No, tesoro. Noi eravamo meno efficienti.
– I cugini avevano il sangue sempre caldo?
– Sì, come… che ne so, come le papere, spiegava nonna. – O i topi. D’inverno si coprivano bene ed erano a posto.
Oggi però allo spazioporto rivolgo solo uno sguardo distratto. Come pure alla mia povera nonna, che si lamenta dei reumatismi. A pochi metri da noi si stanno riscaldando i signori Warley, madre padre e figlia. La figlia si chiama Arabella e ha la mia età. Ad un certo punto si accorge che la sto guardando e si volta verso di me.

Siamo entrambi carponi e a torso nudo. Posso vedere la sua pelle liscia e i suoi seni rosei. Ma quello che mi attizza di più è il disegno sulla sua vela dorsale, fatto a cerchi neri riempiti di colori caldi, su uno sfondo color terra rossa – un tipico pattern delle ragazze, molto sexy, se posso dire la mia. Sicuro di avere la sua attenzione, agito la mia vela, mettendo in evidenza la campitura azzurro oceano sulla quale sono disegnate sequenze geometriche, poligoni e sfumature in verde, giallo e blu – decorazione classica di noi maschietti. Nonna una volta mi ha fatto vedere un acquerello, e in effetti le nostre vele sembrano dipinte così. Sempre a quattro zampe, mi avvicino ad Arabella e le chiedo:
– Ti andrebbe di andare a raccogliere con me, oggi? Vorrei che stessimo un po’ da soli.
– Oh, volentieri, risponde lei. – Vorrei stare anch’io sola con te.
(Così sembra facile, ma credetemi – non lo è stato. Ci ho messo mesi prima di avere il coraggio di rivolgerle la parola.)

Finito il riscaldamento, sempre con la vela esposta perché il sole d’inverno dura poco, io e Arabella ci avviamo verso il bosco a sud della megalopoli, il pugnale avvelenato appeso alla cintola e il cestino attaccato al braccio. 

Prima di entrare negli spazi tra i grandi tronchi, smettiamo istintivamente di parlare e controlliamo le tracce per terra. La foresta è abitata da molte creature, alcune conosciute, altre senza nome e che non incontriamo spesso. Una in particolare è molto pericolosa, e siccome cammina trascinandosi dietro la coda, è abbastanza facile capire dove è passata. Eccola là, una scia nella fanghiglia nevosa. La seguiamo in punta di piedi a coltello spianato, fino a che gli alberi si diradano in una breve radura che precipita verso il basso in un precipizio ampio come uno sbadiglio nella roccia. 

Sull’orlo del baratro, un dimetrodonte sta fissando il cielo azzurro senza una nuvola e il resto della vallata. È seduto sulle quattro zampe, le mandibole chiuse a proteggere la chiostra di denti a rasoio. La sua vela dorsale, simile alla nostra e con la stessa funzione, è girata controsole, probabilmente perché si è scaldato troppo e deve rinfrescarsi un po’. Forse sonnecchia. Appurato che non è a caccia, ci dileguiamo con discrezione. Con queste bestiacce non si è mai troppo attenti, sono brave a nascondersi nel sottobosco e a saltarti addosso, e hanno un morso come una tagliola. Sbriciolano le caviglie, staccano piedi, mani, braccia, rompono teste. Quando ero piccolo si sono presi la mia mamma, e l’anno dopo mio padre e suo fratello. Ecco perché ora siamo solo io e nonna.

Dopo mezzo chilometro a camminare in silenzio nel bosco, capitiamo in un’altra radura piena di sole, la brina ormai sciolta e il sottobosco che emerge nel fango cotto. Una serie di muggiti e borborigmi ci annunciano una piccola mandria di edafosauri, le vele rossicce che rilucono al sole di mezzogiorno. Niente panico, sono erbivori, e quando il cibo abbonda sanno essere molto tolleranti. Ci puoi camminare intorno e ti ignorano felicemente. Sono bravissimi a ficcare il loro muso a punta nella fanghiglia e nel terreno molle, strappando radici e tuberi; pelano le parti basse dei cespugli (vanno matti per i nocciòli) e degli alberi. Quello che scartano è tutto nostro; dove non fanno in tempo ad arrivare, passiamo noi. In capo a un’ora abbiamo i cestini pieni di cipolline, patate dolci, carote, nocciole, castagne e rape.
– Andiamo a vedere i papaveri? Forse sono fioriti, dice Arabella rompendo un lungo silenzio.
Lasciamo in pace gli edafosauri, deviando verso un’abetaia che lentamente digrada verso un torrente, che attraversiamo là dove si può guadare, per sederci in un grande prato punteggiato di poinsettie, mirtacee e gelsomini, in un delirio di blu, rosso fuoco e oro. Su tutti svettano radi i papaveri orientali, che normalmente fiorirebbero d’estate, ma che nell’inverno (per loro) mite riescono a volte a rifiorire nella brutta stagione. Fluttuando sul pelo dell’acqua o vagabondando per le due rive, decine di papere di ambo i sessi ammazzano il tempo.
– Ci pensi a quanto sono fortunate?, chiede lei. 
– Chi?
– Le papere.
– Perché?
Arabella sospira, orientando delicatamente la vela verso il sole.
– Il sangue sempre caldo. E le piume che fanno da isolante. Potrebbero resistere a inverni cento volte più brutti.
– Ehi. Mi sembra che noialtri siamo ancora tutti vivi. Più o meno.
– Quelli che non si mangiano i dimetrodonti.
– Vabbè, ma quello non è colpa dell’inverno.
– Vero. Ma comunque mi piacerebbe non rischiare di morire congelata ogni notte nei prossimi due mesi.
– Arabella, pensa a cose dolci. Le papere stanno per fare i nidi. Tanti piccoli nidi tra i giunchi.
– Giusto. Mangeremo uova.
– Mannò, femmina senza cuore. Pensa a quante paperette sull’acqua. Non ti piacciono le paperette?
Arabella mi guarda dalla punta dei piedi alla nuca, soppesandomi. Si vede che ci pensa per bene prima di dire:
– Fitzwilliam, io e te fra un po’ copuliamo.
– Magari.
– No, non magari, succede proprio. Però ho una domanda.
– Spara.
– Tu mi sembra che da questa copula ti aspetti dei bambini.
– Mi aspetto molte altre copule, e sì, anche bambini. Tu no?
– Siamo d’accordo. Però la tua frase sulle paperette mi ha ricordato una cosa. Da tanto che ti osservo e ti ascolto mentre parli con i nostri amici, ho l’impressione che tu su questa cosa dei figli ti sia un po’ fissato.
– Dici.
– Sì. Per me non è un problema, eh. È una curiosità, tutto qui.
– Bisogna che facciamo bambini perché… be’, per rimanere vivi.
– Mica si vive per sempre, da genitori.
– Intendo, come specie. È importante che sopravviviamo e ci moltiplichiamo.
– Perché?
– Per darla in culo ai cugini umani.
– Che ti hanno fatto adesso, i cugini umani?
– Ci hanno creati e poi lasciati qui. In un posto dove siamo sempre e comunque intrusi.

E qui sono pronto a ripetere per la duecentesima volta quello che nonna ci dice da quando siamo piccoli: che noi con la vela dorsale non dovevamo esistere proprio, che i cugini umani ci hanno fatto nascere in provetta innestando pezzi di codice genetico da animali diversi, che tutti noi ectotermi, dimetrodonti edafosauri e noialtri, nessuno di noi si è evoluto in questo clima o in questa regione, e con la fatica che facciamo a campare, vuoi anche darla per persa ed estinguerci? Ma Arabella mi blocca prima che io cominci con un dito sulle labbra.
– Non queste scemenze, Fitzwilliam. Voglio sapere perché tu vuoi dei bambini. Tu personalmente, Fitzwilliam De Vere.
Prendo un respiro profondo, e:
– Io ho voglia di avere bambini perché sono solo al mondo, e voglio una famiglia intorno a me.
– Non sei solo al mondo. C’è tua nonna con te.
– Nonna è l’ultima rimasta. Ed è fragile. Si contrae tra le mie mani quando l’abbraccio. Ho sempre paura che un giorno se ne vada, e allora eccomi perduto per sempre.
– Ma chi ti perde, a te. Ci siamo noi. La tua gente. E ci sono io con te.
– Arabella, lo so, però come spiegarti? Non è proprio la stessa cosa. Mi ricordo come stavo bene quando c’erano mamma, papà e zio. Era come andare in giro circondati dal calore, anche se fuori faceva freddo. E poi uno dopo l’altro se ne sono andati. Siccome non li posso riavere, mi accontenterei di diventare io mamma, papà e zio.
– Questa non l’ho capita.
– Non la capisco bene nemmeno io, abbi pazienza. È come se quell’amore che mi è mancato non abbia fatto il vuoto dentro di me; ma si sia fatto amore a sua volta dove prima non c’era niente, ed è cresciuto e cresciuto, e ora trabocca. Deve uscire, mi spiego? Deve colare su qualcun altro. Su di te, va bene, ma anche su qualcosa di nuovo. Che sia uscito da me.

Arabella è commossa: 
– Oh, Fitzwilliam.
Tossisco educatamente, e:
– E poi sì, mi arrapi anche molto. 
– Oh, Fitzwilliam!
– Insomma, non li farei proprio con chiunque, questi figli.
– Oh, Fitzwilliam!!
Abbiamo le vele al sole, il sangue che bolle – cominciamo a morderci sul collo e sui fianchi. Il morso produce una scarica di ossitocina, e Arabella si spoglia nuda, mettendosi carponi davanti a me, la vela ripiegata sul dorso e la schiena percorsa da due cerchi rossi e umidi.

Copro di graffi la schiena di Arabella facendola mugolare, i cerchi rossi sempre più umidi e vaporosi. Apre le gambe, permettendomi di inserire uno dei miei due membri nella sua cloaca. (Se non sei bravo, la cloaca non si apre.) Infilo il membro con delicatezza e per gradi, dando ossequiosamente retta a tutti gli ordini di Arabella finché non aggancio la mia punta ad uncino sul fornice vaginale anteriore, dove Arabella è più sensibile. Rimaniamo così incastrati una buona mezz’ora, rincretiniti dai cortocircuiti del sistema limbico. Al momento dell’orgasmo, i cerchi rossi sulla sua schiena diventano paonazzi, e Arabella viene. Sul punto di cedere, estraggo il membro lo punto sulla sua schiena – la mia sbobba, simile alla pece nel colore e nella consistenza, viene assorbita dai cerchi rossi. Stremati, giacciamo l’uno tra le braccia dell’altra, a vele aperte verso occidente per pescare il sole del pomeriggio.

Torniamo mano nella mano alla tana del nostro clan, il salone al pianterreno dove passiamo la notte, i cestini pieni e lo sguardo ebete. Gli amici ci deridono con affetto. Lei va dai suoi genitori, io da mia nonna, per annunciare che stiamo insieme e che lei darà presto alla luce i nostri due figli. I due cerchi sulla schiena di Arabella erano ciascuno l’imbocco alle sue tube di Falloppio, che ho fecondato. 

Nonna ascolta quello che ho da dire e mi guarda perplessa.
– Ma Fitzwilliam, non ti sembra che si potesse aspettare ancora un po’?
– Perché, nonna?
– Rimanere incinte d’inverno è una faticaccia. Credimi sulla parola. Costa un sacco di calorie. Povera Arabella! Non ci avete pensato?
– Non ricordo, forse sì e forse no. Ma porta pazienza nonna, sono mesi che io e Arabella volevamo accoppiarci. Non potevamo più tenerci addosso i calzoni. È l’amore. Sarai pure stata innamorata anche tu.
Poi le dico all’orecchio:
– Dai, dimmi che non ti divertiresti a tenere un bisnipote in braccio per un po’.
– Sembra ieri che tenevo te, risponde lei.
– E allora dammi la tua benedizione, rispondo abbracciandola di sorpresa.
Nonna non ama gli abbracci e non esagera mai con l’affetto esplicito. Sento dal suo corpo rigido che sta provando con tutte le sue forze a non intenerirsi. A un certo punto si arrende, ricambia il mio abbraccio ma non dice una parola. Però si sente che è emozionata anche lei. Il sole del tramonto improvvisamente sbuca tra gli edifici cadenti e ci investe in pieno: istintivamente spieghiamo le vele dorsali e allarghiamo i capillari, assorbendo l’ultimo calore della giornata prima del sonno, dalla punta dei piedi alla nuca.