Visore
«Allora, Baby? Che ne dici?»
Con le mani sui fianchi, Phelan le mostrava fiero il pene eretto. Spiccava dall’accappatoio di ciniglia come una robusta trave, così dura da potersi appendere. Il giovane uomo era rimasto in piedi di fronte alla doccia, quasi per sfida, penetrando Daisya col suo sguardo magnetico. I due si osservarono una manciata di secondi senza dire una parola, lui col visore ancora indossato; poi, lei abbassò lo sguardo sul suo Galaxy per scrollare i feed di Instagram in arrivo. L’indice scorreva svogliato, assegnando cuoricini con una raffica del tutto meccanica. Phelan si era sfilato l’accappatoio dalle spalle larghe, lasciandolo cadere sul parquet della camera. Aveva appena terminato una doccia rigenerante per sgrassare la pelle dal sudore di quell’umida giornata primaverile. Minuscole perline d’acqua gli scendevano sul corpo, percorrendo le scanalature dei suoi addominali scolpiti. Alcune terminavano il percorso nel cespuglio del pube, altre proseguivano verso le cosce tornite. Dietro la porta della grande camera da letto una domestica spiava la scena dall’uscio socchiuso, spalancando la bocca alla vista del monumentale fallo del suo padrone. Sapeva che se l’avessero scoperta sarebbe certo stata licenziata, ma la voglia di guardare la scena era irresistibile. Phelan si avvicinò a un palmo da Daisya, quel tanto che bastava perché lei sentisse l’acre profumo del suo glande gonfio di desiderio.
«Cioè… non hai niente da dire, Daisya?»
«Non mi va Phelan. Scusa.»
«Scusa? Un cazzo così e tutto quello che sai dire è “scusa”?»
«Eh.»
«Neanche mi guardi, Baby! Non mi degni neanche di un dannato sguardo!?»
«Hai ragione, non volevo essere maleducata.»
«Beh, lo sei stata comunque.»
«Ecco, Phelan: ora ti sto guardando.»
Daisya ripose il cellulare nella pochette firmata, poi guardò il suo fidanzato come se fosse un foglio di vetro. I suoi occhi cercavano qualcosa che sembrava fosse al di là di Phelan. Lui colse l’occasione per portare la mano della ragazza sul pene. Le sue dita ossute, smaltate di corallo, faticavano a impugnarne il corpo venoso. Daisya lo sentì pulsare d’impazienza, come un cavallo che batte gli zoccoli a terra appena prima che il rodeo cominci.
«Questa è la mia Baby. Ora sì che ci siamo.»
«Ti ho detto che non mi va.»
«A me sì, però. Comincia a tirarlo, dai.»
«Sei insopportabile quando fai così.»
Daisya sfregò l’asta con poca convinzione. Lui le accarezzava i capelli castani, raccolti da una molletta in una coda di cavallo. La domestica continuava a spiare dal suo nascondiglio, ora più tranquilla, di certo non si sarebbero accorti di lei nel vivo dell’azione. Rubava scampoli di quella scena senza dignità alcuna. Il suo unico scopo consisteva nel godere del godimento altrui per farlo proprio.
«Comincia, Baby. Comincia, che poi ti viene la voglia.»
«No. Non mi viene la voglia.»
I movimenti della mano di Daisya, anziché aumentare d’intensità, tenevano sempre la stessa cadenza. Come una sarta, stanca alla fine di una lunga giornata di tessitura. Phelan cominciava a sbuffare, deluso da come si stavano mettendo le cose. La prodigiosa erezione di pochi minuti prima perdeva gradualmente di potenza. E lui un flop del genere non sapeva accettarlo. Lui era un uomo ostile all’idea del fallimento. Lui amava vincere, a ogni costo.
«Assurdo, Baby. Dico sul serio.»
Daisya ritrasse la mano dal pene moscio, che ora penzolava triste verso il pavimento. Poi si alzò dal letto per scrutare le nuvole gonfie. Era in arrivo acqua, forse portata da un capriccioso monsone dell’ovest. I cani abbaiavano alla luna, già visibile in alto. La sua faccia arancione giocava a nascondino tra le nubi. Era dalla mattina che dalla Back Bay spirava odore di pioggia. Phelan si rivolse scontroso verso Daisya, che rispondeva continuando a dargli le spalle.
«Dico io, Baby… Ma cos’è che ti manca?»
«Non è colpa tua, credimi.»
«Ah, sì, certo. La conosco la storia.»
«Nessuna storia, guarda…»
«Sono giovane, ricco, atletico. Posso avere tutte le ragazze che voglio, ma ho scelto te.»
«Questa è stata una tua libera decisione, Phelan. Non devi giocartela ora contro di me.»
«Ma tu hai una vaga idea di quante me ne potrei scopare se volessi metterti le corna?»
«Tantissime, immagino.»
«Però non lo faccio. Non l’ho mai fatto amore mio.»
Phelan attraversò con poche, ampie falcate la vasta camera da letto, sfiorando la spalla di Daisya, che si spostò con un secco passo laterale. L’uomo si rivolse a lei tradendo una sfumatura di rancore nella voce. Una nota dissonante nascosta all’interno di un accordo ben eseguito.
«Ti ho aperto il mio cuore. L’uomo che sono. Tutto quello che ho è tuo.»
«Lo so bene. Te ne sono grata.»
«Allora cos’è che vuoi? Cosa ti manca? Dimmelo, Daisya, cazzo!»
«Non essere così aggressivo. Ti ho anche detto che tu non c’entri niente.»
«Sarà anche come dici, ma intanto sono io che rimango con le palle piene di sperma!»
«Fatti una sega, allora. Non farla tragica.»
Phelan tirò un pugno allo specchio accanto alla finestra, incrinandone la superficie con una ragnatela di frammenti spezzati. Il suo volto riflesso pareva irriconoscibile. Si chiese come fosse stato possibile per lui e Daisya arrivare a quel punto. Si amavano così tanto, fin dalle scuole superiori. E ora lei gli dava le spalle, guardando al di là della villa in cui fino a quel giorno avevano condiviso le loro vite, fianco a fianco. Un gigantesco nido reso possibile dagli ingenti guadagni dell’App sviluppata da Phelan. Ma fino a che punto quel sentimento si era conservato genuino? E in quale punto era scaduto, invece, in una forzatura? Forse le due anime di quell’amore controverso avevano sempre convissuto, tra le pieghe di una quotidianità che aveva finito per mescolarne le contraddizioni? Phelan si accorse di essere rimasto nudo come un verme. Recuperò l’accappatoio, mentre la domestica si ritirò discreta, storcendo la bocca. Niente più sesso da spiare, ma aveva registrato un video col cellulare per masturbarsi in bagno, più tardi. Phelan alzò la voce, del tutto spazientito:
«Voglio che torni quella di prima, Daisya.»
«Nessuno può tornare com’era prima.»
«Ti sbagli, invece! Io sono quello di prima. Quello di sempre. Tu perché non ci riesci?»
«Perché sto cambiando.»
«Ok, ho capito. Dimmi cosa vuoi. Un nuovo gioiello? Un abito su misura? Un viaggio esclusivo? Qualsiasi cosa. Spara.»
«Vuoi comprarmi, allora?»
«Ma no, maledizione!»
«Molto triste da parte tua.»
«Nessuno vuole comprarti, Baby. Però magari un bel regalo ti aiuta a ritrovare l’amore.»
«Ah. Non sapevo che l’amore funzionasse così.»
Daisya si volse verso Phelan, liberando la sua coda di cavallo in una piccola cascata di capelli castani. Tornò verso il letto, dove aveva posato la Vuitton con l’I-Phone, ammonendo Phelan.
«Mi spiace, ma stai rendendo tutto ancora più difficile.»
«Daisya. Lasciami spiegare, per favore…»
«C’è ben poco da spiegare. Mi consideri come uno dei tuoi oggetti.»
«Daisya, come fai a dire questo? Dopo tutto quello che ho fatto per te…»
«Bravo. Così. Continua a rinfacciarmi tutto il passato, come se amarmi fosse stato un investimento che ora dovrebbe fruttarti un utile.»
«Vaffanculo, Baby.»
«No, Phel. Vaffanculo tu.»
«Adesso chi è l’insopportabile?»
«Vedila così: se sono insopportabile, allora meglio che me ne vada.»
Daisya afferrò la maniglia della porta della camera, tentennando con la mano sull’impugnatura. Al tatto era fredda, quasi ghiacciata. Non aveva intenzione di proseguire quella discussione col fidanzato, non aveva nulla contro di lui. Semplicemente, non aveva voglia di fare l’amore. Né con lui né con nessun altro. Lo amava ancora, di questo era convinta. Ma, da qualche tempo, avvertiva l’esigenza di guardarsi dentro. Di cercare qualcosa altrove. Sentiva un vuoto nel suo animo che andava colmato. E che non poteva riempire con l’ennesimo oggetto costoso. Bisognava guardare in faccia la realtà. Non avrebbe potuto risolvere la situazione restando sotto l’ala protettrice di colui che aveva sempre provveduto ai suoi bisogni. E lei questo l’aveva capito bene.
“Fermami, Phelan, fermami”.
Pensava intensamente, trattenendosi davanti alla porta come se qualcuno col telecomando avesse puntato verso di lei pigiando sul tasto stop. Il giovane uomo la guardò titubare, sperando che ci ripensasse all’ultimo momento. Gli sembrò di sentirla singhiozzare da lontanissimo, rannicchiata in un cratere sulla luna. Non osò dire una parola, pregando gli Dèi che la fermassero.
“Non andare, Daisya, ti prego”.
Phelan vide la sua fidanzata uscire dalla porta della camera al rallentatore. Gli parve di assistere a quella scena, piuttosto che di viverla. Avrebbe voluto fermarla, afferrarle un polso, girarla verso di sé e stringerla per un bacio appassionato. Uno di quelli che tolgono il fiato ed accelerano il battito del cuore a mille all’ora. Proprio come nei film più romantici di Bollywood. Ma era una scena che aveva soltanto immaginato, mentre la vita scivolava avanti e gli portava via un altro pezzo del suo amore. A lui, che aveva sofferto il tragico distacco dai genitori quando aveva solo sei anni. Un disastro sulle rotaie alla stazione di Mumbai. Il karma lo aveva risparmiato, Phelan era stato cresciuto dai volenterosi nonni i quali, seppure in età avanzata, non si erano tirati indietro al dovere familiare e morale. Avevano offerto al bimbo tutto il poco che avevano, serbando per se stessi lo stretto necessario a sopravvivere nella periferia della megalopoli. Lavoretti da saltimbanco, risparmi di sangue, sorrisi a volte forzati. E la ruota della vita girò. Girò. Finché Phelan vinse una borsa d’informatica presso l’Indian Institute of Technology. Gli stenti e le difficoltà dell’infanzia lo avevano reso competitivo in campo scolastico e volenteroso in campo sportivo. Si fece onore agli esami e sfruttò le palestre per potenziare i centottantotto centimetri del suo fisico rinsecchito. All’inizio era esile come uno spillo, veniva canzonato. Poi si fece sotto. Ce la mise tutta. Guadagnò un fisico prestante che lo rese appetibile a molte ragazze del campus. Gli facevano la corte almeno una dozzina di studentesse, tutte molto carine, senza contare che ci provò con lui persino una professoressa. Ma Phelan voleva fare l’amore soltanto con la dolce Daisya, unica deva, consacrato a lei come il tempio di un dio minore. Eppure, lei gli era appena sfuggita dopo un litigio del tutto evitabile. Quale non lo era, d’altronde? Il giovane uomo ripensava alle parole che si erano scambiati quella mattina, il loro scontro tra monologhi, girando in tondo nella grande camera da letto come un architetto in cerca delle misure giuste. Non si capacitava di averle permesso di aprire la porta senza dire nulla. Senza fare nulla.
Sprofondò in un ampio Chesterfield in pelle nera, contemplando la sua vita che prendeva una piega inaspettata. Proprio a lui, che riusciva sempre in qualche modo a raddrizzare le curve che gli si storcevano davanti. Fissò per qualche tempo un quadro moghul appeso al muro, osservandone i vividi contrasti tra tonalità calde e fredde. Rimase così per un pezzo. Poi accese un dispositivo di Realtà Aumentata per avviare l’App che l’aveva reso ricco, PlugLife. Con un comando vocale avviò As It Was all’interno dell’ambiente riprodotto nel visore. Ascoltando i tormenti di Harry Styles avrebbe voluto piangere. Lo avrebbe fatto se solo avesse potuto, ma non ci riuscì. Allora digitò un comando sull’interfaccia e la stanza virtuale si riempì di lacrime.
A illustrare: Flavio d’Ippolito e midjourney, “Visore”