Blackout

Autore
Antonio Potenza
Ciclo #6 - Aggiungi quattro posti a tavola
Narrativa
19 agosto 2021

Di fatto Alberto aveva solo quel rottame bianco che sputava un debole fiato di aria. La televisione nell’altra camera incoronava l’estate del 2003 come la più calda mai registrata. Il volume trapassava le pareti di casa di nonna, perché né lei, né papà, né lo zio sentivano bene. Sua madre e sua zia mangiavano un ghiacciolo dall’altro lato della camera, i cugini dormivano sulle loro gambe. Lui, invece, appesantito dall’afa aveva deciso di allontanarsi nella camera da letto di nonna, che era più fresca, dal soffitto alto e lì non batteva il sole. Come un paguro in allarme, rimaneva fermo immobile, tramortito o ipnotizzato dal suono metallico delle pale del ventilatore rotto.
Avrebbe voluto dormire o essere al mare, ma zia non poteva prendere il sole del primo pomeriggio. La controra, diceva nonna, era meglio farla in casa e andare a fare il bagno verso le sedici. Il sonno non arrivava. Il letto era diventato invivibile. Si mise seduto al centro, direzionando l’aria fresca verso di sé, senza notevoli risultati. Dalla cucina arrivava una canzone inglese, che aveva sentito più volte. Gli succedeva spesso che quelle note si sposassero nella sua mente con certe fantasie romantiche in cui il piccolo golfo di Santa Maria al Bagno faceva da sfondo. Dall’altra parte ci poteva essere qualsiasi ragazzetta. Dalla fisionomia sbavata e dalle espressioni confuse, nelle sue visioni quella lei lo amava, finalmente. Il brano risuonò attraverso le pareti della cucina, poi della camera da letto. Alberto si concentrò per sentirla in modo più chiaro. La riconobbe: It’s good to be in love, di Frou Frou. 
Assieme alla melodia dalla finestrella della camera soffiò un lieve vento, appena più fresco dell’aria estiva, decisamente più corposo del soffio del ventilatore sbilenco. Il profumo di iodio riscaldato gli arrivò al naso aggiungendo un nuovo senso alle fantasie provocate dalla canzone. Così, una certa pressione si concentrò tra le gambe, pulsando a ritmo: nella sua fantasia quella ragazza gli chiedeva di svegliarsi.  
Arrivato in cucina, la canzone attaccava proprio sul ritornello, ma nella sorpresa dei presenti la televisione fece uno sbuffo strano, quindi il buio inghiottì le immagini in modo improvviso. Mamma e Zia scattarono dal divano con lo stecco del ghiacciolo ancora in mano. Suo padre sbuffò appena, soverchiato dal sonno post-pranzo. Nonna divenne rossa in viso e andò all’interruttore della luce. Lo sfinì inutilmente con il dito indice. Poi zio pronunciò una nuova parola: blackout. 
Non avere più un televisore e un ventilatore funzionanti, significava per Alberto essere destinato a perdere i confini del proprio tempo nel pigro intestino della noia. 
Casa di nonna però non distava troppo dal mare. 
Anzi, sulla strada parallela si snodava l’asfalto bruciato del litorale. Alberto lo immaginò dilatarsi all’orizzonte come liquefatto da onde trasparenti, finché il flusso dei suoi pensieri non venne interrotto dal respiro cavernoso di suo padre, colto dall’improvviso torpore. Il sole rimaneva ancora troppo forte per zia, che insieme a sua madre decise di andare a riposare. Così ad Alberto non restò che attendere finché l’incantesimo dei pomeriggi d’estate non fu compiuto: Mamma e Zia dormivano con le braccia penzoloni su due vecchie poltrone di feltro, i cugini erano ancora aggrovigliati come cavi elettrici nello stesso letto rovente, mentre i restanti componenti della famiglia giacevano come narcotizzati nel lungo divano rosso del salotto, a guardare ad occhi chiusi una scura televisione spenta. 
Quindi di soppiatto, Alberto schivò quella serie di corpi inermi e si incamminò verso il mare.
Dalle case basse con le porte aperte, non arrivava nessun rumore. I vicini di casa, anch’essi vittima del blackout, avevano preso le stesse decisioni. Solo il frinire dei grilli e il rumore delle sue ciabatte rompevano quel silenzio luminoso.
Alberto, divertito, decise di spiare dentro quelle case. Era come ritrovarsi in un mondo vuoto e a propria disposizione. Con il viso allampanato, metteva il naso nelle vite degli sconosciuti, con la voglia di inoltrarsi in quelle caverne esotiche. Ma era un rischio troppo grande. Decise allora di limitarsi a osservare. 
Dall’uscio della prima abitazione sulla via del mare, oltre la tenda di fili di plastica, proveniva un leggero brusio, che divenne presto un rumore più distinto, infine delle parole accompagnate da una musichetta. L’istinto gli suggerì si trattasse di una televisione. Guardò per un attimo il mare brillare candido alla fine della strada, sentì la paura di essere scoperto svanire e coraggioso fece un passo verso l’interno dell’abitazione. Davanti a lui si dipanava un lungo corridoio. Il varco stretto e piuttosto scuro, ai lati lasciava spazio a quattro porte, ognuna delle quali portava in una stanza, o destino, differente. Tuttavia quello di Alberto era scritto: ultima porta a sinistra. Da lì il vocio, passo dopo passo, si trasformò prima in un balbettio irriconoscibile, poi in una canzone. Si affacciò oltre la porta: una bambina con la schiena curva osservava un televisore sorprendentemente acceso. Nello stesso istante la fanciulla si voltò e Alberto riconobbe la canzone dei Frou Frou. Un momento dopo la bambina sorrise: ciao, chi sei?
Alberto alzò il dito verso il televisore: «Fuori quei cosi non funzionano più».
Davvero? Rispose lei. Accennò una smorfia. In fondo, non le importava. 
Ma nella testa di Alberto scattò l’allarme: nessuno doveva scoprire il segreto. 
Abbassa subito, fece lui.
Sei matto, fece lei alzando maggiormente il volume.
Non capisci, disse.
Ma non ti conosco, incalzò lei.
Alberto. Natalia.
Ciao Natalia, abbassa la musica, nessuno ha un televisore funzionante adesso, potrebbero venire qui. Il ghigno sul volto della bambina si trasformò in una smorfia di preoccupazione, con i lati delle labbra verso il basso, schiacciò celermente i tasti del telecomando. La canzone era finita, la pubblicità in quel momento parlava piano.
Dobbiamo escogitare un piano, disse lui.
Hai ragione, fece lei ormai convinta.
I tuoi genitori sono in casa?
Mamma e papà sono al mare.
Bene, disse in tono deciso. Le chiavi quali sono?
La ragazzina si alzò di corsa, ne afferrò un paio e andò a chiudere la porta. I suoi passi si allontanarono nel corridoio, un colpo secco, due mandate, poi tornarono di qua. 
E ora? 
Alberto si guardò attorno spaesato. Nel vorticare dello spazio e dei suoni, l’unica certezza rimaneva quel televisore. Si concentrò su di lui: abbassò per sicurezza ancora un po’ e si sedette.
Ti metti a guardarla proprio ora? Fece lei.
L’abbiamo conquistata, godiamocela un po’.
Ma la bambina non sembrava troppo tranquilla ancora. 
D’improvviso, corse via in un’altra stanza. 
Alberto gridò: dove vai? Si lanciò a seguirla, oltre il corridoio buio. Nella stanza da letto, Natalia su una sediolina di legno chiudeva la larga finestra. Le imposte sbatterono forte, poi nell’oscurità sentì il rumore secco di una mandata. Un rumore di passi si avvicinava al corpo di Alberto. Quest’ultimo percepì l’odore della bambina passargli sotto il naso, sapeva di bagno schiuma alle fragole. 
Se ci vedessero da fuori? Fece lei, mentre correva di nuovo in qualche parte della casa.
Nel giro di pochi minuti nel corridoio non filtrava più alcuna luce. Natalia andò a sedersi sul divano. Alberto la raggiunse, estasiato:chi li avrebbe mai scoperti?
Era un segreto, quello del televisore, che i grandi non avrebbero potuto smascherare. Troppo lontana la casa. Infinitamente piccola la cucina. Così ben nascosti loro. 
Nel cuore gli si formò un movimento dal ritmo andante, che non aveva mai provato. Improvvisamente si sorprese a pensare che gli sarebbe piaciuto sapere che consistenza avesse la mano di Natalia. Allo stesso tempo, la possibilità lo terrorizzava.
Decise per un approccio timido. Il mignolo, cioè il dito più periferico della sua mano sinistra, iniziò a muoversi a passi impercettibili.
Alberto guardava lo schermo, poi guardava lei, quindi giù sulla congiunzione delle dita. Un tratto così esiguo di divano si stava dimostrando essere piuttosto lungo. La sensazione dell’altra mano non arriva mai. Quando iniziò a sentire un leggero calore il cuore di Alberto prese a martellare più forte, quindi fermò il dito. 
Deglutì, non riusciva a spingersi più in là di così. Qualcuno bussò alla porta in modo violento e la mano di Natalia venne da sola a stringere quella di Alberto. Bussarono di nuovo. Nonostante pensasse li avessero scoperti, Alberto strabordava di felicità. Mosso da un coraggio nuovo si avviò verso il corridoio, portandosi dietro Natalia. 
La televisione continuava a gracchiare debolmente, poi un nuovo rumore. Questa volta Natalia si strinse al braccio di Alberto.
Natalia, Natalia, siamo noi. Diceva una voce dietro la porta.
Si arrabbieranno, disse lei per niente tranquillizzata.
Alberto riconobbe il tintinnio delle chiavi in borsa. Il suono stridente della serratura che scattava giunse ad Alberto come l’ululato di una bestia minacciosa. Non c’era più tempo, doveva inventarsi qualcosa subito. Due mandate e la porta si spalancò. Passi esitanti si addentrarono attraverso la penombra del corridoio, poco dopo arrivarono sull’uscio della cucina, quindi una luce biancastra esplose. Nelle palpebre chiuse dei due ragazzi si propagò un cieco bagliore. 
Dormono, disse uno dei due giganti sconosciuti.
Credo sia il figlio dei vicini, ipotizzò l’altro.
Alberto pensò che far finta di addormentarsi era un trucco che funzionava sempre in situazioni del genere. I genitori di Natalia si aggirarono ancora un po’ nella cucina, aprirono le finestre e il fruscio del mare arrivò in modo nitido. Alberto dischiuse appena gli occhi: i due guardavano la televisione, spenta. Il blackout era arrivato anche lì, dissero. Non li svegliarono. Aspettarono qualche minuto poi provarono ad accenderla. La luce era tornata: da Mtv iniziò a squillare la solita canzone. Alberto, sul cuscino del divano, sentiva il profumo di Natalia. Il segreto della tv era al sicuro. 
E in quel momento qualcuno disse: ragazzi, svegliatevi.


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