Categories

Dall’altra parte della pellicola

Autrice
Nicole Trevisan
Ciclo #15 - Spaghetty Scorretty
Narrativa generale
27 luglio 2023

Ho aperto gli occhi e ho creduto di essere nato. C’erano aloni di luce artica e nebbia intorno. Mamma, ho provato a gridare – sapevo avrei dovuto chiamarla così, tutti la chiamavano così, da quando aveva sostituito i jeans con i pantaloni della tuta e  aveva cominciato a vedermi sporgere sotto ai vestiti – ma non è arrivata la sua mano né i gemiti estasiati che emetteva quando mi muovevo dentro di lei. Al suo posto, è arrivato un uomo molto vecchio. L’ho capito dalla voce e dalla pazienza con cui mi ha raccolto da terra.
«Non ti agitare, Bambino, sono Io.»
Io chi? ho pensato. Non sembri mio padre e  mamma non è tipo da atti impuri con gli anziani. Lui ha cominciato a ridere. Il suo petto mi rimbombava addosso, esteso e cavo.
«Non preoccuparti di questo. Devo parlarti, in queste situazioni mi sembra onesto dire le cose come stanno.»
Va’ avanti, che ho una mammella che mi aspetta. Due, anzi. Hanno cucito una coccarda col mio nome, preparato tre outfit diversi e ordinato i palloncini. Si staranno sgonfiando in qualche macchina parcheggiata. Grazie a te sarò il neonato coi palloncini sfigati: mi ricorderanno con le iniziali ammosciate, che piango per l’affronto. Tanto valeva non averli proprio, come i figli degli immigrati che non se li possono permettere e si rigirano inviperiti nelle loro puzzolenti tutine di seconda mano, mettendoci poi decenni tra spaccio e botte a riprendersi un minimo di credibilità. Sarà colpa tua se diventerò amico loro e quindi un criminale.
Il Vecchio ha smesso di ridere. Mi studiava, tenendo una mano dietro la mia testa per sollevarla e guardarmi in faccia.
«Bambino, rallenta. Devo darti una brutta notizia. A breve nascerai, ma attaccato alla tua spina dorsale ci sarà un neuroblastoma.»
Cosa diavolo stai dicendo? Ho cominciato a singhiozzare. Mi sentivo gli occhi gonfi, fatti d’acqua. Dunque, è così che si soffre.
«Si tratta di un tumore maligno aggressivo. Potresti sopravvivere fino ai quattordici mesi, non di più. Non camminerai mai né riuscirai a stare in piedi, daranno la colpa a discontinuità della crescita, al latte artificiale…»
Addio mammella. Addio vita, addio tutto. Ho cominciato ad agitarmi, ululavo e sgambettavo cercando di divincolarmi dalla presa del Vecchio, che, senza riguardi per la mia struttura ossea fragile nonché malata, mi ha incastrato sotto l’ascella e ha cominciato a camminare.
«Dicevo, lo scopriranno troppo tardi. Mi sembrava scorretto farti nascere in queste condizioni ma, dato il tuo temperamento vivace, ti propongo un risarcimento, se sei d’accordo.»
Mi sono calmato, mio malgrado. Aveva la mia attenzione.
«Alla nascita, non perderai le capacità cognitive che possiedi in questo momento e che impiegheresti anni a ricostruire, col rischio che siano compromesse da cattiva educazione, traumi, cadute dal seggiolone e incidenze avverse. Capirai ogni cosa, sarai capace di logica e pensiero, tuttavia non potrai comunicare come gli adulti per via dei limiti del tuo corpo.»
Ho ricominciato a dibattermi, non del tutto convinto.
«Considerala l’opportunità di comprendere il mondo prima che ti venga sottratto. Ora vai: tua madre sta spingendo da un bel pezzo, cerchiamo di non renderle la topa del tutto rivoltante per i prossimi dieci anni.»
Mi ha estratto da sotto il braccio. Sapeva che ci saremmo rivisti presto e dunque ha pianto per me. O almeno credo, non ne ero del tutto sicuro. In quanto vecchio, poteva aver imparato a farlo in silenzio, a inghiottire il dolore senza emettere un fiato. Forse l’aveva provato in tutte le declinazioni possibili nel corso della sua lunghissima esistenza e sapeva di dover aspettare che passasse. Lasciandomi un bacio sulla fronte, ha aperto le mani e sono caduto nel vuoto.

Ho aperto gli occhi e sono nato. Ora è tutto come dovrebbe, strido paonazzo su gridolini e felicitazioni, dettano l’ora della mia nascita per gli atti ufficiali e vengo lavato, imbustato e attaccato al capezzolo di mia madre che, con mio scoramento, non sa di niente. Mio padre mi scatta una foto nel momento in cui accenno a suggere e dichiara che abbiamo gli stessi gusti, ah ah. La sua idiozia mi offende e piango fortissimo per l’eredità genetica che mi è toccata in sorte, poi penso che morirò presto e piango ancora di più. Continuo anche la notte e mia madre prova a cullarmi, a cantarmi una ninnananna orripilante finché un’infermiera non mi porta via per lasciarle un paio d’ore di sonno. Il giorno dopo ritenta la via del canto, ma con Ed Sheeran, e quando mi sento definire Perfect capisco che mi apprezza come deve e mi addormento col suo indice in pugno.
Mi portano a casa e ci sono i palloncini anche lì. I primi giorni li passo ad abituarmi al latte di mia madre, che alla fine arriva ed è paradisiaco. Non mi stacco mai e il fantoccio che mi ha generato alterna ammirazione e gelosia, ma ci scatta moltissime foto. Pretendo di dormire con loro, in mezzo, e nonostante dicano che non si dovrebbe, mi lasciano lì. Un giorno mi caricano in macchina e arriviamo in un locale abbagliante e semivuoto, dove vengo spogliato e messo sotto un faro alogeno, sopra a quella che sembra la nuvola da cui mi ha raccolto il Vecchio, ma questa mi prude sotto la pancia. Quindi, piango.
«Dovrebbe metterlo tranquillo, signora, altrimenti non riusciamo a fare il servizio.»
Allora mia madre mi solleva e mi adagia al petto, io cerco di sfamarmi, ma lei ha addosso una camicetta di lino. Si sdraia su una sedia di vimini: anche qui sopra c’è un faro. Ha i capelli ricci che puzzano di roba chimica e capisco che mentre dormivo è stata dal parrucchiere a farsi pettinare. Anche la sua faccia ha un odore sintetico, dunque è truccata. Siamo da un fotografo professionista, armato di grandangoli e treppiedi, si fa sul serio: ci scattano foto mentre mi culla e mi allatta; mi poggiano sul cuscino a nuvola, ancora nudo, stavolta sopporto il prurito, è per una buona causa. Mi mettono una tutina che simula una pelle d’orso e si unisce alla scena anche mio padre, che non ha il minimo talento per stare davanti all’obiettivo, e sono sicuro che il nostro quadro di famiglia verrà una merda per colpa sua. Grido all’oltraggio.
In macchina i miei attaccano Ed Sheeran, ma Perfect la cantano guardandosi. Mi ignorano. Capisco che mamma mi ha preso per il culo: quella notte non la faccio dormire. E neanche quella dopo. Mi sveglio al minimo rumore e movimento, schiarendo la stanza con le mie urla. Papà si salva andando a dormire sul divano, lei no: l’insonnia la tormenta. Io ingrasso, lei deperisce. Ogni tanto piange e mi implora di smetterla, ma a me non importa che non abbia più il tempo di lavarsi i capelli o di telefonare alle amiche. Mi ha desiderato tanto, no? Che lo dimostri. Non rimarrò a lungo su questa terra, se non si prenderà cura di me come merito se ne pentirà per sempre. Non è sadismo, lo sto facendo per lei.

«Soffia, piccino mio!»
La traditrice mi tiene in braccio e davanti a noi c’è un cupcake. Una candelina è infilzata in cima al ricciolo di frosting turchese. È il mio primo complemese, vengo a sapere. Secondo lei, io – che non so neanche tenere la testa dritta – dovrei soffiare su una candelina. Vorrei prenderla a schiaffi. Conosco la meccanica per farlo, non sono stupido, ma questo corpo molliccio senza muscoli, solo polpa e latte, non lo permette. Urlarle nelle orecchie è troppo poco: le vomito su una spalla. Me ne frego che sono venuti a farmi visita un paio di coppie di amici. Si somigliano molto tra loro: le donne hanno i capelli lisci e muscoli da eroine di film d’azione, gli uomini camicie strette sulla pancia e scarpe lunghe. Hanno portato delle offerte in mio onore, giochi di plastica da attaccare alla carrozzina, tutine, saponi per le mie terga e un accappatoio in cotone biologico. Mi tranquillizzo perché qualcuno sembra comprendere il mio valore e mi addormento tra le braccia di una delle palestrate.
«Che angioletto.»
La sento sussurrare in dormiveglia. Sogghigno.
«Ha sorriso! Ha sorriso a Rachele. Guarda, amore.»
Il coglione proprietario dei coglioni all’origine della mia esistenza salta in piedi e indica a mia madre come il mio primo, involontario, sorriso sia stato rivolto a una sconosciuta. Ferita dall’amore non corrisposto, sento che balbetta di farci una foto, subito, immediatamente, ma la porta del bagno sbatte e capisco che è lei che è andata a disperarsi sul cesso.

Non è l’unica occasione sociale a cui vengo sottoposto. Oltre ai complemesi, in cui devo posare davanti a tortine, bigliettini e orsacchiotti con i miei genitori, nonni che puzzano di antitarme o amici alcolisti, ci sono i pranzi in famiglia. Li odio meno, in quelle occasioni non mi piazzano davanti tante candeline quanti sono i mesi dalla mia nascita, ricordandomi che arriverò a contarne al massimo quattordici . La cosa non mi piace, perché quel Vecchio di merda non mi ha concesso di andarmene senza soffrire, ma la ragione. E ora che sono qui preferirei l’incoscienza idiota di una mente solo potenziale e un trapasso indolore a questa vastità di pensiero che si avvelena di tutto e comprende l’ignoto da cui nessuna madre verrà a salvarmi, per quanto si senta onnipotente nei miei confronti.
«Vieni dalla zia.»
Una mantide in chiffon estende le braccia e mi sottrae a lei, che approfitta degli arti liberi per rimestare in una ciotola di patatine e servirsi un analcolico. Planano su di me anche un uomo color mattone e un’altra signora che mi sventaglia attorno complimenti. Io fremo di soddisfazione e rido.
«Ha lo stesso sorriso del papà. Vero?»
Questi perdenti devono essere di quel lato della famiglia. Smetto di essere felice, scalcio nelle mie Air Max 270.
«Anche quando si arrabbia! È proprio uguale a lui, sputato.»
«E aspetta di vederlo tra le gambe.»
Aspettavo un’uscita simile da parte sua. Non vede l’ora di usarmi per rimarcare le sue qualità virili. Ciò che mi stupisce è che questo branco di scimmie si congratuli e dispensi pacche sulla spalla per il solo fatto che sia riuscito a eiaculare. Forse non è ovvio come penso. Ma non ne so abbastanza sulla crisi del maschio contemporaneo e mi sento fortunato a non doverci fare i conti.
«Certo che siete stati bravi a voler mettere su famiglia. Con i tempi che corrono…»
«I tassi dei mutui.»
«La criminalità.»
«Gli immigrati. Se penso che questo piccino a scuola avrà più compagni stranieri che italiani…»
«Ci stiamo facendo dominare perché le altre coppie a fare figli non ci pensano e la nostra cultura, i nostri valori, vanno a ramengo.»
«Eh, ma adesso cambia tutto.»
«Dici? »
«Ma sì, fermeranno i barconi. Daranno incentivi per sposarsi e mettere al mondo bambini nostri.»
«Mica ci porti a casa una negretta, eh, Bambino?»
Ti dice bene che creperò prima, brutto insetto vestito da cartomante. O prima dei diciott’anni avrei la premura di suonarti il campanello di casa con l’altra mano nelle mutande di un adone pachistano solo per vederti crepare d’infarto sulla soglia. Che a me non piacciono quanto a te, ma come ti permetti di decidere chi devo scoparmi?
«Figurati, a lui piacciono le fighe del posto, avresti dovuto vederlo con Rachele, zia, era incantato.»
Papà non perde l’occasione per dimostrare che può essere sempre più stupido di quanto pensassi.
«Meno male. E che anneghino tutti, ‘sti delinquenti, ‘sti parassiti. Che poi ci rovinano i figli con la droga e le puttane.»
Studio le facce che mi circondano con una certa perplessità. Li trovo rassicurati dalla mia bellezza e me ne compiaccio, ma l’accostamento tra questa ammirazione e la cattiveria delle loro parole riesce a spaventarmi. Sono imprevedibili. Potrebbero ammazzare qualcuno, persino un bambino come me. Non gli darebbero neanche la possibilità di diventare un criminale, un rapper o un fattorino.
Decido che è il momento di cacarmi addosso e vengo restituito a mia madre. Lei ha sempre un buon profumo.

A Natale ho sei mesi e torno dal fotografo. Odio sapere quanto tempo passa. Vorrei godermelo senza contarlo, arrivare alla fine senza aspettarla. Ma il complemese è un rituale e questa volta si festeggia con uno shooting a tema. Crudeli, mi appiccicano alla faccia una barba finta. Che non avrò mai: non avrò mai un pelo sul mento, non mi vedrò imbiancare. Piango e questa volta non è per punire qualcuno né per fame né perché la cacca si è infilata tra le pieghe delle cosce. Piango perché sono triste in un vestito da Babbo Natale. Sento il peso dell’ingiustizia e non posso parlarne con nessuno. Mamma mi stringe, affondo la faccia nel suo maglione a fiocchi di neve. La odio perché mi costringe a queste idiozie, alle candeline ogni mese, alla compagnia di parenti assassini; mi traveste per postarmi su internet e mi usa come un accessorio. Anche se mi ama davvero: Perfect la canta ancora, quando siamo soli. La odio perché ha fatto di me un’esibizione e sono molto di più. Non sono il suo più grande trionfo, sono un’altra cosa. Sono una persona come lei, peccato non possa dirglielo, e quando me ne andrò proverà solo tristezza per non avermi visto crescere, compiermi, sopravviverle. Non saprà che l’ho conosciuta come individuo, come Jessica e non solo come “mamma”, e che nonostante il poco tempo ci siamo voluti bene davvero.
Detesto questo costume, mi agito. Il fotografo mi fa le boccacce per distrarmi: mi rendo conto che morirò prima di diventare deficiente come lui e mi viene da ridere. Guardo in camera, ormai sono abituato. Sono nato per questa roba. Per i flash e gli sfondi bianchi. Penso a mamma, che tra un anno sfoglierà l’album con gli scatti di oggi e mi ricorderà felice. Non lo sa, ma questa ossessione per le foto la aiuterà a stare meglio. Non ci sarà molto a consolarla, papà non è in grado. Ci penserò io, dall’altra parte della pellicola.


A illustrare: una fotografia da Pinterest.