Guida scanzonata per (soprav)vivere a Napoli
Forse questo non è un racconto vero e proprio, ma più un finto saggio o un divertissement letterario che mi ha fortemente ispirato Alessandro Raveggi grazie al suo “A Città del Messico con Bolaño” edito da Perrone. “Ispirato” è un modo elegante per dire che ho preso interi pezzi del suo testo (segnati qui in corsivo) e li ho spudoratamente ricopiati per poi trasporli. Perché? Perché più leggevo, più entravo nel suo modo articolato ed enfatico di descrivere Città del Messico – le sue vie, i suoi abitanti, le sue contraddizioni, il suo cibo – più mi meravigliavo nel constatare quanto somigliasse a Napoli. Più volte mi sono chiesta se non stesse proprio parlando della città partenopea, mi sono ritrovata a sottolineare paragrafi, frasi, parole, chiedendomi se l’autore ci avesse mai messo piede.
Allora mi perdonerà se mi permetto di ricostruire, come ha fatto lui, un racconto urbano per caratteristiche essenziali, quelle che più hanno in comune Città del Messico e Napoli, partendo dall’assunto fondamentale che non divulgo alcun comandamento – io che nemmeno sono napoletana – ma solo un capriccio narrativo.
Mi chiamo Riccardo e sono un facchino.
Qui però mi chiamano ‘o sultano, perché la mia divisa è appariscente e il cappellino che devo portare sembra proprio un copricapo esotico.
In realtà sarei un poeta – ogni tanto, a qualche cliente dell’hotel canto i miei versi – ma vanno sempre tutti così di fretta, dov’è che corrono come struzzi allo sbando? E dire che la maggior parte di questi eminentissimi sono qui a Napoli in viaggio di piacere. Io invece lavoro, ché i poeti sognano troppo, e questa è una città che prende i sogni e li fa avverare, oppure li seppellisce, e così non sai mai se essere triste o felice, o tutte e due.
Non sono di qui, io, vengo dal Nord. Quando arrivai, cinque o sei anni fa, mi fu chiaro fin da subito che amare Napoli sarebbe stato un affare serio e impervio. Difatti, per i primi mesi, la odiai. Mi apparve come un regno del caos, un labirinto vorace, qualcosa che non era terminale come l’inferno cristiano, né cristianamente purgatoriale, ma che stava semplicemente più in là, e allo stesso tempo tra, infra, forse tra i vivi e morti.
“O mirandam itaquae Campaniae! O stupendam Neapolis opulentiae!”, la città era di per sé splendidissima e lucente, ma, come disse il mio collega B.C., riportando in auge un vecchio proverbio tanto famoso nei secoli scorsi, si rivelò essere un paradiso abitato da diavoli.
“O turpissima flagitorum genera! O execrandos pessimorum hominum animos!”, un miscuglio ferale di lussuriosi, ambiziosi, amantissimi delle liti, insolenti e vantatori nel parlare, e pieni di vanità, superbi, prepotenti, sospettosi e grandi giocatori, avidi di vendetta, gelosi, dediti all’ozio, abituati a sopravvivere a piccole Apocalissi, e per questo resistenti come ratti.
Donne di bellezza ammirevole però, fu grazie a loro che superai la mia iniziale ritrosia e cominciai a sciogliere le briglie. Anzi, bisogna essere precisi, fu grazie a lei, l’unica che riuscì a mettere le sue manacce luride sul mio cuore.
Si chiamava Maddalena e leggeva le carte al mercato della Pignasecca.
La conobbi appena arrivato in città, ‘nu n’zallanuto fatto e finito, uno dei tanti ignari che pensano di venire qui credendosi vergini conquistadores. E invece fu lei a conquistare me, incastrata come una marionetta nel male sonoro del mercato, dove trovai, con mia grande incredulità, venditori di tutto: prezzemolo, cipolle, mutande, oggetti contraffatti, corni portafortuna, elisir d’amore, questuanti, diavoli creativi, esperti della vendita al dettaglio, sbudellatori di trippe fumanti di vario bestiame, produttori di cibi profumosi, le voci di tutti loro che si ripetevano ritmiche “ue singurì ‘o pesce, ll’acqua fresca, good morning welcome to Naples! cozze a tre lireeeee, venite addu’ me, tengo ‘e cose bone, jamme jaaaaa, cioccolato cioccolato, noccioli’, tengo a ciortaaa” e così andare fino allo sfinimento.
Pure Maddalena urlava – quella figurina bella e indemoniata – tant’è che mi avvicinai e, pur di farla tacere, le chiesi di leggermi la mano. Aveva degli occhi d’ambra e il naso tutto storto, ma una boccuccia puntuta che desiderai subito. Parlava solo nel suo dialetto e non capii nulla di quello che disse. Non che me ne importasse niente, volevo solo imbrandarmela.
M’imbrandò lei però quando capì che avevo un buon lavoro al Grand Hotel Santa Lucia. O meglio, le cose andarono così: mi prese per mano e mi baciò in un vicolo, un budello oscuro sormontato da tetti immondi, brutti, pieni di serbatoi e panari azzurri da calare giù e mutandoni lerci di smog e terrazzini a volte più curati, veri e propri olocausti di bellezza.
Mi disse “te voglio bene assaje”, quello lo capii. Allora risposi che sarei tornato a prenderla quella stessa notte e l’avrei portata in hotel, per possederla come una Gran Signora. Fu una pazzia. Entrammo dagli accessi per la lavanderia sul retro, ci infilammo in uno sgabuzzino e ci buttammo a terra. Mi divorò, mi morsicò, mi venerò, mi girò e rivoltò come un calzino, cosicché da quell’ora pazza ne uscii trasformato, assolutamente certo che non avrei potuto mai più fare all’ammore con un’altra donna che non fosse di queste lande.
Trovai in Maddalena, e nella città, quello che stavo cercando: il finimondo e lo sfasamento, l’erotismo, la lotta, il labirinto, la voracità, lo strappo e gli abbagli di un luogo terreno eppure divino, blasfemo eppure devoto, diviso tra quartieri opulenti e i vasci più lerci, appoltronato sui teschi del Cimitero delle Fontanelle, sulle rovine morte e vivissime di civiltà antiche e sugli altarini votivi e gli idoletti a ogni angolo delle strade, nicchie della Maronna ro’ Carmine, della Maronna ‘e ll’Arco, la Maronna ‘e Lourdes e la Maronna ‘e Medjugorje, e di Gesù Redentore, di Padreppio, e Sangennà! guai a non nominare San Gennaro e il suo sangue da pregare affinchè si sciolga.
I giorni passarono, i mesi pure: di giorno lavoravo al Grand Hotel e di notte stendevo le mie poesie, alcune anche per la mia felina Maddalena. Mi abituai a passeggiare in lungo e in largo, godendo di giornate sempre solari, danzanti, ebbre, felicemente cispose, strascicate. Saltavo su corriere senza numero, guidate da autentici zoticoni che raramente si abbottonavano sul davanti le camicie lerce e che ascoltavano musica melodica sparata all’ossesso, o su vagoni del treno, altro girone infernale di coltivazione batterica molto avanzata e sostegni untuosi al tatto, spintonato da centinaia di figuranti, un tableau vivant di pendolari, dottorandi universitari, barboni, ballerine che sembravano studentesse e studentesse che sembravano ballerine, ubriachi e ladri, professionisti dal portafoglio gonfio, veri dottori, chirurghi e dentisti, casalinghe con ciabatte scalcagnate e un miserabile, di tanto in tanto, che chiedeva due lire per un po’ di hashìshe.
Amai particolarmente la scoperta di Port’Alba, una deliziosa galleria coperta ma ugualmente attraversata da spaventosi piccioni chiatti, dove banchetti di illustrissimi letterati esponevano testi di narrativa e poesia, anche introvabili. Fu proprio lì che comprai un volumetto a me ora molto caro, di una certa M.S. che non avevo mai sentito nominare.
“Ebbene, a questo popolo eccezionalmente meridionale, nel cui sangue s’incrociano e si fondono tante gentili, poetiche, ardenti eredità etrusche, arabe, saracene, normanne, spagnuole, per cui questo ricco sangue napoletano si arroventa nell’odio, brucia nell’amore e si consuma nel sogno: a questa gente in cui l’immaginazione è la potenza dell’anima più alta, più alacre, inesauribile, una grande fantasticheria deve essere concessa” .
Questo ricco sangue napoletano si arroventa nell’odio, brucia nell’amore e si consuma nel sogno, così diceva. Desiderai essere l’autore di quelle parole, ma proprio per quel motivo, mi convinsi ancora di più a tenermi stretto il mio lavoro da facchino.
Nacque allora in me un’enorme nostalgia, mai appagata, che la città stessa emanava. Maddalena la chiamava pucundria.
Scoprii di esserne irrimediabilmente affetto. Lei rideva delle mie frasi costruite e delle mie rime, io mi dannavo per fargliele capire, e piacere. Finiva sempre che mi saltava addosso, con quella chioma da regina zingara, e mi copriva la bocca con una mano. Poi mi baciava o mi schiaffeggiava, a suo piacere. Mi piaceva molto quella femmina che mi portava verso una lenta morte partenopea, un discendere inesorabile verso la tentazione e la malia, verso il bello e il brutto, la nobiltà e la miseria, la peste e la dolcezza.
Quando lei non veniva a trovarmi in quel famoso sgabuzzino, mi stendevo sul lettuccio rinsecchito della mia stanza – o meglio dire, del mio sottotetto, “gentilmente offerto” dal direttore dell’hotel, per cui tratteneva parte del mio stipendio – e ascoltavo la voce della città: i primi tempi, le mie notti furono tremendamente insonni, disturbate da clacson, schiamazzi, clangore dei bidoni dell’immondizia, sirene delle autoambulanze, urletti delle prostitute e fischi dei parcheggiatori abusivi, fuochi d’artificio a ogni compleanno matrimonio battesimo cresima caduta del primo dentino vincita al Lotto, e poi? Poi, quando mi capitò di andare a fare una gita con Maddalena a Pompei, per vedere i tanto famosi scavi, non riuscii a dormire per l’assordante silenzio di quelle spettrali vestigia.
Me lo confermò persino un cliente del Grand Hotel, affezionato habituè che faceva il notaio in uno dei numerosi paesi vesuviani – e che, di tanto in tanto, mi allungava una mancia e una pacca sul deretano – “A ‘o munno, quatto cose te fanno cunzulà: ‘a femmena, l’argiamma, ‘o suonno e ‘o magnà.”
Il sonno ce l’avevo, la femmina pure, sul denaro ci potevamo ragionare. E poi, ‘o magnà. A Napoli ti possono mancare anche le scarpe, o le mutande, o i denti e pure il cervello, ma mai ti mancherà il cibo. Fu sempre grazie a Maddalena che assaggiai per la prima volta una tazza di brodo di polpo. Brodo di polpo? direte voi. Sì, dico io, proprio quello, un intero polpo messo a bagno a morire cuocendo nella sua stessa acqua. Me lo servirono in una tazza da cappuccino, con una ranfetella che si arrampicava sul bordo. E poi fu tutta una discesa e una salita: inebriato, affogato, bruciato, ammaliato, tradito dal cibo napoletano, dalle sue pizze, dall’horror vacui che si può trovare solo nei suoi pentoloni misteriosi colmi d’olio di frittura, ‘a frittata ‘e maccarune, ‘o crocché, ‘a palla ‘e riso, ‘o rrau, ‘e pastiere, ‘a muzzarella, i friatielli, ‘o babà, ‘a pasta ‘e patane con la provola, e ancora, granite di ghiaccio e zucchero che hanno lo stesso effetto di una botta di cocaina, polente fritte, verdure fritte, pesci fritti, scarponi fritti, morti fritti, venduti da casalinghe abusive in stand abusivi, esperienze allucinatorie capaci di condurti all’indigestione e resuscitarti dalla stessa, piatti assassini ai quali tornare recidivi.
Un’estasi e un piccolo decesso, transitorio, giusto il tempo di digerire.
Poi una sera, proprio mentre io e Maddalena stavamo per tornare al nostro sgabuzzino – non prima di esserci sfruculiati in un vicolo o due – ci si parò di fronte un uomo: lei sbiancò, io pure, quello tirò fuori una pistola. Era un orso mostruoso, con una barba fitta fitta, pareva Mangiafuoco, e forse lo era davvero, sputato direttamente dalle viscere del Vesuvio.
Io, che gentiluomo sono e sempre sarò, riparai Maddalena col mio corpo, quello gridò, anche lei gridò. Forse gridai pure io. Ci sparò, il dannato satanasso! Forse morimmo? Chi lo sa.
“Chillo era maritemo” confessò lei più tardi.
Non è forse Napoli una città lancinante? Ti prende per la gola, per le palle, per il cuore, causando assuefazione, cosicché quando credi di conoscerla, ti sorprende con qualcosa di inedito e mai visto prima. Una città in eterna metastasi, eppure viva come un nascituro, sempre sul filo della meraviglia e del degrado, raccontata per assunti fondamentali: lava, sesso e teatro, pizza, rose e benzina, mare, sole e urina, caffè caffè e caffè.
Dicevo, forse morimmo? Da quella notte, in effetti, il notaio fa finta di non vedermi. O non mi vede davvero. E nessuno più mi chiama urlando “ué, Sulta’!” correndo su Via Partenope. Sono diventato un fantasmino, magari un munaciello! e Maddalena pure, una damina coi capelli sempre scuri, forse un poco sbiaditi, che suo marito non viene più a disturbarci e facciamo all’ammore quando ci pare e piace.
Quasi un chiaroscuro di movimenti violenti è diventata la città, io invece il poeta delle parole ricamate nel sottosuolo, tra le crepe delle capuzzelle dei morti. Maddalena è sempre la solita imbrogliona, legge le carte pure al demonio.
Una volta le ho chiesto: “Si può vivere altrove senza continuare a vivere a Napoli?” e lei mi ha risposto con una frase di un altro mio esimio collega, il cui nome comprende solo due sillabe identiche ripetute. “Stu core analfabbeta, tu ll’he purtato ‘a scola, e s’è ‘mparato a scrivere, e s’è ‘mparato a leggere sultanto ‘na parola: ammore e niente ‘cchiù”.
Ad accompagnare: Florine Stettheimer, Le cattedrali di Broadway, 1929. Olio su tela, 152 × 127 cm. MET, New York.