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Il pensionato di Madame Legrand – Pt.3

Autrice
Deborah D'Addetta
Ciclo #10 - Spaghetti volanti pazzi
Narrativa generale
13 maggio 2022

Pochi istanti dopo, comparvero due donne, una bionda, l’altra bruna, completamente nude. Il viso di Adolfo andò a fuoco. Presero a danzare lentamente, i corpi flessuosi e lucidi, poi cominciarono a baciarsi e a toccarsi. Capì perché il Conte gli avesse consigliato quella stanza: nulla a che vedere con la ragazza dello strip club, tanto che si pentì di averle dato quei cinquanta euro. Le due donne andarono avanti per un bel pezzo, costringendo Adolfo a momenti di stoica resistenza, fin quando la lastra di vetro che lo separava dalle donne non cadde, sparendo nel pavimento.
Insieme alla lastra, cadde anche l’erezione e il coraggio di Adolfo.
Quando fu avvicinato, per poco non svenne. In uno stato quasi d’estasi o d’incoscienza, sentì le mani delle donne che si infilavano dappertutto, e le sue muoversi autonomamente, sfiorando capelli setosi, cosce sode e capezzoli puntuti. Una delle due – la bionda – gli salì a cavalcioni e gli si strusciò contro. Adolfo alzò gli occhi al cielo, cercando di ricordare le parole di una preghiera del catechismo, continuando però a tenere artigliata la mano sul culo dell’altra ragazza. Risero entrambe, fin quando Adolfo non recuperò tutto il vigore possibile.
Ma perché m’hanno dovuto dire che sono prossimo alla tomba per godere di tutto questo? ripensava.
Al tocco leggiadro delle ragazze – appena due polpastrelli che avevano preso a strizzarlo – Adolfo concluse, urlando “YEAH, GOOD, FUCK FUCK”, come gli aveva insegnato il suo amico Anoop. Le due risero di nuovo, lasciarono un bacio sulle sue guance e scomparvero chissà dove. Lui rimase seduto ad osservarsi le brache. Qualcuno di previdente aveva lasciato degli asciugamani che notava solo in quel momento, così si pulì e uscì dalla stanza.
La luce bianca della sala gli ferì gli occhi.
«Notevole, nevvero? E ha tutto il tempo di visitare le altre sette» chiosò il Conte, «Anche se la mia preferita rimane sempre la numero uno.»
Adolfo si buttò su un divanetto, molle e sfinito. Si addormentò per mezz’ora e quando si svegliò trovò altri ospiti a riempire la stanza: c’erano di nuovo i gemelli che posavano per il dipinto e la ragazza che baciava i piedi all’uomo grasso. Inoltre, due uomini che non aveva mai visto stavano facendosi del sesso orale a vicenda proprio accanto a lui. Li osservò, domandandosi genuinamente cosa si dovesse provare a farlo con un altro uomo. Nella stessa immutata posizione del giorno prima, il tizio in latex nero osservava tutto.
Gli venne un’improvvisa frenesia di scoprire cosa ci fosse nelle altre stanze, ma si ripromise di goderne di una per volta, così da non terminare le sorprese troppo presto. E infine, sperava con tutto il cuore di incontrare Madame Legrand.
«Conte Insidioso» chiamò Adolfo, «Cosa vuol dire poivre? La spezia della stanza cinque?»
«Oh, sarebbe pepe
Adolfo scoppiò a ridere, pensando al tocco fatale delle due ragazze: era proprio un nome azzeccato. Storcendo la testa verso la stanza numero uno, lesse: “I – Piment”.
«Avrei pensato di usufruirne questo pomeriggio» aggiunse il Conte, «Se si vuole unire a me.»
Annuì, mandando in fumo il suo precedente proposito. Si prese qualche ora per riposare in camera, farsi un bel bagno e rimettersi in sesto. Si sentiva un leone, tanto leone da mettersi a gonfiare la sua bambola con la sola forza dei polmoni e ripromettersi di usarla la notte stessa. Incontrò poi il Conte per l’ora di pranzo, in un’altra sala identica a quelle delle stanze, ma piena di tavolini apparecchiati per due. C’erano anche gli altri ospiti del pensionato, accoppiati così come li aveva visti quando era arrivato. Le pietanze erano tutte speziate – si complimentò con Anoop che riforniva Madame Legrand delle materie prime – assaggiò del pollo al curry, carote con anice stellato, dolci alla cannella, risotto allo zafferano, insomma, fece razzia di ciò che c’era. Non aveva mai mangiato meglio.
Qualche ora dopo, insieme al Conte, che aveva portato il suo levriero afgano con sé, entrò nella fatidica stanza “I – Piment”.
«E cosa vorrebbe dire?» chiese.
«Oh, sarebbe peperoncino in italiano.»
Adolfo annuì, eccitatissimo. Quando superò l’uscio si trovò in un ambiente completamente bianco. I divanetti erano bianchi, le pareti bianche, i pavimenti di marmo bianco e l’unica persona che li stava attendendo – non si capiva se maschio o femmina – indossava una cappa lunga fino a terra con tanto di cappuccio, anch’essa bianca.
Ad Adolfo pareva di essere entrati in una sorta di paradiso candido, illuminato da qualche faretto a led. Ne fu anche un po’ intimorito, ma lo sguardo estasiato del Conte lo tranquillizzò. Il suo cane invece, per la prima volta, sembrò nervoso.
«Faccia tutto ciò che dice la figura qui presente» suggerì il Conte, «Anzi, considerato che lei non parla nulla di francese, faccia tutto quello che faccio io.»
E detto questo, si spogliò completamente.
Adolfo, sulle prime incredulo, ci mise un po’ a reagire. La figura misteriosa tirò fuori una frusta e la fece schioccare sul marmo. Il levriero uggiolò, lui sobbalzò. Prese a spogliarsi freneticamente, mentre il Conte restava immobilissimo.
Quando fu nudo anche lui, la misteriosa persona iniziò a parlare con una voce metallica, spaventosa. Il Conte si mise prontamente a quattro zampe, Adolfo lo seguì. Vi erano così tre figure a terra, di cui due erano uomini e una era un cane.
«Ripeta dopo di me» sussurrò il Conte, «Bau!»
«Eh? Devo dire bau
Un colpo di frusta gli arrivò dritto sulla natica destra. Adolfo urlò, più per la sorpresa che per il dolore, che pure fu notevole. Gli vennero subito in mente tutte le scene di una vita che ormai gli pareva lontanissima in cui sua moglie lo picchiava con le ciabatte, con i piatti, con la scopa o con qualsiasi altro aggeggio domestico. Non gli piacque per nulla.
«Bau!» urlò, per non ripetere l’esperienza.
«Bau!» esclamò il Conte, un sorriso stampato sotto i baffi arrotolati.
E fece bau pure il levriero che non capiva nulla di cosa stava succedendo. Adolfo lo guardò negli occhi e si sentì capito.
La figura prese a camminare per tutta la stanza e a ogni schioccata di frusta corrispondeva un verso animale. Si susseguirono perciò dei miao, dei cip cip, dei cro cro, muuh, oink e così di seguito a imitare tutta l’allegra fattoria. A ogni ritardo, a ogni esitazione, la frusta colpiva. Il Conte era al settimo cielo, Adolfo voleva fuggire. Aveva le natiche in fiamme. Non gli piaceva quella stanza, avrebbe voluto tornare nella numero V.
«Ah! Quale godimento!» chiosò il Conte, «Battimi vigorosamente! Colpiscimi! Sono un miserabile! Un uomo finito, inutile!»
Adolfo, che della risoluzione ancora non conosceva alcun segreto, invece di alzarsi e andare via, restò a far compagnia al Conte. Si beccò allora altre quattro o cinque frustate per gradire, poi finalmente fu liberato da quello strazio. Quando uscirono dalla stanza, capì che il dolore non sarebbe scomparso facilmente.
«Una completa purificazione per l’animo!» disse il Conte.
«Mah, io so solo che le abbiamo prese di brutto.»
«Com’è grezzo lei.»
«Sarò pure grezzo, ma non merito queste punizioni anche in punto di morte.»
E si allontanò. Quella stessa notte prese la bambola, che almeno gli regalava soddisfazione senza arrecargli danno: allora la rimise di sopra, poi di sotto, poi la rivoltò e vi si sedette, riprovò a prenderla per la faccia, ma la bocca era sempre troppo grande per le sue dimensioni – un uomo quasi morto non diventa d’improvviso enormemente dotato – allora la piegò a metà come un libro, la schiacciò contro il muro e decise che le chiappe potevano andare benissimo anche per quella volta.
I giorni seguenti furono dedicati all’insegna della scoperta delle altre stanze, ma preferì andarci da solo. Nella stanza I non mise più piede. Nella sua mente però c’era sempre lei, Madame Legrand, e si chiedeva sempre più spesso quando l’avrebbe incontrata. Gli altri ospiti presero familiarità con la sua presenza e ogni volta che lo vedevano lo salutavano con un sonoro “Chapeau! Adolphe!”.
La stanza “II – Anis” si rivelò una di quelle piacevoli: una donna anziana massaggiava gli ospiti con delle lunghissime piume di struzzo, con sete e mussole e frange, in un ambiente dipinto di azzurro e rosa, che Adolfo trovò rilassante e pacifico. Nella seguente, la “III – Safran” dovette tornarci più volte: la prima volta incontrò gli inquietanti gemelli e capì che preferiva il gusto della scoperta solitaria. Il secondo tentativo fu più fruttuoso: la stanza era interamente imbottita di gommapiuma color zafferano. Non c’erano persone o misteriose figure a indicare cosa fare e dire, così Adolfo si mise a correre per la stanza e a lanciarsi contro le pareti, rimbalzando come una stupida palla, urlando e gridando YEAH, YEAH, GOOD, FUCK e, di tanto in tanto, MADAME LEGRAND! MADAME LEGRAND!
Si divertì là dentro, tanto che vi fece spesso visita nelle settimane successive.
Tanto spiacevole quanto la prima, e in questo lui e in Conte erano davvero come l’olio e l’acqua, fu la stanza “III – Gingembre”, ripetutamente osannata dall’uomo. Adolfo la detestò: due uomini vestiti da coniglio accoglievano gli ospiti legandoli a una croce di Sant’Andrea – che si chiamasse così lo scoprì solo dopo – e torturandoli in mille infidi modi. Pinzette, aghi, bastoncini, piccole scosse elettriche. Adolfo non ci sarebbe mai salito se solo avesse saputo, ma non riuscì a protestare e così si costrinse e subire ogni sorta di supplizio. Ne uscì malridotto e di cattivo umore e andò subito a dirlo al Conte.
«Uomo dallo spirito debole lei è, mio caro amico» replicò quello, calmo e serafico, «Bisogna prepararsi alla morte imminente. Ogni mollezza dovrebbe essere bandita!»
Adolfo continuò a frequentare la sala dell’anziana donna con le piume di struzzo. Aveva subito già piccole torture da sua moglie, maltrattamenti verbali, stress psicofisico, bestemmie e imprecazioni di ogni fattura. Pensava che almeno voleva vivere i suoi ultimi giorni in serenità.
Alcune settimane dopo il suo arrivo, tentò la stanza “IV – Coriandre”: una ragazza molto giovane e dai capelli rossi attendeva in silenzio, seduta sulle ginocchia e completamente svestita. Non parlava, non sollevava lo sguardo, nulla di nulla. Adolfo non seppe che fare. Si sedette di fronte a lei, imitandone la posizione, e prese a osservarla. Si rese conto che era la stessa ragazza che baciava i piedi del panzone pelato nella sala centrale. Senza saperne il motivo, provò tenerezza. Allungò una mano, poi ci ripensò: non voleva offenderla, anche se sospettava che lei fosse lì proprio a disposizione degli ospiti. Rabbrividì al pensiero del Conte e dei suoi gusti strambi e di quello che aveva potuto fare in quella stanza. In un moto d’affetto inspiegabile, le accarezzò il viso, poi i capelli.
La ragazza non si mosse. Adolfo ebbe tutto il tempo di osservarla: era magra, le si vedevano le costole sotto la pelle diafana e aveva il corpo esile, quasi fanciullesco. Si chiese quanti anni avesse.
«Come ti chiami?» disse invece.
La replica fu il silenzio.
«Io sono Adolfo Cappello, vengo dall’Italia e sono un morto che cammina.»
Si diede dello stupido. L’aveva detto talmente tante volte che ormai quella frase aveva perso significato.
«Sai, io ho una figlia, credo della tua età. Beh, insomma, non è proprio figlia, ma figliastra. Mia moglie l’ha avuta con un altro uomo prima di conoscere me. Si chiama Laura.»
Dall’altra parte, silenzio. Adolfo sospettò che non capisse l’italiano, ma preferì andare avanti comunque.
«Mi rendo conto che le ho voluto bene, ma non come avrei dovuto. O forse è il contrario, non mi ha mai visto come il suo vero padre, e mia moglie non ha fatto nulla per avvicinarci.»
La ragazza ascoltava, immobile e calma.
«E anche a lei ho voluto bene, però penso che sia una di quelle persone che non dovrebbero fare figli né sposarsi, ma solo per non avvilire la vita altrui. E così, appena ho saputo della mia malattia le ho lasciate, scappando qui. Ho fatto male?»
Nessuna replica. Adolfo capì che la ragazza non avrebbe detto nulla. Andò avanti allora a parlare da solo, a raccontare della sua vita, del suo lavoro come contabile, del piattume che aveva contraddistinto le sue giornate e di come avesse preso la notizia della sua imminente morte con gioia, con euforia quasi, ché, per la prima volta, poteva decidere e vivere a modo suo, anche se per poco. Quando finì si sentì meglio. Non aveva mai avuto modo di ascoltarsi. In uno slancio, si sfilò la camicia e la mise sulle spalle della ragazza. Poi, la abbracciò, le accarezzò di nuovo i capelli e il viso e non andò oltre.
«Grazie per il tuo silenzio» disse infine, e uscì.
Anche in quella stanza, Adolfo tornò più e più volte.
Non gli restava che sperimentare le ultime tre. Mancava ormai poco alla scadenza, e anche se la malattia non si faceva sentire, sapeva che il momento della sua morte non era lontano. Se ne accorse un giorno a cena: i pasti non avevano più lo stesso sapore e le spezie ormai, dopo giorni e giorni, gli causavano un po’ di nausea. Il Conte invece, sempre allegro e spensierato, cominciò a stargli sullo stomaco, pure lui.
Quando entrò nella stanza con lo stipite “VI – Aneth” si meravigliò ancora una volta. Nel buio più totale, un tavolino coperto da una stoffa di seta blu era illuminato da un candelabro che sembrava antichissimo. Di fianco a questo, un mazzo di tarocchi, una manciata di cristalli e dei libri molto piccoli impilati gli uni sugli altri. Da sfondo, la figura di uomo molto grasso, pelato, abbigliato con una cappa dello stesso blu della tovaglia. Adolfo lo riconobbe, ma solo perché glielo fece venire in mente la fanciulla muta della stanza IV: era lo stesso uomo a cui lei aveva leccato i piedi. Rimase per un momento basito. Non si aspettava di vedere di nuovo un ospite in una delle stanze – la stessa impressione che gli fece la ragazza – così rimase impalato a pochi passi dall’uscio.
«So che siete italiano» disse quello, con una voce curiosa, dalle note acute ma al tempo stesso rimbombanti, «Parlerò allora in italiano. Prego.»
Adolfo aprì la bocca un paio di volte come uno stupido pesce. Si sentì a disagio: aveva fatto il bagno in previsione di un incontro romantico o di qualche nuova signorina, e trovarsi di fronte a un uomo grande il triplo di lui lo spiazzò. Si fece coraggio però, sentendo la sua lingua natale, e sperando di poter cavare qualche ragno dal buco rispetto a Madame Legrand.


Puoi leggere qui: Le pensionnat de Madame Legrand Pt.1 e Le pensionnat de Madame Legrand Pt.2

Ad accompagnare: Henri de Toulouse-Lautrec, “La toilette, 1889. Olio su cartone, 67 × 54 cm. Parigi, Musée D’Orsay.