Il pesco
Se siete mai passati dal boulevard de la Villette verso sera, probabilmente avrete visto Badr Slimani seduto al tavolino di un bar con una prostituta cinese non più giovanissima. Lei ha spostato la sedia per mettersi al sole e lo ascolta a occhi chiusi, con la faccia rivolta verso l’alto, le spalle appoggiate alla vetrina. Mentre non guarda, lui mette un’altra bustina di zucchero nel caffè anche se non dovrebbe.
Vederli insieme fa un certo effetto perché Slimani non sembra proprio il tipo da frequentare le prostitute. È un signore pelato sulla sessantina, con degli occhiali da professore e sulla fronte una cicatrice scura, tonda, simile a un foro di proiettile. Per strada a volte la gente lo fissa con compassione, pensando che sia reduce da un’operazione al cervello, ma in realtà è solo il segno lasciato dal tappeto della preghiera.
Lavora alla Fleur de Tunis, il panificio aperto sette giorni su sette all’angolo con rue Denoyez. Quando entra un cliente, lo saluta da dietro il bancone gridando «Salut mon frère» o «Bonjour belle fille» e ai bambini regala sempre un paio di panini che la mattina dopo sono duri come pietre.
La sera, quando ha finito di spazzare per terra, tira giù la saracinesca del negozio con un colpo secco e se ne va al bar tabacchi di fronte all’uscita del metrò. Lei è già lì, sta bevendo una cioccolata calda.
A essere sinceri, non è facile distinguerla dalle altre prostitute cinesi del quartiere. Ha gli stessi capelli neri lucidi, lo stesso sguardo severo. D’inverno porta un piumino rosso, forse bordeaux.
All’inizio non si sedevano vicini, si parlavano da un’estremità all’altra della fila di tavolini. Discorsi banali sul tempo o sull’ultimo sciopero dei mezzi. Ci avevano messo mesi prima di presentarsi.
«Come ti chiami?» gli aveva chiesto lei una sera prima di alzarsi, mentre con una mano frugava nella borsa alla ricerca del portafogli.
«Slimani.»
«Slimani è il tuo nome?»
«Il cognome, ma mi chiamano tutti così.»
«E qual è il nome?»
«Bader.»
In realtà si chiama Badr, ma nessuno riesce a pronunciare il suo nome in Francia (dopo la “erre” la lingua sbatte contro gli incisivi e rimane impigliata nel palato anteriore). Così lui preferisce dire Bader anche se non gli piace tanto.
«E tu come ti chiami?»
«Jessica.»
Non fa in tempo ad aggiungere altro perché è già corsa via: ha attraversato la strada facendo lo slalom tra le macchine in coda al semaforo e si è fermata sul lato opposto ad aspettare i clienti davanti al solito portone.
Slimani chiede il conto al cameriere ma lei ha pagato anche il suo caffè. Prima di scendere le scale del metrò, la saluta con un cenno della mano e gli sembra di vederla sorridere.
Di sicuro vi starete domandando cosa hanno in comune un panettiere mussulmano e una donna asiatica che di lavoro si prostituisce. È difficile immaginare due persone più diverse. Eppure, entrambi non riescono più a fare a meno di quell’appuntamento quotidiano al bar tabacchi.
Cosa c’è tra di loro? Sono amici, amanti? Oppure sono solo due clienti con le stesse abitudini? Probabilmente i vecchietti maghrebini che passano il tempo seduti sulle panchine di Belleville all’inizio hanno storto il naso. Forse anche le colleghe di Jessica si sono chieste perché perde il suo tempo con un uomo che non la paga. Poi però si sono abituate. Ci si abitua a tutto in questo quartiere.
Quando le giornate si allungano, dopo il caffè vanno a fare una passeggiata al parco delle Buttes Chaumont. A metà di rue de l’Atlas, Slimani si ferma a riprendere fiato con la scusa di ammirare un albero. Allunga un braccio per afferrare i rami coperti di fiori che sbucano da un cancello chiuso, se li avvicina al viso, poi fa un paio di respiri profondi.
«Shajarat alkhawkh.»
«Sasarat alqau» ripete Jessica.
«Alkhawkh» scandisce Slimani. «È un suono che viene dalla gola, kha.»
Si tocca il pomo d’Adamo e lo sente vibrare sotto le dita.
Lei lo imita: «kha».
«Molto meglio!» esclama contento. Gli è sempre piaciuto insegnare: nel suo Paese studiava per diventare maestro.
«E nella tua lingua?»
Jessica fissa l’asfalto per alcuni secondi.
«Non ci sono alberi così in Cina.»
Si vergogna di dire che tante parole le ha dimenticate.
Mentre camminano parla quasi sempre lui, del Marocco, della vita che si è lasciato alle spalle quando è venuto in Francia. Jessica lo ascolta seria, senza fare domande, strizzando gli occhi come per cercare di visualizzare quei paesaggi così diversi da quelli che conosce lei. La medina di Essaouira con le case bianche su cui batte il sole tutta la mattina, il negozio del cugino di sua madre con i tappeti appesi alle finestre, il rumore dell’oceano, le bancarelle di meloni gialli lungo le strade e perfino il sapore dell’agnello, perché quello che si trova qui non è la stessa cosa.
A volte Slimani esagera un po’ con i dettagli esotici: le racconta per esempio di carovane di cammelli che attraversano il deserto al tramonto quando gli unici cammelli che ha mai visto sono le povere bestie scheletriche con cui si portano in giro i turisti sulle spiagge di Casablanca.
Le passeggiate con Jessica lo rendono ancora più allegro del solito: canticchia tra sé e sé mentre prepara il pane e regala a tutti i clienti un croissant del giorno prima.
In primavera il suo negozio è rimasto chiuso per parecchi giorni. Secondo la cassiera del supermercato è stato ricoverato in ospedale. Girava voce che avesse venduto la panetteria e tutti si aspettavano di trovarsi davanti da un giorno all’altro l’ennesimo bar hipster con le pareti di pietra a vista e la birra a tre euro e cinquanta per l’Happy hour, dalle sei alle nove.
Invece qualche settimana dopo ha riaperto. Da quando è tornato, però, è molto dimagrito e ha la faccia stanca. Chiama ancora le ragazze «belle fille» ma le parole gli escono a fatica, come se pronunciarle gli richiedesse uno sforzo enorme.
Sembrerebbe che non si sia ancora ripreso dalla malattia. Facendo più attenzione, però, vi accorgerete che ormai dopo il lavoro si siede da solo a uno dei tavolini del bar. Ordina il solito caffè e quando arriva guarda la tazzina per alcuni minuti, come se avesse cambiato idea. Poi la svuota in un sorso e se ne va lasciando sul piattino un paio di monete.
Una sera ha provato a parlare con le colleghe di Jessica che aspettano sul marciapiede di fronte al negozio.
«Sapete dov’è Jessica? È da un po’ che non la vedo.»
«Lei via…»
«Via? E dove è andata?»
«Casa» gli dice la più anziana del gruppo.
«Casa» le fanno eco le altre.
«Ma torna?»
Le donne si guardano incerte su cosa rispondere, poi vengono distratte dall’arrivo di un potenziale cliente.
«Torna?» insiste Slimani.
«Sì, forse, non so…» risponde sbrigativa una di loro.
Badr si allontana lentamente. All’improvviso è uguale a tutti gli altri vecchietti del boulevard.
Passano i mesi, viene l’estate con i suoi temporali improvvisi e le giornate di afa in cui dall’asfalto sale un’aria rovente che vi si aggrappa ai polpacci.
Una mattina, aprendo il negozio, Slimani ha trovato una cartolina incastrata sotto la saracinesca. Ha un bordo piegato e i colori sono un po’ sbiaditi. Sopra c’è una spiaggia affollata, con file di ombrelloni a righe piantati a distanza regolare. Il cielo è diventato quasi grigio ma si intuisce che quando è stata scattata la foto era una bella giornata.
La gira. Sul retro, una mano tremolante ha tracciato in arabo la parola «shukran».
A illustrare il racconto, John Berger e Tilda Swinton a passeggio insieme.