Mastro Nicola
Con la sera si alza il vento e l’odore del miele arriva al cielo. L’aria rinfresca, la luna scivola sull’acqua del Crati e i fili d’erba secca volteggiano verso la piccola rocca. Come una campana di onde, la campagna protegge il paese chiudendone i contorni con lunghi filari d’ocra e di verde. Qui si scambia l’oro con l’ombra, dicevano ai forestieri.
Ero un bambino e scendevo dal terreno della mia famiglia, con un cesto di fichi viola e il vento della sera sul collo, quando mio nonno mi raccontò la storia dell’uomo morto, la storia di Mastro Nicola.
Balzò giù dal treno una sera del 1946 avviandosi sulla strada che scendeva al paese. Nel buio sentì un rumore di zoccoli, era lo scirubbacco di Rocco Vetere, che portava i viaggiatori dalla piccola stazione dei treni al paese.
«Chine sìete?» chiese Rocchino, così soprannominato nonostante l’altezza.
«Sugn Mastro Nicola, sugn’i Tarsia.»
Rocchino rispose quasi offeso:
«Unn’è possibile!»
«Come, unn’è possibile?»
«E no! C’è stato u funerale l’atro iurn, i’ Mastro Nicola.»
«E gghiu un c’era!»
«U vide mo c’un c’era! Benedica!»
Era andata così: la domenica precedente, su richiesta della famiglia, Don Vincenzo aveva celebrato la messa per il funerale di un giovane sarto partito per il fronte e di cui non si avevano più notizie da molti anni. Ora che la guerra era finita, la famiglia desiderava che anche il dolore cessasse. La funzione, a cui aveva partecipato tutto il paese di trecento anime, aveva dato un po’ di pace e consolazione.
Osservandolo alla debole luce della lanterna, Rocchino pensò che nemmeno un uomo a cui è già stato fatto il funerale poteva avere stoffe così conciate, scarpe fatte di niente e labbra tanto consumate. Intravide il viso rovinato, la barba incolta, le rughe grevi. Sul traino, Mastro Nicola lasciò cadere le braccia per la prima volta dopo anni e il pendio tutto dissestato li portò velocemente al paese. La polvere si era aggrappata alla sua scatola di cartone senza forma. Dentro c’è la manta, la coperta, null’altro, disse.
Si entrava in paese, prima l’odore del miele, poi del fieno, infine l’alba.
Il mulo che trainava lo scirubbacco si fermò al centro della piazza, davanti al bar Aiello. Le galline già brontolavano e si rincorrevano per due semi di anguria secchi. La casa di Mastro Nicola stava nella parte antica del paese, dove l’odore di origano e pomodori secchi dal cortile saliva le ripide scalinate, s’infilava e riusciva dalle case spoglie. Erano passati diciassette anni e Tarsia era una Itaca senza mare: molti cani parevano Argo e dietro ai portoni abitavano delle vecchie balie. Ulisse era irriconoscibile, ma quando si affacciò alla porta, ‘gnà Fangisca ci mise un secondo solo. Un secondo per mettersi a piangere sottovoce, una lacrima una preghiera, mentre si alzavano le grida dal cortile. Le vicine accorate vennero da ogni angolo, le braccia buttate oltre il petto, il fazzoletto stretto nel pugno, si batterono le ginocchia e abbracciarono il soldato.
Per Don Riccardo non ci fu un altro giorno come quello in cui rivide il figlio.
Allora ‘gnà Frangisca lo fece entrare e lo fece sedere. Con le mani fredde prese il viso screpolato e gli disse:
«Non tenimm chiù sordi, un avimm chiù nent!»
Tenne ben dritta la schiena, anche se era piccolissima.
«Ci penz ghìe!» rispose Mastro Nicola.
E davvero ci pensò lui. Dormì un giorno intero, la mattina seguente prese il fucile da caccia che il padre aveva tenuto nascosto e uscì. Tornò con la cena. Invitarono uno zio che lavorava al municipio e che gli concesse un piccolo prestito per alzare la serranda arrugginita della sua bottega.
E quando la serranda si alzò ed entrò un po’ di luce nella stanza, la pesante forbice rossa da sarto era lì dove l’aveva lasciata, appesa come un crocefisso rosso sopra il tavolo a cappello del prete.
A quel tavolo, i giorni portarono gli apprendisti, che impararono a stirare, a puntare la stoffa, a imbastire, a disegnare col gesso le sagome dei clienti.
D’Andrea e Pilosi, gli altri due sarti del paese, capitando una sera davanti alla bottega, lo salutarono con un cenno della testa. Solo un cenno, compaesa’. Partiti insieme, prima milizia poi esercito, si erano persi di vista. Mastro Nicola era finito nelle retrovie delle truppe franchiste, poi in Abissinia, in Montenegro, i campi di prigionia e infine la liberazione. Gli restava la sua scatola con la manta e l’Italia rotta da attraversare a piedi, Roma, Napoli, poi un treno da Sibari a Tarsia, dove terminava il cammino di ferro.
La fatica del ritorno aveva fatto spazio al pudore dei ricordi, così, quando scendeva la sera e il paese diventava un salotto di seggiole sfilacciate sui morbidi saliscendi della collina, agli uomini in canottiera bianca e alle vedove che vestivano di buio il tempo, non si chiedeva di ricordare. Ognuno a suo modo aveva seppellito qualche memoria. Ogni tanto Mastro Nicola si guardava le mani che lo avevano salvato, le mani sapienti di sarto, perché in guerra, se ci si salvava, era perché si sapeva fare un mestiere, perché si era Mastri. Una vita poteva passare per la cruna d’un ago.
Al pensiero della guerra, gli occhi restavano fissi, poi si alzava:
«M’ vai a coricà. Buonanotte!»
Il sonno è breve per chi caccia sulle colline e per le lepri, i cinghiali, le poiane.
Lo accompagnava un amico, Francesco detto Ciccillo. Un pomeriggio, rientrando dalla caccia, passarono davanti al terreno dei Signorelli, famiglia rispettata di nove figli. I maschi erano tutti a scuola, alle femmine non era permesso imparare a leggere e scrivere perché tanto non serviva e allora si dedicavano ai lavori della campagna.
Era agosto e i meloni gialli, soli pieni e accecanti, stavano seduti uno sull’altro tra folti cespugli e massi di terra rossa. Emma Signorelli aveva i capelli neri e gli occhi scuri. I lineamenti orientali li aveva presi dalla madre. Quando incrociò lo sguardo di Mastro Nicola, si spostò la ciocca scivolata sul viso e aggrottò la fronte, in una sua espressione tipica. L’ avrebbe fatta sempre e sempre di più.
Mastro Nicola chiese all’amico:
«Ch’i n’è chiss?»
Pietro lo prese per il colletto della camicia, lo tirò via dalla visione e rispose:
«Unn’è pettía!»
Non erano per lui dodici anni di differenza e un fidanzato che le aveva promesso di tornare dal fronte, invano. Ciò nonostante, Emma e Mastro Nicola si conobbero per il tramite delle rispettive madri e si sposarono il primo di maggio dell’anno seguente.
Trentanove settimane più tardi nacque Riccardo. Due anni dopo nacque Maria Luisa.
L’Italia del meridione stentava la ricostruzione e dieci anni dopo i due sposi preferirono la Svizzera, affamata di manodopera. Emigrarono in un giovane paese operaio del cantone tedesco, portandosi dietro Maria Luisa e lasciando Riccardo nelle mani dei nonni. Erano mani grandi che lo protessero fino a quando non dovette partire per il collegio.
Riccardo è mio nonno.
La sera che conobbi la storia di suo padre, avevo nove anni. Quell’estate gli chiesi di portarmi al cimitero, giù, sulla sponda del Crati. Non ero mai stato in un cimitero, non sapevo nemmeno se mi rattristasse oppure no.
Mi prese la mano e andammo sicuri tra le tombe dei suoi nonni, di alcuni zii, di un cugino, di un altro zio, per ritrovarci infine davanti ai suoi genitori.
«La nonna assomiglia a tua madre» disse.
Accanto alla nonna c’era Mastro Nicola. Era nato l’8 settembre del 1908 ed era morto il giorno delle idi di marzo, l’anno in cui si conobbero i mei genitori.
«Nonno, dove sta l’altra?»
«L’altra che?»
«L’altra tomba!»
«Quale?»
«La prima, quella del primo funerale!»
Lasciammo il cimitero assolato.
«Vieni, andiamo in campagna» mi disse.
Salimmo in macchina che il sole tramontava. Le storie no, non tramontavano. Seppi dal nonno che suo padre non dormiva mai a più di un metro dalla porta, per la paura di non poter fuggire via. Seppi anche che spesso, mentre il paese gli vociava intorno, i suoi occhi si facevano di pietra e smetteva di parlare di colpo, isolandosi, imprigionato nella propria testa. Al fronte in prima linea, perse due amici tra le braccia e quando lo catturarono non lo fucilarono solo perché la divisa di un ufficiale tedesco si era strappata e andava subito riparata.
Fu l’unico del paese a tornare dopo quasi vent’anni, fu l’unico a non parlare mai del suo passato.
In paese nessuno gli chiese nulla, fino al giorno in cui morì, per la seconda volta.
Ad accompagnare il racconto, una fotografia a rullino di Francesco Sammarco.