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Mulini a vento

Autore
Agostino Di Sciullo
Ciclo #11 - Spaghetty Dialetty
Narrativa generale
25 agosto 2022

Io l’ho sempre chiamato Nonno anche se di sangue in comune non ne avevamo manco una goccia. Mi aveva trovato per la strada e come gatte frurasche, gatti randagi, ci eravamo fidati. Lui aveva bisogno di spalle forti che reggessero il peso degli anni e io avevo sempre la pancia vuota, vivevo gne li cacciunelle, nella speranza che qualcuno avesse pietà. Era stato bello scoprire che le mani servono per le carezze e non solo per le mazzate. A Lu bbone ce se abbitue subbite. Non era ancora passata la guerra, la gente era povera e teneva solo futuro e speranza. Il Nonno era uno scardalane, un cardatore della lana. È una cosa che nessuno ha fatto più perché il futuro è arrivato e ha portato il progresso che forse non è sempre na cosa bbone. Ci aprivano le porte perché prima di faceva così, prima ci si fidava, e si divideva pure il niente con gli ospiti. Mica gne mò che chiudeme pure Lu mare a chill che arrive. Il Nonno mi insegnava a dire sempre grazie e per favore anche se davanti a tavola ci mettevano cipolle e pane duro: “Magne sembr quell che t’attocc che nin si se duman t’attocc caccos.”
Non erano sempre gentili, spesso ci hanno preso a sassate o abbiamo dovuto dormire in mezzo ai boschi gne li lupe. Mi ricordo una volta in cui ci hanno scambiato per zingari e ci hanno quasi dato fuoco perché erano scomparse delle galline. Non avevo mai visto il Nonno correre come allora ma se non lo avesse fatto avremmo passato un brutto quarto d’ora. Abbiamo mangiato pollo per una settimana.
Poi gli inverni sono diventati troppo freddi e i chilometri nell’afa estiva troppo faticosi per quelle vecchie ossa. Ci voleva molto di più per arrivare in un nuovo posto e ancora più tempo per alzarci la mattina. O meglio serviva a lui, io andavo piano perché non volevo che si accorgesse quanda s’avè fatte vicchie. L’ultima sera che lo vidi fu al tempo stessa dolce e amara come sono tutti gli addii. Saremo stati in quel paese e poi basta. Avevamo deciso di prenderla comoda e fare uno scherzo ai nostri ospiti. Il Nonno quando stava bene e in giornata era un varietà: cantava, suonava l’armonica o t’arcunteve storie meje de nu libbre. Io sapevo bene che era tutta roba inventata dalla sua testa un po’ matta, eppure a volte finivo per crederci anche io. Diceva che era stato in America, Russia e Cina e che aveva visto più gente del Papa. Quando ci eravamo appena trovati e le persone mi guardavano per cercare conferma della verità, non sapevo cosa dire e arrossivo muto. Con il mio silenzio crollava quel meraviglioso castello arioso di bugie. Il Nonno, contrariato, sputava fumo dalla sua pipa di terracotta e smetteva di parlarmi per un bel po’ di giorni. Non avevo il suo stesso coraggio e non mi piaceva l’idea di prendere in giro chi del mondo aveva visto solo un pezzo minuscolo.
Quell’ultima sera però eravamo con il cuore leggero entrambi, la stagione era andata bene e avremmo potuto trascorrere in pace il tempo che ci avrebbe mandato la Provvidenza.
Il segnale silenzioso del Nonno arrivò con uno schiocco di labbra dopo un lungo sorso di vino acido e buio come la notte che stava arrivando.
«Ma vu l’aveta mai viste le piante che ce stanne in America?»
Nascosi il sorriso e spiai le facce accese di curiosità dei nostri ospiti.
«Ve lo ggiure sopra la cocc’ di nipoteme.»
E lì avvertii un leggero mal di testa da sacrificio ma addentai un bel pezzo di formaggio per farlo passare.
«In America ce stanne piante cuscì grosse che ce se po’ fa li muline assopr.»
Ci fu un lungo silenzio rimpallato da occhiate dubbiose e poi tutti all’unisono sbottarono e urlarono che era una balla troppo grossa. Non poteva esistere al Mondo una bugia così. Presero a prendere a parole il Nonno e chiamarlo “Contapalle”.
«Me putesse murì mo addò sto se ni è lu vere. Addumannetele a ssa povera anima innocente.» Fece serio.
Il capo famiglia stava guardando le ultime braci combattere con il freddo con il sigaro spento a ballare tra le labbra. Era girato di spalle e la sua voce era talmente seria che per un attimo ebbi un ripensamento.
«Uagliò, nonnete sta a dire lu vere?»
Gli sguardi si girarono tutti attenti su di me e vidi il Nonno preoccupato. Un po’ mi sentii offeso perché non si fidava di me e pensai di fargliela pagare.
Finii il boccone e sospirai, cercavo la mia espressione migliore e sperai di non ridere mentre dicevo quello che avevo appena pensato.
«Beh J li mulin in cime a le piante ne le so maje viste.» Feci una pausa effetto e notai che il Nonno si era fatto piccolo.
Il capo famiglia aveva stretto con le pinze del focolare l’ultimo tizzone, riacceso il sigaro per poi mandare in aria due belle boccate di fumo puzzolente. Si era anche girato di tre quarti per gustarsi meglio la vittoria imminente.
«Però ve pozz dicere che sso viste na freca di asine a salì nghè lu grane e calà nghè la farine.»
Il silenzio aumentò e si sentì solo il concerto dei primi grilli poi ci fu uno scoppio di risate e meraviglia. Il Nonno si era alzato con le lacrime agli occhi ma non saprei dire se era felice o triste. «Uagliò mi si superate mò.»
Mi allungò una carezza sulla nuca e andammo a dormire nella stalla, come al solito. Quella notte sognai l’America.
Quando l’alba iniziò a colorare il cielo mi svegliai con una strana sensazione di vuoto. Il Nonno non c’era più. Uscii sperando di trovarlo sulla strada ma vidi solo la brezza che sollevava mulinelli di polvere dorata. Il capo famiglia era sull’uscio ancora impegnato a masticare quel suo infinito sigaro, mi fece segno appena incrociammo gli sguardi e io mi avvicinai con un buongiorno.
L’uomo mi allungò una lettera, era piena di una scrittura grossa, rozza e incerta. Il Nonno non aveva avuto il coraggio di dirmi addio e aveva provato a scrivere tutto quello che portava nel cuore su quel pezzo di carta oleata marrone. Mi pregava di perdonarlo e di dimenticarlo in fretta. Smisi di leggere perché la carta si stava inzuppando di pianto. L’uomo aspettò che mi calmassi un po’ e tra un singhiozzo e il moccio tirato su, mi consegnò un piccolo involto di cuoio. Lo srotolai curioso e per poco non mi venne un colpo. Era pieno di fogli di carta strapazzati e colorati: anni di sudati risparmi, infiniti sacrifici e rinunce. C’era anche un ultimo pezzo di carta e stavolta le parole erano decise e perentorie.
“VATTENE IN AMERICA, FIJE A ME.”
Ora che ho attraversato l’Oceano, ho visto che in America non ci sono mulini a vento sugli alberi ma anche qui ci ste la fam. La sera mi siedo sul portico e tengo stretto il bimbo che è appena arrivato sperando di dargli tutto l’amore che ho ricevuto. E quando sarà più grande gli racconterò anche de lu Nonne e de li muline a vento.


Illustrazione presa da Etsy.