Niente per niente
Una dopo l’altra piovevano le bombe sulla mia città natale. Cominciarono a metà giugno. Una settimana dopo guardavamo dalla finestra e non capivamo più in che città vivevamo. Le macerie si accumulavano per strada. Non riconoscevamo più i luoghi della nostra vita.
«Quella chiesa lì è San Giulio?»
«No, quella è Santa Rita, che gli stava dietro, ricordi?»
«Ah, giusto. E com’è che la vedo da qui?»
«Forse perché San Giulio è in macerie…?»
«Ah.»
Ogni volta che sentivamo gli aerei calare e i primi botti ci buttavamo a terra o sotto un tavolo. I lampadari tremavano. Cadevano i vasi, i quadri. I letti camminavano di qualche metro in avanti, come se ballasse anche la terra. I rifugi erano pochi e già stipati. Un giorno papà decise che dovevamo fuggire.
«Ma fuggire dove, Gianluca? E come? La macchina è sotto le macerie del garage.»
«Non quel genere di fuga, Pia. Useremo la Porta!»
«Ma scusa, dove dovrebbe portarci la Porta?»
«Non lo so. Vediamo cosa ci suggerisce lei.»
E qui avrei dovuto capire subito che cominciavano i guai veri.
C’è una stanza, nella nostra casa, dove non entriamo mai. Per ragioni logistiche, mica per altro. Quando papà e mamma entrarono per la prima volta nell’appartamento, tanti anni fa, si resero conto che la porta della stanza, ogni volta che la aprivi, si apriva su un luogo diverso. Ora un prato fiorito, ora le pendici di un vulcano, ora un villaggio della Guinea, ora un fiordo. Per evitare imprevisti – tipo: cosa succede se uno entra e gli chiudono la Porta dietro? – non abbiamo mai osato entrare ed esplorare. Ma papà sembrava convinto che fosse venuto il momento. Di più: riteneva che la Porta lo facesse apposta.
«È evidente che sceglie sempre il posto dove chi ha aperto la porta vorrebbe andare in quel momento, Pia.»
«Ma quando mai!»
«Rifletti. Anni fa Giorgio stava in fissa con i vulcani, ed ecco che questa si apre alle pendici dell’Etna. Clara faceva i capricci che voleva andare in Africa: ecco un villaggio in Guinea. Tu volevi che ti portassi in Norvegia per l’anniversario: il fiordo. È tutto collegato! Ora io aprirò la Porta, e lei ci indicherà il luogo dove tutti noi vorremmo essere in questo momento.»
BOOOM! Bombe sul condominio accanto al nostro. Il lampadario del soggiorno cadde a terra spaccandosi in mille pezzi.
«Basta che sia lontano da qui, papà.» Commentai.
Papà aprì la Porta. Di là dalla Porta stava un oceano, caldo e calmo sotto il sole del mezzogiorno. Una ventata di brezza marina soffiò nel salotto scompigliandoci i capelli. Mi sporsi su quel mare tenendomi stretto allo stipite della Porta. Non se ne vedeva la fine.
«Cosa vi dicevo, ragazzi?»
Silenzio.
«Mamma,» chiese mia sorella «tu volevi andare al mare?»
«No, tesoro.»
«Giorgio?»
«Ma de che?!»
«Non cominciamo con questa lagna. È il luogo di fuga perfetto. Il mondo è bruciato dalla guerra, questo mare invece è lontano da tutto e da tutti. E pensate se troviamo un’isola tutta per noi.»
«Meraviglioso, fantastico, la Porta ha sempre ragione.»
«Gianluca, porta pazienza, non sappiamo niente di questo oggetto. Apre varchi su chissà dove, va bene, ma non ti sei mai chiesto perché lo fa? O se pretenderà qualcosa in cambio?»
«Inutile farsi domande se non sai cosa rispondere, Pia.»
«Ma, Gianluca…»
«Pia: partiamo!»
Papà, carico come mai l’avevo visto, destinò mamma a fare le valigie per tutti e ordinò a me e Clara di aiutarlo a tirar su dalla cantina la nostra barca a vela. Che detta così sembra chissà che cosa, in realtà è un gozzo che papà si tiene stretto da non so quanto e dove tutti e quattro entriamo a malapena. Dopo tre ore di lenta tortura, sudati fradici, la barca stava davanti alla Porta, pronta per essere spinta in quello strano oceano.
«Giorgio, ormeggiala alla maniglia della Porta, così non scappa. Ragazzi, al mio tre.»
La spingemmo nell’oceano. Rimase a sbatacchiare contro il pavimento del corridoio, galleggiando sull’acqua, come ormeggiata ad un vero molo. In quell’istante, una bomba piombò proprio sul fianco di casa nostra; si aprì un buco nel muro dello studio di papà. Non avevamo più tempo, la barca a galla ci stava e, insomma, non c’era altro da fare. Mia sorella Clara si era data la crema solare e aveva preteso, per lei e mamma, un cappello con la veletta. Io tirai fuori i miei occhiali da sole e misi tutte le provviste utili in un sacco. Alle canne da pesca pensò papà. Arrivò un’altra bomba. Saltammo a bordo, ci sistemammo. Un’altra bomba ancora: casa nostra cominciò a crollare definitivamente, diventando macerie e polvere sotto i nostri occhi. Tagliammo gli ormeggi. L’onda d’urto dell’esplosione ci spinse lontano dalla Porta, che rimase aperta ancora qualche secondo. Vedemmo il nostro appartamento venir giù come carta, poi il cielo che faceva capolino tra le rovine e, infine, la Porta, immobile a mezz’aria, che si chiudeva di scatto.
Eravamo in mezzo all’oceano. Si beccheggiava appena un po’. Il sole, a picco quando avevamo aperto la Porta, poche ore prima, declinava in un lento pomeriggio. Papà e mamma cominciarono a discutere se dare subito di remo – ma in che direzione? – o lasciarci trascinare dalle correnti. Clara, prostrata, fissava l’orizzonte. Non sapendo che altro fare, cominciai a fissarlo pure io.
«Uh Clara, guarda, una balena.»
«Ma dove?»
«Là, vedi? Soffia.»
«Io non vedo niente.»
Eppure per me era chiarissima. Non solo la balena, in effetti. Mi pareva che fosse tutto estremamente chiaro e nitido, anche in lontananza. Il battibecco di mamma e papà si era fatto più sonoro, quasi mi dava fastidio. La barca mi sembrava piena di odori che prima non avevo avvertito: sudore, legno verniciato di fresco e tutt’intorno a me, portati dai venti, una serie di profumi sconosciuti.
«Ma cosa vuoi pescare che non hai mai pescato!»
«Ma come no, scusa, l’anno scorso.»
«Ma quando mai, che sei stato un’ora lì a ustionarti sotto il sole e –»
«Mamma, papà, datevi una calmata per favore.»
Mi grattai il naso, pizzicava. Mi voltai verso Clara, quando il pizzicore si fece insopportabile.
«Clara, riusciresti a smorzare il tuo campo elettrico?»
«…Il mio cosa?»
Non seppi rispondere. Mi pareva semplicemente che ci fosse un po’ troppa elettricità intorno a noi. Anche da mamma e papà venivano non so che aloni elettrici diafani, e tutta la mia faccia pizzicava tantissimo. Mi voltai di nuovo verso il mare. Provai a inspirare la brezza, per sentire quegli strani odori. Ma non fu come la prima volta.
«Guarda, adesso tiro fuori la canna e proviamo a pescare.»
«Ma cosa ci metti sull’amo?»
«Il verme?»
«E dove pensi di trovarlo, qui?»
«Pia ma che ne so, ci metteremo del prosciutto.»
Soffoco, pensai. Se tiro dentro l’aria non arriva niente. Non respiro. Una fitta terribile cominciò a farsi sentire sul mio petto, da sinistra e da destra, all’altezza dei polmoni. La pelle si stava aprendo. Istintivamente, scavalcai la cinta e un secondo dopo ero in acqua. Inghiottii non so quanti litri di acqua marina, che uscì immediatamente da due fessure sui fianchi. Ed ecco l’ossigeno che mi scorreva di nuovo nel sangue. Che senso aveva? Feci per riemergere, appoggiare le mani sullo scafo, tirarmi su – non avevo più dita! Una grigia, vasta, porzione di carne stava all’estremità del mio braccio. Ricaddi sott’acqua. Il naso non la smetteva di pizzicarmi. Ecco arrivare mio padre mia madre e mia sorella – non avevo mai visto nei loro occhi tondi, nelle loro fattezze sconvolte, grottesche, tanto orrore. Mamma urlava il mio nome insieme ad altre parole che non comprendevo: mi sembrò che alludesse ai miei denti.
Denti? La mia bocca sembrava in effetti molto più grossa del solito. Avevo qualcosa nelle gengive che mi dava fastidio. Provai ad aprirla e a ficcare i denti nel legno della chiglia. Sentii centinaia di punte triangolari entrare nel legno. Ma che stavo facendo? Volevo che affondassero tutti? Staccai subito le mandibole dalla chiglia. Mi sentii soffocare di nuovo. Ebbi l’impulso di aprire la bocca e inghiottire altra acqua per respirare. Istintivamente provai a muovere i piedi per nuotare, ma non avevo più i piedi. O meglio, di due che ne avevo prima ora ce n’era solo uno, una pinna all’estremo opposto del mio corpo, che con un piccolo colpo mi aveva portato a diversi metri dalla barca.
Clara sembrava indicarmi e cercare di spiegare qualcosa ai miei, ma non capivo più di che parlassero, anche se li sentivo bene. Mia madre ad un certo punto mise le mani al collo di papà, cercando di strozzarlo. Una delle ultime parole che ricordo di aver compreso, ‘coglione’, si propagò sopra e sott’acqua, intensa come una sirena. Mia madre doveva stare urlando con quanto fiato aveva in corpo. Girai intorno alla barca, non sapendo che fare. Percepivo, ormai, con estrema precisione cosa c’era intorno a noi – balene, in quella direzione, a molti giorni di nuoto, orche, forse non tante, in quest’altra direzione e un altro odore, che era il mio odore, l’odore di… quelli come me?
Ecco una consapevolezza a cui non ero preparato. Continuai a nuotare intorno alla barca, ascoltando le urla e, di tanto in tanto, tirando fuori dall’acqua il muso per vederli meglio. Ma non riuscivo più a soffrire insieme a loro. Beninteso: loro erano sempre loro, ero io che non ero più esattamente io. Qualcosa nella mia testa si spegneva a poco a poco. Non potevo smettere di nuotare o sarei soffocato. Sentivo una nuova pelle su di me – solida, dura. Ero pronto per qualunque cosa ci fosse in questo oceano. Finalmente libero o almeno più di prima. Orientai le pinne pettorali verso l’odore di leoni marini e cominciai ad allontanarmi dalla barca.
Che fame, pensai.
A illustrare il racconto una rielaborazione originale di “The collective invention“, Rene Magritte (1934)