Quartetto Alchemico – La cortesia
ἀλλ’ ἤτοι νῦν μὲν πειθώμεθα νυκτὶ μελαίνηι
Il. VIII 502
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* * *
Un bel giorno il mio medico si è stufato.
«Ti ricovero.»
«Eh?»
«Mi hai sentito. Ti ricovero. Terapia cognitivo-comportamentale e ti sfondo di Rohypnol, Dalmadorm, Ambien e diapositive delle mie vacanze in Val Trompia. Non esci dall’ospedale se non ricominci a dormire la notte.»
«Adesso non esageri, per favore.»
«Non sto esagerando. Tu fai finta di non avere sintomi, ma li hai. Che la tua memoria e le tue attività di studio quotidiano siano rimaste sostanzialmente intatte nonostante la tua grave deprivazione di sonno, lo ammetto, stupisce anche me, ma non hai ancora trent’anni, e i cervelli dei giovani fanno cose che voi umani… Però il tuo corpo ne sta pagando le conseguenze.Lo sbilanciamento ormonale ormai è fuori controllo. Sei iperteso da settimane e il tuo ultimo elettrocardiogramma non mi piace per niente. Se sopravvivi all’infarto che avrai entro un paio di mesi, il prossimo passo è la depressione clinica.»
«La prego, non mi ricoveri. Ho delle cose da fare.»
Cosa direi ad Enrico, per esempio?
Il dottore mi ha guardato a lungo.
«Potrei evitare di ricoverarti… se facessi il bravo bambino.»
Sgrano gli occhi. Non credevo che il dottore avesse di queste fantasie. Però non posso abbandonare Enrico nel momento del bisogno. Dunque mi sdraio sul lettino e comincio a sbottonarmi i pantaloni.
«Però queste son molestie sessuali, dottore, sussurro sconfortato.»
«Ma no, cretino!» risponde lui lanciandomi lo stetoscopio in faccia. «Intendo dire che potremmo evitare il TSO se tu cominciassi ad applicare seriamente il protocollo di barbiturici che ti ho prescritto sei mesi fa, e che hai sempre finto di assumere.»
«Ma mi farebbero dormire la notte.»
«Se non cominci in fretta a dormire la notte, tu morirai.»
E niente, che gli potevo dire? Ho ringraziato, sono passato in farmacia, ho ordinato l’ordinabile e comprato il comprabile e ora sono qui davanti al campanello di Enrico, a mezzogiorno, dubbioso se suonare, salire e spiegargli tutto o fuggire a Nouakchott e ricominciare la mia vita in Mauritania.
Il primo impatto con Enrico, che tutti descrivono come traumatico, per me fu rilassante. Le persone che allungano il brodo mi mettono a disagio. Enrico, viceversa, fu sintetico:
«Mi hanno detto, perdonami se ti do del tu, che soffri d’insonnia. Ora devi sapere che io ho appunto bisogno di qualcuno che resti nella mia camera durante la notte, insomma che non si allontani mai dal mio corpo dormiente, e che non si addormenti mai. Se mi garantisci che sei veramente insonne, il posto è tuo. Su questo foglietto c’è scritta la cifra che posso pagarti.»
Enrico è talmente un gentiluomo d’altri tempi che non parla di soldi a voce alta.
«In nero?» chiesi, sospettoso.
«No. Se hai partita IVA è meglio, sennò ho preparato un contratto di collaborazione occasionale.»
Lessi il foglietto, constatai che con la borsa di dottorato che mi passavano quella cifretta era un colpo gobbo, e risposi:
«Sono completamente e tragicamente insonne. Non chiudo occhio da un anno e mezzo.»
«Bene. Cosa sai di me?»
«Ti chiami Enrico. Non appartieni a questo mondo, ma a un altro. Periodicamente ci torni, perché se non lo facessi succederebbero cose brutte.»
«Tipo?»
«Non lo so. Nessuno lo sa. Il sindaco e tutte le autorità cittadine ti adorano per questa cosa anche se sotto sotto ti temono. Le persone comuni ti temono e basta.»
«Tu no?»
«Io sono appena arrivato in città per un dottorato in papirologia. Mi frega assai. Mi servono soldi.»
E quello fu il colloquio. Definimmo poi le modalità di pagamento, cosa potevo e non potevo chiedere, cosa potevo e non potevo toccare in casa sua, quando e come dovevo rendermi disponibile. Passò un anno e qualcosa e siamo arrivati ad oggi che continuo a non avere idea di come funzionino veramente queste notti di Enrico. O perché funzionino.
Anche se…
Anche se nelle ultime settimane, forse per via che mi ha stuprato una mantide religiosa e che son quasi finito a fette sotto gli artigli di uno schifosoide merdoide, Enrico pare essersi aperto un po’ di più con il sottoscritto. Qualche sera fa sono entrato a casa sua – non era alla porta ad accogliermi come al solito. Il salotto era vuoto e buio, e in quel buio sembrava ancora più blu, come il fondale di un oceano. Ho seguito la lucina accesa in fondo al corridoio, fino al suo studio, dove l’ho trovato in poltrona, perso a guardare un quadro sulla parete.
«Buonasera, ho detto.»
Senza guardarmi, mi ha risposto:
«Buonasera.»
Poi ha indicato il quadro:
«I miei genitori.»
Ho guardato anche io. Pregevole, olio su tela, grande formato: occupava praticamente tutta la parete. Ma lì per lì sono rimasto perplesso, perché i genitori sono due e lì ce n’era uno solo, anzi una: una ragazza di non più di quindici o sedici anni, pallida e coi capelli neri come Enrico. Sedeva sola su una roccia in mezzo ad un bosco, come una qualunque signora Sheridan in quadro di Gainsborough. Tutt’intorno a lei era notte, una notte stellata e sterminata.
«L’Antimondo, vero?»
«Bravo. Da cosa l’hai capito?»
«Non credo ci sia un singolo vegetale in questo quadro che somigli anche solo vagamente a una pianta mondana. E la roccia dove siede tua madre ha gli occhi.»
Due occhi, aggiungo, molto distanti tra loro, uno da un lato uno dall’altro della grande pietra. Una fessura nel terreno ai piedi della madre di Enrico era di fatto una bocca sorridente.
«Vedo che la tua ultima visita ti è rimasta impressa. Hai fatto l’occhio ai particolari.»
«Vero. E c’è qualcosa che non torna in quel cielo stellato.»
«Perché non è il cielo. È mio padre. Guarda bene.»
Era vero: non avevo guardato con attenzione le sfumature di colore. Il cielo vero e proprio, il cielo dell’Antimondo, era ben visibile negli angoli in alto, lattiginoso e blu come lo ricordavo. Ma nel centro di quel cielo, vasto e liquido, c’era qualcos’altro – un lenzuolo percorso da milioni di tonalità di azzurro e di violetto, che come caramello sciolto colava, fino alla roccia dove sedeva la madre di Enrico.
«…Tuo padre, hai detto?»
«Sì.»
«Un Antimondano?»
«Sì.»
«Ma tua madre era umana.»
«Esatto. Hanno voluto farmi nascere nell’Antimondo. Poi siccome ero di forma umana, mamma mi ha portato qui. Vuoi un tè?»
«Magari, grazie.»
Sedemmo sui nostri letti in pigiama, con due tisane fumanti.
«Mamma non era praticissima con le cose dell’Antimondo,» prese a dire Enrico all’improvviso, quando ormai pensavo che l’argomento fosse chiuso. «Per tornare qui ha aperto un varco, ma è stata maldestra, non è riuscita a chiuderlo del tutto. Figurati che smania quando gli Antimondani se ne sono accorti.»
«Si divertono così tanto a passare dall’altra parte?»
«Sono come dei bambini. Bambini attratti dal sangue. E ragionano come bambini. Se vogliono una cosa, la vanno a prendere.»
Poi finì la tisana, mi diede la buonanotte, si coricò e allora seppi che il discorso era veramente concluso.
Un’altra volta invece, mentre stavamo facendo colazione, se n’è uscito con:
«È stato irresponsabile da parte mia uccidere Libliblim.»
L’ho guardato con orrore.
«Liliana? La mantide?»
«Sì.»
«Ma ti avrebbe mangiato. E poi avrebbe mangiato me. E per dessert, il tuo cadavere.»
«Ma no. Libliblim e i suoi simili fanno paura ma sono più innocui di quel che sembrano. Il fatto è che non sono sicuro al cento per cento che non foste interfecondi.»
Mi sono messo le mani sul pacco.
«…Prego?»
«Vi siete accoppiati. C’è stato uno scambio di fluidi. Forse era incinta di te.»
«Mi ha violentato. Non credo di voler riparlare dell’argomento. E comunque non desideravo avere figli da lei.»
Mi ha guardato con improvvisa tristezza.
«Scusa.»
Ma non ho resistito. Dopo nemmeno un minuto di silenzio gli ho chiesto:
«Mettiamo che io l’abbia ingravidata. Che tipo di, uhm, discendenza potevo aspettarmi?»
«Impossibile dirlo. Quando Mondo e Antimondo vanno a letto insieme può succedere di tutto. Guarda me, per esempio. Sono di forma umana come mia madre, ma ho un corpo astrale separabile che si comporta più o meno come quello di mio padre, che però era tutto astrale e niente fisico. Era, è. Non lo so. Non l’ho mai incontrato.»
«Tua madre non ti ha raccontato mai niente?»
«Poco e niente. E comunque se n’è andata che avevo dodici anni.»
«Nell’Antimondo?»
«Un aneurisma.»
E si è alzato di scatto, la fronte corrugata. Ho pensato di avere esagerato e che il discorso si fosse chiuso lì. Poi Enrico, già sulla via della porta, si è voltato verso di me e mi ha detto:
«Comunque, così a naso, Libliblim avrebbe probabilmente deposto un’ooteca con tre o quattrocento uova. Tu non saresti stato lì, ti avrebbe mangiato prima. Ma l’aspetto della prole, quello non saprei prevederlo. Potrebbero essere stati quattrocento neonati già autosufficienti e con sei braccia. O larve di mantide con la colonna vertebrale e il pollice opponibile.»
Sono ancora davanti al campanello di Enrico, il dito fermo sul pulsante. Mentre cerco di decidermi a premerlo, guardo la parete del condominio alla mia sinistra. Ieri notte qualche stronzo è passato con la vernice spray a fare il suo lavoro. Di solito ci ritroviamo caricature di Enrico che incula uno scarafaggio o piscia sangue su bambini, ma più spesso versetti della Bibbia, maledizioni in dialetto o, come stavolta, svastiche.
«E tu che ci fai qui?»
Faccio un salto all’indietro. Mentre guardavo a sinistra, Enrico ha aperto la porta per uscire di casa.
«Scusa!» esclamo.
«Non occorre che ti scusi, ma non ricordo che avessimo appuntamento oggi. Tra l’altro è giorno fatto.»
«Avrei dovuto scriverti prima. Ho un problema. Una cosa da dirti.»
«Spero non grave.»
«Sì. No. Non lo so.»
Mi guarda. Sento che sta per arrivarmi un ceffone. E invece:
«Mi accompagni a fare la spesa? Così con calma mi dici tutto.»
«Stavi uscendo per quello?»
«Per quello, e per passare dal barbiere. Ma non penso che ci metterai così tanto a dirmi tutto.»
Ci metto così tanto e pure di più. Passiamo al supermercato e sto ancora parlando della mia infanzia, dei problemi a socializzare, del fatto che non trombo, e la città è nuova e non mi ci ambiento, e l’insonnia che comincia a farmi seriamente male. Usciamo dal supermercato con due borsine a testa in mano mentre blatero a proposito di quello che so dell’insonnia come malattia e del fatto che a parte il dottorato non so bene cosa fare della mia vita e che comunque a passare le notti a casa sua se non altro mi diverto, oddio divertirsi è un po’ troppo, diciamo che m’intriga, mi acchiappa, ma dà cose di che pensare. Lo seguo dal barbiere, ne approfitto per farmi tagliare i capelli sedendomi accanto a lui, e siccome il barbiere è orientale e – forse a torto – immagino che non sappia così bene l’italiano, continuo a blaterare sul fatto che da bambino spiavo gli altri bambini dal buco della serratura del bagno, e mi piacciono moltissimo gli anatidi, papere oche cigni, lo sapeva Enrico che i loro antenati sono comparsi nel Cretaceo? Deve assolutamente vedere un video su Youtube dove ci sono dei bellissimi fagiani cinesi, tutti colori caldi su sfondo bianco perché il video è ambientato in inverno, bellissimi, sembrano uramaki salmone tonno e avocado, ma mi piacciono anche gli odontoceti – i misticeti meno – e la cosa che vorrei fare più al mondo è seguire un capodoglio quando si inabissa nella zona mesopelagica per cacciare calamari.
Non ho molti amici.
Usciamo dal barbiere e ritorniamo con le borsine fino a casa sua ma io non sto zitto un attimo, di nuovo sono lì a pregare se per favore non mi manda via, cioè sì deve mandarmi via perché se ricomincio a dormire la notte sono perfettamente inutile,
«…Ma d’altronde tu dirai che io ero perfettamente inutile anche prima e lo sarò per sempre perché in assenza di un qualunque disegno intelligente siamo tutti inutili nell’universo, e insomma io non vorrei andare via perché mi piace venire qui ma mi rendo conto che devo scomparire dalla tua vita dopo averti trovato un sostituto decente, però sappi che lo faccio molto a malincuore, e ti prego non pensare neanche per un secondo che questo sia un trucco, ti do il numero del mio medico, anzi se vuoi lo chiamo ora così vi parlate?»
Siamo rimasti davanti alla porta di casa sua, le borsine che dondolavano al vento.
«Sali per un tè?»
«Ok.»
Siamo saliti in silenzio, entrati nel suo appartamento, e abbiamo svuotato le borsine della spesa. Poi mi sono seduto sul divano del soggiorno mentre Enrico metteva l’acqua a bollire.
«Dì qualcosa, ti prego.» ho esclamato di punto in bianco.
«Scusa, mi ero distratto. Allora tu lo prendi al rooibos?»
«Sì. Ma quindi?»
«Quindi cosa?»
«Quello che ho detto prima. È un’ora che ti assillo. Mi dai la tua benedizione? Non sei arrabbiato con me se me ne vado? Sei cosciente che lo faccio col cuore spezzato?»
«Ah, sì, quello. Abbi pazienza, mi ero preso un colpo quando hai detto che era una cosa grave.»
«Non lo è?»
«No. Non puoi più stare sveglio la notte? Pazienza. Vorrà dire che d’ora in poi viaggerò nell’Antimondo di giorno, e la notte farò altro. Magari dormirò. Non ne ho bisogno come ne avete bisogno voi Mondani, ma non mi fa comunque alcun danno.»
Silenzio. Mi ha portato la tazza fumante, che ho preso meccanicamente in mano.
«Per l’Antimondo cambia poco, non c’è giorno o notte lì. Per il Mondo, anche. Direi che si può tranquillamente fare così, se sei d’accordo.»
«Ma scusa, tu viaggi sempre di notte. Mi hai sempre detto che saresti invariabilmente tornato all’alba. E sei sempre tornato all’alba, tranne quella volta.»
«Ma non è che io debba viaggiare in un momento specifico della giornata o della notte o che so io. Posso andare nell’Antimondo quando e come mi pare.
«E perché ci andavi di notte?»
«Tu hai problemi a socializzare. Ce li ho anche io, da sempre. Quando ho iniziato a viaggiare ho pensato che se avessi viaggiato di giorno e vissuto di notte, sarebbe stato impossibile avere una vita sociale. Passi l’adolescenza, ma voi Mondani vivete ancora, in buona sostanza, di giorno, e di notte dormite. Poi ho scoperto che notte o giorno nessuno vuole comunque avere a che fare con me, quindi…»
E ha scrollato le spalle. Ho provato a bere, era bollente.
«Mioddio. Non lo sapevo. Non ne avevo idea.»
«Non sono molto comunicativo, me ne rendo conto.»
«Quindi io dovrei passare a casa tua, quanto? Tre giorni a settimana?»
«Sì, direi non meno di così. Per il momento non hai l’obbligo di essere nel tuo studio tutti i giorni, no?»
«Uno dei pochi vantaggi di stare in università.»
«Ecco. Io posso poi venirti ulteriormente incontro viaggiando solo mezza giornata ogni volta. Ma sulla tua presenza non transigo.»
«Certo che no. Grazie. Grazie per permettermi di restare.»
E per la terza o quarta volta da quando lo conosco, lo vedo accennare un sorriso.
«Figurati. Credo ci siamo reciprocamente utili. E poi in questo ultimo anno…»
Sospiro, fa quasi fatica ad articolare il pensiero, altro sospiro.
«Ho imparato ad apprezzarti, Matteo. Non ho nessuna voglia di ricominciare da capo con uno sconosciuto.»
Il mio nome di battesimo. È solo la seconda volta che lo pronuncia. Per miracolo non mi cade in grembo il tè a cento gradi. Ritengo sia opportuno appoggiare la tazza sul tavolo, e agisco di conseguenza, cercando di non rovesciare nulla. Quando rialzo gli occhi, Enrico è scomparso nella sua camera; ne esce poco dopo con un libro.
«Non prenderla come una manifestazione di poca fiducia, naturalmente. Ma penso che sia opportuno che tu cominci ad avere una vaga idea di cosa faccio quando viaggio.»
Mi porge il libro. Guardo la copertina rilegata in pelle, senza titolo né illustrazioni.
«Questo è uno dei libri che non posso leggere,» mormoro. «Quelli nella tua stanza.»
«Vuoi dire che da quando sei qui non ne hai veramente provato a leggere nessuno?»
«Tu mi avevi proibito di farlo.»
«Ma sei impagabile. Il divieto è revocato. Comincia a leggere questo. Ci sono un po’ di cosucce che ti saranno utili se finirai nuovamente nell’Antimondo senza di me. C’è anche il Libera me Domine con cui ho distrutto Cruciger. Con un po’ di sforzo, potrai farlo anche tu.»
Paralizzato dall’orrore, non riesco nemmeno ad aprire la prima pagina. Enrico intanto, senza badare a me, con la tazza ancora fumante in mano, sta dritto in piedi a guardare fuori dalla finestra, verso il parco ed il lago sotto il sole del meriggio.
«Perché io viaggerò ancora e ancora. Finché avrò vita. Se ci andassi con il mio corpo umano, non sarei che un Antimondano qualunque in panni non suoi. Ma grazie a te posso andarci quale figlio di mio padre, e schiacciare la testa di chiunque provi a tenerla alta in mia presenza.»
Beve un sorso di tè. Con uno sforzo riesco a parlare:
«Liliana mi disse che l’Antimondo non aveva mai avuto un re. Cosa intendeva?»
Senza voltarsi, Enrico risponde:
«Mi ha sfidato ed è morta. Qualunque cosa intendesse, è irrilevante.»
E finisce il tè in un ultimo sorso.
For a cup of English tea
Very twee
Very me
Any sunny morning
A illustrare l’episodio The infinite recognition, di Rene Magritte.