Rituali d’insonnia
“El Perù se trova quando se varda storto”.
È da un po’ che mi torna in mente questo detto di mio nonno. Io però non l’ho mai capito. Non capivo il suo dialetto, né cosa c’entrasse il Perù, o cosa intendesse lui con “guardare storto”. Del resto, chi ora mi legge non capirà cosa c’entri mio nonno con l’esperienza – o forse sarebbe meglio chiamarla abitudine – dell’insonnia che mi perseguita da anni. Ma cominciamo dalla notte in cui, invece di rigirarmi nel letto e appigliarmi ai soliti trucchetti inutili per addormentarmi, decido di cambiare strategia: mi alzo, infilo le pantofole e il golfino, mi avvio verso la cucina in cerca di una consolazione alimentare. Nel buio mi avvicino alla finestra con un vasetto di yogurt in mano. Dall’alto della mia mansarda osservo la luna che illumina tonda i tetti e la cima di un tiglio che ondeggia sotto di me; le finestre sono buie e sobbalzo quando si accende una luce nell’appartamento di fronte, all’altro lato della strada. A quanto pare la ristrutturazione è terminata, distinguo gli scatoloni da trasloco addossati alle pareti, un divano grigio, la cucina componibile bianca, il lampadario danese.
Un tipo sulla quarantina, immagino il nuovo inquilino, indossa un pigiama simile al mio, grigio e blu, collo a V, taschino. A cosa serva un taschino così piccolo qualcuno un giorno me lo dovrà spiegare. In mano tiene uno strofinaccio, o un piccolo asciugamano bianco, e si aggira per la stanza in cerca – almeno così a me sembra – di angoli impolverati sfuggiti alla luce naturale e ora enfatizzati dall’illuminazione Poulsen. Dopo alcuni minuti, l’uomo cambia l’oggetto delle sue attenzioni, punta il naso verso l’alto, spicca un salto dopo l’altro, con lo straccio schiocca frustate al muro, all’armadio, all’apice della porta. Mi chiedo se sia a caccia di mosche – per le zanzare non mi pare stagione – se questa sia una sua abitudine notturna, e mi rallegro per l’imprevisto spettacolo che trasforma ore di insonnia in occasione di godimento. Quando si spengono le luci del palco me ne torno in camera soddisfatta e mi addormento in fretta.
Da quando soffro di insonnia penso che viviamo due vite parallele, una vigile e una dormiente. Non sono mai stata tipo da delegare, e gli amanti del controllo non cedono le redini tanto facilmente, neppure al proprio sé notturno. Risvegliarsi è resuscitare, reincarnarsi dall’una all’altra vita che così poco sanno l’una dell’altra. Cosa conosco io di questa me dormiente se non i barlumi che subito evaporano nell’incertezza del trapasso? Mia madre racconta che dormivo poco anche da bambina: temevo di perdere importanti esperienze durante il sonno, con la conseguenza che di giorno ero nervosa e irritabile. Non sono molto cambiata da allora a quanto pare, e se è vero che non si rastrellano esperienze contando le pecore, altrettanto vero è forse anche il fatto che l’insonnia ci consente di non cedere terreno e di tenerci aggrappati alla vita sveglia. Ad ogni modo, annebbiata dai fumi della stanchezza e con la pancia piena, quella sera rifletto sui buffi rituali di chi non dorme e forse per la prima volta mi chiedo se chi soffre d’insonnia tema la morte.
La notte seguente siedo nell’inutile attesa del cacciatore di mosche. Sto per tornarmene a letto delusa e con il modesto obiettivo di riposare distesa, quando mi accorgo dello sfarfallio bluastro di una televisione al terzo piano. Il vantaggio di abitare in un appartamento esposto su tre lati è quello di godere di un’ampia visuale: se la finestra del dirimpettaio rimane buia – per varie notti, anche quelle successive – se ne accenderanno altre, intermittenti, e potrò osservare un ragazzo che ascolta musica in cuffie, un vecchietto che gioca a carte da solo, un sollevatore di pesi in azione. Di quanti preferiscano rigirarsi nel letto senza dare un senso alle ore rubate al sonno non posso saperlo, ma l’attività notturna degli individui che seguo mi ricorda quella dei piccoli roditori domestici che di giorno cercano di sfuggire alle attenzioni di bambini troppo invadenti rifugiandosi nell’angolino più buio della gabbia, mentre di notte, lontano da manine e occhietti curiosi, si beano della propria solitudine e dei propri spazi riconquistati. Me la immagino una prerogativa dei solitari, l’insonnia, una caratteristica di persone incapaci come me di delegare, e quindi inadatte agli sport di squadra, ai team di lavoro, o più banalmente ai viaggi in comitiva. Mi scopro a fantasticare sull’esistenza diurna dei miei oggetti di studio.
Ho un’abitudine nuova ora, o rinnovata: la colazione la faccio a notte fonda, sbirciando dalla finestra chiusa, e mi addormento all’alba, piombando in un sonno simile alla catalessi. Mangio quando dovrei dormire, dormo quando dovrei mangiare, invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Mi sveglio di botto verso l’ora di pranzo, stravolta dal penetrante puzzo di grasso di montone che mi arriva alle narici da una canna fumaria troppo corta e da tempo motivo di controversie con Yakub, il kebabbaro. Da mesi promette di rimediare all’inconveniente, io nel frattempo gli scrocco pizza e caffè.
Quella sveglia così poco dolce in fondo non mi dispiace, mi impedisce di aleggiare nel limbo della non-me, o della non-ancora-me e non-più-altra-me, quella terra di nessuno che assomiglia tanto alla perdita di coscienza e che noi, gli amanti del controllo, tanto temiamo.
Mentre beviamo il caffè, riporto a Martina i risultati della mia nuova occupazione: “Il tipo del secondo piano a sinistra compone puzzle, quello del terzo a destra invece stira.”
“Forse hanno vite così eccitanti che riservano alla notte gli aspetti più banali della loro esistenza”, risponde. Capisco che mi sta sfottendo, noi solitari ci affidiamo spesso a compagnie poco empatiche.
Da qualche tempo l’angoscia non mi assale di più quando non dormo, affamata e allegra deglutisco col naso schiacciato al vetro, curiosa di vedere quali inconsapevoli tableaux vivants si offriranno al mio sguardo. Giù al secondo piano, verso sinistra, accade qualcosa di nuovo: scorgo una donna incorniciata dall’infisso, dall’alto ne distinguo i capelli biondi e la ricrescita scura, si siede a un tavolo addossato alla finestra, sposta dei piccoli oggetti dai bordi, prende una stoffa di vari colori. Per varie notti, come un angelo custode, veglio su di lei mentre cuce. Mi immagino il suo nome, comincio ad addormentarmi pensando a lei.
Talvolta anche di giorno, zebrata delle veneziane, spio tra le cornici di quelle finestre.
“Ho scoperto che la tipa del secondo piano si sta cucendo un vestito, ieri sera se lo è provato”, dico a Martina. Aggiungo che dalla mia prospettiva aerea, obliqua, la sua testa mi ricorda lo stimma in una corolla di petali.
“Ti piacerebbe” risponde lei, “se qualcuno stesse ad osservare te mentre mangi il tuo vasetto di yogurt alla finestra?”
E chi? Mica mi vede nessuno a me, così in cima, al buio.
Al mio risveglio pranzo spesso a spese di Yakub. A intervalli più o meno regolari mi lamento con lui: se non sistema la canna fumaria avverto il proprietario una volta per tutte; rinverdisco timori di investimenti gravosi e multe salate, e mi assicuro altra pizza.
Mentre siedo a uno dei tavolini sul marciapiede fisso gli ingressi dei palazzi del vicinato e cerco di riconoscere nelle fisionomie che vi transitano le ombre che animano le mie notti. Si apre un pesante portone – resto con il fiato sospeso – ne esce l’abito che ho visto prendere forma e che avverto un po’ anche come un lavoro mio: è un vestito a fiori stile anni ‘40 indossato da una giovane donna con tatuaggi ai polpacci, capelli ondulati e due crocchie bombate ai lati della riga centrale, un mix tra Rita Hayworth e Nina Hagen. È diversa da come l’avevo immaginata, ma non mi delude, è bella o lo sembra a me perché conosco di lei qualcosa di intimo, e sento che questa intimità mi conferisce diritti particolari. La donna attraversa la strada, si avvicina al tavolino a cui siedo con la pizza in mano, ma non mi guarda, non mi vede nemmeno, non coglie il legame che ci unisce. Mi sento sfiorata da una figura immateriale, non reale, della cui coscienza non posso fare parte.
Le notti seguenti resto nella mia stanza. Penso alle parole di Martina quando mi taccia di voyeurismo, credo che esageri, che si sia ingelosita di un fantasma. In cosa consiste in fondo la mia colpa, nel tenere la luce spenta?
Non resisto a lungo, a pancia piena si dorme meglio, e la quarta notte torno a ispezionare le date di scadenza nel frigo. Scrutare nell’oscurità e nelle vite degli altri è il mio rituale – un rituale non contro, ma dell’insonnia – e come tale pretende la pedissequa applicazione di norme che si ripetono, esige il buio, il cibo, e una finestra. Purtroppo guardando ora giù, a sinistra, non vedo più stoffe e vestiti sul tavolo del secondo piano, né lo stimma tra i petali. Mi torna di nuovo in mente la frase del nonno, il suo “vardare storto”. Era questo che intendeva? Osservare il mondo da una prospettiva insolita e capace di moltiplicare gli orizzonti? Nel mio caso il reale e il metaforico si incontrano, tanto che avverto un principio di torcicollo. Ma il Perù? In un gioco di parole da rimbambito forse lo intendeva non nel senso di stato politico e giuridico, piuttosto come una condizione mentale. O forse come il paese del Bengodi… ma alla fine cosa importa.
Mentre l’occhio vaga alla ricerca di luci su cui posarsi, nell’appartamento di fronte percepisco un barlume, o piuttosto un abbaglio, dato che a uno sguardo più attento non scorgo che buio. Probabilmente il frigo. Sforzo la vista e gradualmente l’oscurità si diversifica, emerge una sagoma di cui colgo impercettibili movimenti. Da quando il cacciatore di mosche mi osserva? Dal tempo della prima lontana performance? Sono io la figura immateriale che sfiora ma non vede? Mi specchio nel nero delle sue forme e mentre lui si introduce nella mia coscienza io mi risveglio, e divento reale.
Ad accompagnare il racconto, il dipinto “The Insomnia Painting” di Elena Rodionova.