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Titanomachia del Sud

Autore
Giulio Lepri
Ciclo #7 - Spaghettogonie
Narrativa
21 ottobre 2021

– Da quanto tempo è così?
– Una settimana, va e viene. I medici dicono che può andare avanti al massimo qualche altro giorno senza un donatore.
– E com’è che a un uomo così non siete riusciti a trovare neanche mezzo rene?
– È proprio perché tuo padre è l’uomo che è che nessuno vuole salvarlo.
– Quindi esiste qualche forma di giustizia.

La mia battuta gli scivola addosso, Saggese è sempre stato bravo a capire i momenti delle persone e schiva il mio veleno con l’abilità di uno slalomista. Lo lascio perdere, non avrò soddisfazione da questo vecchio, e così mi limito a guardare il motivo per cui ho preso un volo internazionale alle quattro del mattino.
Avvolto nel lenzuolo d’ospedale il corpo rugoso di mio padre sembra una mummia. Il sarcofago a rotelle è collegato a una serie di macchinari che bippano stancamente.
Il vecchio faraone mugugna attirando l’attenzione mia e di Saggese. Gli occhi si aprono rivelando la sclera gialla.
– Anna…
– Anna è morta da quindici anni.
Tutankamon mi guarda, i suoi occhi si spostano dalla sinistra di Saggese alla mia destra, sono così malconci che mi sembra di sentirli stridere contro le palpebre come i cardini arrugginiti di una porta.
– Tonino, sei venuto.
– Credevi che mi sarei perso il divertimento?
– Bravo Tonino.
– Antonio, sono Antonio.
– Si gira di nuovo Saggese.
– Chi l’ha portato?
– Ho mandato i gemelli.
Ride rauco, poi scoppia in una sequenza di colpi di tosse. Saggese scatta per porgergli un po’ d’acqua.
– Ma lascia che si strozzi, così vi togliete il pensiero.
Posa a fatica il bicchiere d’acqua sul comodino accanto al letto. Chiede a Saggese di lasciarci soli. Saggese fa un cenno solenne col capo ed esce dalla stanza.
– Sei l’unico che può raccontare di avermi parlato così. Neppure adesso capisci il privilegio con cui sei nato.
– Ma di cosa parli? Quale privilegio?
– Lasciamo perdere, non hai voluto capire finora e non capirai adesso. Sei venuto per fare quel che devi?
– Guardarti morire?
– Non deve finire così se non lo vuoi.
– Ma io lo voglio.
– Abbi rispetto per tuo padre.
– Non mi interessa avere rispetto per te. Non ti devo niente.
– Mi devi il nome che porti, anche se lo rinneghi; mi devi la strafottenza che è la stessa che avevo io alla tua età; mi devi gli occhi che sono gli stessi.
Era vero. La cosa più difficile dell’odiare mio padre è guardarsi ogni mattina allo specchio e trovarci la stessa faccia. O perlomeno un pezzo. È come avere avere due telecamere piantate nella nuca che registrano ogni mio movimento e sentire che da qualche parte del mondo lui è lì, dietro a un monitor, che spia tutto quello che faccio.
– Tonino, ti chiedo tanto, lo so. E non è facile, sai bene chi sono. E poi i figli non dovrebbero occuparsi dei padri.
– No, non dovrebbero. Specie di quelli che non hanno saputo occuparsi per primi dei propri figli.
– Mi sono sempre preso cura di te: le migliori scuole, i vestiti, le macchine… Persino l’aereo con cui sei scappato l’hai pagato coi miei soldi!
– Soldi, soldi, soldi… Hai provato solo a comprarmi. Essere tuo figlio… Non hai idea di cosa ho passato.
– Credi che sia semplice essere me? Hai idea di quante persone dipendono da me? Un business da miliardi di euro che gira perché ci sono io a controllarne gli ingranaggi. Vuoi spegnerlo così? Credi che si possa fermare premendo un pulsante? Bene, fa come credi, guardami morire e vedrai quel che succede.
– Tutto questo potere, tutta questa importanza e alla fine non c’è un cristiano in tutto il mondo disposto a darti un rene per farti vivere. Tutta questa prosopopea e poi ti sei ridotto a richiamare tuo figlio dall’altra parte del mondo; il figlio che odi e che ti ha rinnegato; nella vana speranza di scucirgli un organo dalla schiena e prolungare il tuo teatrino. Pensi davvero di essere ancora il re di qualcosa? Guardati meglio allora perché quello che impugni non è uno scettro ma una flebo, e quello su cui siedi non è un treno ma solo un letto sfatto d’ospedale.
Comincia a tossire, forte, incontrollato. Prova ad allungare il braccio al pulsante per chiamare i dottori ma la tosse è così forte da impedirglielo. Scuoto la testa e mi affaccio in corridoio per chiamare qualcuno. Arrivano tre infermieri che lo aiutano a riprendersi però mi chiedono di uscire per sicurezza.
Abbandono i corridoi d’ospedale ed esco sulla terrazza a farmi una sigaretta. Ho sempre trovato strano fumare in ospedale, una sorta di contraddizione: dentro l’ospedale ci si cura, mentre io sto qua a respirare morte.
– Che succede?
– Oh, Saggese… Niente, il vecchio ha preso a tossire e son dovuti intervenire gli infermieri. Con un po’ di fortuna è crepato.
– Qualunque cosa ti abbia fatto tuo padre non dovresti…
– Oh ma che cazzo te ne frega? Hai idea di cosa significhi essere il figlio di un boss? Uno si aspetta privilegi, collane d’oro e feste come in una puntata di Gomorra. E invece c’è solo solitudine ed emarginazione. Nessuno vuole parlarti, hanno tutti paura. E la cosa peggiore è che nemmeno temono te ma lui.
– Vorresti che la gente ti temesse?
– Dico che le colpe che devo scontare almeno vorrei fossero mie.
Saggese si appoggia al bordo della terrazza e guarda giù. Mi chiede una sigaretta.
– Guadagni settanta volte più di me.
– Sto cercando di smettere.
– Gli passo le sigarette, ne prende una e se la accende.
– Sai, non sei il solo ad essere scontento di tuo padre.
Sgrano gli occhi.
– Tuo padre è un grande boss, si è fatto molti nemici e questo è normale, ma i suoi metodi… C’è un mondo nuovo là fuori Tonì, e lui non è più buono.
– Cosa pensi che me ne freghi dei vostri giochetti di potere? Vuoi che muoia? Aspetta e sarai accontentato. Non penso manchi molto ormai.
– È un mondo nuovo ma alcune consuetudini sopravvivono. Lui era il re e tu sei il principe, alla nostra gente piacciono le successioni. Il nome della tua famiglia non deve andare perduto.
– Ma perché non lo fai tu?
– Non funzionerebbe, certe cose per noi sono importanti, una nuova famiglia… Noi Saggese serviamo i Caruso da tre generazioni. Così è, così deve essere.
– È proprio da queste idiozie che sono fuggito in culo ai lupi.
– È il tuo destino Tonino, sei nato per questo. Non c’è posto dove puoi nasconderti al fato.

Saggese fa un ultimo tiro alla sigaretta e rientra in ospedale. Con un gesto automatico tiro fuori il telefono dalla tasca destra dei pantaloni. Guardo un po’ i social, carrellate di culi al mare pure adesso che è novembre; video di ricette; meme e di nuovo culi e tette. Sono nato in un mondo di merda e ora vivo in un mondo di plastica. Mi chiedo tutto il mio dolore dove mi abbia portato. Ho scelto di andarmene ma da solo non ho fatto niente. Certo, è il mio niente, ma a volte mi chiedo se tutta questa intransigenza, questo stoicismo, non somigliano più al capriccio di un bambino che alla coerenza di un adulto. Come quando da piccoli ci rifiutiamo di mangiare le verdure, che differenza c’è con l’inossidabile presa di posizione che abbiamo da grandi sui nostri principi? Mio padre conosce solo il linguaggio dei soldi e con quello mi ha cresciuto. Non sapeva di sbagliare, come poteva saperlo? Arriva sempre un momento in cui realizziamo che i nostri genitori sono persone e spesso coincide col momento in cui dobbiamo prenderci cura noi di loro. Forse dovrei aiutare mio padre.
Apro l’app di investimenti sul telefono. Ho comprato 1000€ di Bitcoin l’anno scorso, erano tutto ciò che avevo da parte. Adesso sono 547€. Il mio amico che mi aveva suggerito l’investimento mi ha detto di attendere, raddoppieranno entro fine anno. Aspettare. Sempre aspettare. È talmente tanto tempo che aspetto che non so neanche più cos’è che dovrebbe arrivare, figuriamoci se mi ricordo anche il perché.

Un leggero bruciore alle dita mi riporta alla realtà, la sigaretta si è consumata al punto che sta incendiando il filtro. Riempiono la carta di benzina in modo che anche se non la fumiamo resti accesa. Le cose, mi vien da pensare, vanno avanti anche senza di noi.
– Papà, sei sveglio?
Fa un verso a metà tra un grugnito e uno sbadiglio, gli occhi gialli ruotano nella mia direzione.
– Papà, hai vinto, lo farò.
Gli si allarga il sorriso sul volto.
– Lo sapevo che eri ancora mio figlio. Non si cancella il sangue.
Ci abbracciamo e resto a chiacchiera con lui per tutta la notte. Mi racconta cosa farà appena uscito di lì, mi chiede di tornare e dice che ha grandi progetti per me. Sorrido e gli dico che tornerò, che anch’io sento che è il momento di diventare grande. A notte fonda mi dice che esausto ma felice, vuole dormire.Riposa pa’, io adesso vado a parlare coi dottori e penso che già domani si possa fare.
– Va bene Tonino, ma sbrigati perché sento che sono proprio alla fine.
Gli accarezzo la testa e lo bacio in fronte. Poi esco di stanza. Sono le quattro del mattino e nel corridoio non c’è nessuno. Mi allontano verso la portineria del reparto, mi viene incontro il medico di turno.
– Signor Caruso, vi siete deciso? Scusi la franchezza ma se non procediamo dubito che suo padre abbia più di altri due giorni.

Esco dall’ospedale e mi sento stranamente leggero, quasi mi sembra che i piedi non tocchino terra e che nel mio corpo scorra una nuova forza, come una tempesta. Forse è consapevolezza.
Una berlina nera parcheggiata poco più avanti accende i fari e mi si avvicina. Parcheggia proprio di fronte a me, dallo sportello posteriore si abbassa il finestrino: è Saggese.
– Allora Tonì, che avete deciso?
– Chiamami Antonio.
Saggese rimane fermo un secondo, stringe gli occhi e mi osserva meglio.Sembrate più alto, Tonino.
– Te lo ripeto per l’ultima volta: devi chiamarmi Antonio.
– C’è un motivo per cui devo chiamarvi Antonio?
– Sì, Vito, perché sono il tuo capo.
Saggese sorride, apre lo sportello e mi fa spazio sul sedile.
– Si accomodi capo, la portiamo a casa.


Foto di Francesco Sammarco