Vis-Diaboli
Agli occhi di una madre i figli sono sempre belli. Agli occhi della mia io ero un mostro.
Così mi dipingeva la grande Alberta Visdomini: una creatura surreale e aberrante. Headless woman, ecco chi ero: un titolo, più che un nome. La donna senza testa dei suoi quadri, quella che si ripeteva in diverse forme e dimensioni, primo piano o figura intera, vestita di stracci o in abito da sposa, è ciò che per anni mia madre vide guardandomi.
«Figlia del demonio!» pare abbia gridato quando nacqui, rifiutando di farmi una carezza, di ascoltare il mio pianto disperato.
Negli incubi che l’avevano ossessionata dall’inizio della gestazione, era stato proprio il demonio a profetizzarle che non avrei avuto una testa. Niente orecchie o naso, occhi o bocca. Fu mio padre a restituirmi ciò che mi era stato tolto, a fare di me una bambina vera. Lui mi cullò, mi nutrì, lui mi sorrise per la prima volta e vide il mio primo sorriso.
La grande Alberta Visdomini era diventata uno spettro, una donnina trasparente, allucinata, incapace di allattare e di prendere in braccio la propria figlia. Nulla poté l’amore, nulla poterono i medici, gli psichiatri con tutti i loro farmaci. Sembrava vivere solo per dipingere, chiusa nel suo studio all’ultimo piano della nostra casa fuori città.
Abitammo per dieci anni in quella villa, l’edera sui balconi che sembrava costruita apposta per nascondere un segreto inconfessabile. In quegli anni fu zia Virginia a occuparsi di me quando papà lavorava, sostituita a periodi dalla nonna materna. La condizione della figlia però finì per acutizzare i suoi già preesistenti problemi mentali e la costrinse a lunghe assenze, tanto da rendermela estranea.
Non so se amassi mia madre; difficile ammettere che nutrissi anche solo dell’affetto nei suoi confronti. La guardavo muoversi intorno a me, in cerchio, facendo di tutto per sfuggire al mio fiato, al mio odore, allo scricchiolio prodotto dalle mie scarpe. Se mi sfiorava per sbaglio, chiudeva gli occhi come per allontanare il senso di ribrezzo provato. A tavola, seduti in soggiorno dopo cena, o fuori a passeggiare, il suo evitarmi era quasi una sfida, una gara in cui vinceva chi riusciva a sopportare meglio, in silenzio, senza cambiare espressione, la sofferenza o il fastidio inflitti. Era brava in quello: vinceva sempre, anche quando baravo, e ne sembrava compiaciuta.
Nonostante soffrissi per quei suoi atteggiamenti, ero attratta dalle sue maniere altere e sofisticate; quel distacco tipico del genio suscitava la mia curiosità e quella di chiunque la conoscesse. Era infatti tra le pittrici contemporanee più apprezzate nel mondo dell’arte. Nutrita ad applausi e lodi, non aveva mai dubitato di se stessa e del proprio talento. Alle pareti del suo studio erano appese foto che la ritraevano accanto a uomini distinti, lei bellissima, in abito lungo, i capelli legati sulla nuca, gli occhi truccati e le guance rosse d’allegria e compiacimento. Quelle casacche lente e informi sotto cui nascondeva il suo ventre allentato dal parto, la giovane Alberta non le avrebbe mai indossate. Né avrebbe immaginato una vita senza sorrisi, e settimane intere trascorse nel silenzio. Usata così poco, la sua voce si era fatta sottile, appena udibile. A me piaceva, forse era ciò che di lei mi piaceva di più. Se solo l’avesse usata per chiamarmi, per parlare con me!
.
La prima volta in cui il mio nome uscì dalla sua bocca, avevo sette anni ed ero appena tornata da una passeggiata al parco con la zia.
«Se Fabrizia non ci fosse…»
Avevo aperto la porta dello studio dove si trovavano in quel momento lei e papà, quando sentii mia madre pronunciare quelle parole. Cercai di non dare a vedere che quella frase mi aveva ferita, ma di fronte agli occhi bassi di mio padre non riuscii a trattenere le lacrime.
Accadde di nuovo quando avevo undici anni, e di piangere non ci fu il tempo.
«Fabrizia» disse, e un istante dopo venne il buio.
.
Aveva tanto insistito affinché facessimo quella gita in barca. Si ricordava di un’isola in cui era stata da ragazza, i cui proprietari erano amici di famiglia. Convinto mio padre a prendere le ferie, eravamo partiti il giorno del suo compleanno. Non l’avevo mai vista sorridere tanto: era così entusiasta che sembrava ubriaca, e vi rimase durante tutto il tragitto in macchina, e poi a bordo.
Indossava un insolito abito bianco, e aveva i capelli raccolti in un fazzoletto perché la salsedine non glieli rovinasse. Gli occhi fissi all’orizzonte, parlò a lungo, anche ripetendosi, della sua prima visita all’isola, dei bagni notturni al chiaro di luna, delle passeggiate sulle scogliere che faceva nei giorni di pioggia, perché il mondo così offuscato e sbiadito le riempiva la mente di idee, la ispirava. Mio padre era concentrato sulla guida della barca: non gli succedeva da anni di avere un timone tra le mani e il vento negli occhi.
Stavamo navigando da oltre un’ora, abbracciati da un mare calmissimo, quando mia madre gridò: «Ecco l’isola!» E senza rendermene conto, per vederla anch’io, mi avvicinai alla prua dove lei si era già precipitata.
I contorni di quell’agglomerato roccioso vennero fuori da una luce abbagliante. Le chiesi se i suoi amici ci abitassero ancora. Lo feci senza pensare al fatto che non mi avrebbe sentito e risposto. Fu a quel punto che, con orrore, si voltò.
«Fabrizia!»
Quel nome, pronunciato con durezza, con una voce che non riconoscevo, si mescolò ai rumori dell’abisso verso cui mi spinse. Il buio mi prese subito, prima ancora che fossi caduta. Non sapendo nuotare, non fui in grado di ribellarmi.
.
«Che cosa le hai…?»
La domanda di mio padre venne interrotta da un colpo di tosse.
Aveva iniziato a fumare dal giorno del mio incidente, e sebbene lo facesse di rado, non riusciva a trattenersi dal finire un pacchetto intero, sigaretta dopo sigaretta, il giorno in cui andavamo a trovare mia madre.
«Cosa le hai comprato?» ripeté.
«Un libro» risposi, cercando di annodare bene il fiocco sul pacchetto. Un’imprecisione qualunque, e la pignoleria di Alberta Visdomini avrebbe ferito ancora una volta la mia autostima.
«E tu?» chiesi.
Mi mostrò allora il mazzo di fiori che aveva lasciato sulla panca all’ingresso.
«I soliti tulipani rossi» mormorò.
Se c’era una cosa che continuava a fare sorridere mia madre, quella erano i fiori: li annusava estasiata, che odorassero o meno, e dopo averli sistemati sul comodino o sul davanzale della finestra, in base alla direzione della luce, si fermava ad ammirarli. Le ricordavano i tempi felici, diceva, senza specificare quali fossero.
Mi vergogno a dire che i miei iniziarono da quel mancato annegamento. Per mesi fui affidata alla zia Virginia e nulla seppi di ciò che stava passando mia madre, dei suoi incubi, delle voci a cui cercava di sfuggire, della depressione di mio padre. Quando tornai a casa, lei era già stata trasferita in clinica, a seguito di un tentato suicidio.
«Un altro anno è passato…» sussurrò più volte mio padre, a labbra strette, mentre guidava la macchina in direzione della clinica. Gli capitava da tempo di ripetersi, di restare incastrato, con la mente e la lingua, in qualche triste pensiero.
«È passato bene, in fondo» aggiunsi, cercando di sorridere.
Superata la città, i primi campi si aprirono ai miei occhi sotto una luce abbagliante. Potevo distinguere a malapena, deformato dai raggi, il colle su cui svettava il campanile della chiesa annessa alla villa. I cipressi che ricamavano gli orli del sentiero accolsero il nostro arrivo con un inchino, proprio come l’infermiera di mia madre. Faceva sempre così, vedendoci: piegava leggermente il capo e il busto, informandoci con poche parole sullo stato della paziente.
«Oggi ha mangiato tutto» disse, vassoio e piatti vuoti in mano.
Capitava che mia madre rifiutasse il cibo, ma non quando sapeva che saremmo andati a trovarla. Nascosto nel mio zainetto, oltre al libro che le avevo preso in regalo, c’era anche una scatola di biscotti alle mandorle, gli unici dolci che le piacessero e mangiando i quali, a piccoli morsi, non temesse di ingrassare.
«Buon compleanno!» esclamò mio padre quando l’infermiera aprì per noi la porta della stanza.
Mamma era in piedi di fronte alla finestra; i capelli sciolti, già in parte bianchi, coprivano lo scialle che le avevo regalato a Natale. Ci volle qualche minuto perché reagisse alla nostra voce.
Io mi limitai a salutarla, senza farle gli auguri: era il suo quarantacinquesimo compleanno, ricordarglielo l’avrebbe messa di cattivo umore.
«Andiamo fuori?» fu la prima cosa che disse vedendoci.
Per una volta lasciò i fiori sul letto, incurante di dove cadesse la luce: sembrava avere fretta di uscire. Afferrandomi con entrambe le mani, mi trascinò giù per la stretta scala a chiocciola che portava in giardino.
Non aveva più paura di toccarmi né di guardarmi. Fabrizia era morta. L’aveva uccisa il diavolo, lo stesso che aveva dato l’annuncio della mia nascita come di una sciagura. Erano state le sue lunghe mani a spingermi dalla barca, e nessun angelo, tanto meno mio padre, aveva potuto salvarmi. Io ero l’altra figlia, quella che non ricordava, cancellata dall’oblio indotto dalle medicine, introvabile nei suoi quadri così come nelle vecchie fotografie di famiglia. Io, infatti, una testa da accarezzare, occhi in cui specchiarsi, guance che impallidissero o arrossissero, le avevo.
Quando ci fummo sedute sull’erba, le diedi il mio regalo.
«Mi dispiace…» disse, senza aprirlo.
«Per che cosa?» e mi tremò la voce.
«Per non avertene mai fatto uno».
Fu come se avesse parlato una lingua che non conoscevo. Rimasi a fissarla, aspettando, sperando che mi riconoscesse.
Con le dita che sfioravano le orecchie, le guance, il mento, tracciò i contorni del mio volto.
Quello fu il primo e unico ritratto che fece di me.
«You know how every mother has nightmares when she’s pregnant that her baby will be born a monster?».
Diane Arbus