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18 marzo 1972

Autore
Giulio Lepri
Ciclo #4 - Ytalia, storie alter-native
Narrativa
29 aprile 2021

Alle cinque del mattino al Bar Demetrio non è che si possa sperare di trovare chissà quali fighe. Ecco perché ci portiamo dietro Laura.
«E anche stasera seghe e gazzosa» sentenzia Luca mentre sbircia il culo a Laura che ordina un toast. Luca morde un pezzo del suo panino alla porchetta, scuote la testa, e si siede al tavolo tondo con Marco.
A Marco girano le palle come in un flipper: «Guarda qui, quegli stronzi mettono Berlinguer Segretario del partito e si prendono la prima pagina. Sai dove misero Almirante tre anni fa?» dice a Luca, biascicando una patatina, «A pagina 11». Me ne sto appoggiato al juke-box alle sue spalle e noto Laura che lo guarda. Non mi piace quando Laura guarda Marco.
Anche Gianni prende il suo panino con «stracazzo di maionese e cetriolini» e si siede al tavolo, io rimango al mio posto brandendo una brioche all’albicocca, non sono ancora degno di unirmi a loro.
Il mio percorso di maturità nel Msi è ancora lungo, non sono granché come fascista, mi piacciono giusto le poesie di Ezra Pound. Mi piacciono le poesie, in generale. Ma Marco ha detto che farà di me un gran camerata e io gli credo; anche perché ha quel genere di carisma che odio, lo stesso che ha mio padre.
Laura si appoggia alle spalle di Marco, mentre entrano al Demetrio tre paia di Clark’s beige consumate dai fasti del ’68.
Marco sorride come un coyote: «Ragazzi, secondo voi come sono meglio i bambini: stufati o bolliti?». I tre ragazzi di Lotta Continua fingono di non sentire.
«Non so capo» dice Gianni sputtacchiando briciole sul tavolo, «l’importante è condividerlo, no?». Ridono tutti, anche Laura. Fulmino Gianni con lo sguardo ma non se ne accorge.
«Un’acqua naturale, piccola» dice il più basso dei tre comunisti.
«Cecchi che fai» gli dice Marco guardandolo dritto in faccia, «non bevi vodka? Compagno Stalin disapproverebbe».
Risate, anche Laura.
«Cigarini, fai meno il furbo o ti appendo fuori dal bar a testa in giù come la tua puttana pelata».
Marco in risposta rovescia il tavolino. Le Peroni si infrangono a terra con un rumore che attira l’attenzione e costringe il bar al silenzio. Sembra un film di Leone e non mi sono mai piaciuti i suoi film.
Cecchi e i suoi due compagni si avvicinano. Marco si slaccia velocemente la cintura con la fibbia della Folgore e la impugna con rabbia.
Una scossa mi attraversa il braccio destro e il mio cuore perde un battito. Non è per la rissa. è Laura che mi stringe per la paura.
La guardo con un groppo in gola, «Non avere paura,» le vorrei dire «ti proteggo io», ma non mi esce un filo di voce.
Il primo a tirare un pugno è Gianni. È sempre il primo a cominciare nonostante ogni volta finisca per prenderne. Il rosso schiva con facilità il pugno, afferra una sedia e gliela sbatte in testa schiacciandolo a terra.
Luca allora si lancia in un placcaggio basso sulle ginocchia del terzo e finiscono per rotolare abbracciati diversi metri più avanti.
Marco è un buon lottatore, sta frustando Cecchi nella schiena come un antico negriero coi suoi schiavi, ma alle sue spalle quello che ha messo ko Gianni lo afferra per il collo, immobilizzandolo. Marco si dimena come un epilettico, mentre Cecchi si pulisce il sangue che gli cola del mento e fruga con la mano destra dentro il giacchetto: «La vuoi una bella svastica sulla fronte?» minaccia rauco facendo scattare la lama del coltello, «così tutti sapranno per sempre che nazista di merda sei».
Sento Laura che mi sta per staccare il braccio. Mi volto e le vedo gli occhi blu gonfi di lacrime: «Fa qualcosa» mi dice. L’ultima volta che ho visto piangere così qualcuno era mia madre.
Cecchi continua a rimuginare, giocherellando con la lama: «Oppure potrei farti una bella stella, come il Che».
Guardo Luca più in là: è ancora per terra a menarsi, non si è accorto di niente. I quattro gatti rimasti nel locale non sembrano avere voglia di beccarsi una coltellata a gratis. Resto solo io. E Laura.
Cecchi sembra avere deciso: «Vada per la falce e il martello, dai, nel dubbio meglio andare sui classici».
Chiudo gli occhi e mi butto nel mezzo: sono D’Annunzio e lui è la mia Fiume, sono D’annunzio e Laura è la mia Duse, Sono D’Annunzio e frano addosso al Cecchi che non ha neanche il tempo di reagire. Mentre cadiamo a terra sento un dolore acuto affondarmi nello stomaco, poi sempre più dentro. Gli occhi di Cecchi si spalancano e vedo i miei, riflessi, che si fanno più piccoli, più piccoli…

«Bentornato, camerata!» esultano Luca e Gianni con il braccio teso.
Ci metto un po’ a capire dove sono: un letto bianco con le lenzuola ruvide che sanno di sapone dozzinale, un tubicino nel braccio collegato ad una sacca di plastica con del liquido trasparente.
«Che cosa ci faccio in ospedale?».
«Ti sei preso una coltellata l’altro ieri per noi. Te lo ricordi?».
Fisso il filo nero dei punti lungo la pancia, sembro la lampo di un borsello. Comincio a ricordarmi dei comunisti, di Laura e che «Mi credevo D’Annunzio, ma più che Fiume mi sa che ho fatto Caporetto».
«Scemo, non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta».
È Laura. Mi sta stringendo la mano. E con che occhi mi guarda! Bastava davvero prendersi una coltellata per averla? A saperlo prima…
«Vado a chiamare Marco, c’è una cosa che ti deve dare», sorride ed esce dalla stanza. Non credo mi laverò mai più la mano.
«Senti bello, abbiamo provato a rintracciare i tuoi genitori…» Mi fa Luca, poco convinto.
«Non importa. È meglio così.»
Sento i passi nel corridoio sempre più forti, fino a che non si affacciano alla porta mano nella mano: «Ecco il nostro Giani!» sorride Marco. Guardo Laura stringergli la mano, proprio come poco fa la stringeva a me, eppure non sono geloso. Sembrano tutti così felici di riavermi insieme a loro.
«Tieni, te la sei decisamente meritata.»
Marco mi porge una tessera. La prendo: è la tessera del partito.
Guardo la fiamma tricolore plastificata luccicare sotto il neon della stanza. Alzo la testa e guardo i loro sorrisi. Ci sono Luca e Gianni a braccio teso ai piedi del letto, mentre alla mia destra Laura e Marco si stringono e mi guardano con ammirazione, e percepisco qualcosa nell’aria, un sapore che avevo perduto tanto tempo fa, la nostalgia di qualcosa che ho cercato a lungo e che finalmente è qui, in una stanza di ospedale.


Planando sopra boschi di braccia tese