Belladonna of darkness
«Sotto un salcio, afflitti e lassi
della tema e del cammin,
raccogliean gli erranti passi
una bella e un pellegrin».
Luigi Carrer, Poesie. Ballate – La Fuga.
Bambina avanza a tentoni nel buio. So che è a piedi nudi perché i suoi passi non fanno rumore. So chi è perché conosco il suo odore: latte in polvere e fiori. Non vediamo nulla, né io né lei. Facciamo congetture, tentativi, ipotesi. Forse qualche volta indoviniamo, altre sbagliamo completamente, come se la mancanza di vista plasmasse la nostra stessa percezione delle cose: ciò che è tondo diventa spigoloso, ciò che è spigoloso diventa liquido, ciò che è liquido diventa respiro.
Eppure, condividiamo una capacità di osservazione straordinaria: se io e Bambina stiamo davvero attenti, ci rendiamo conto che il buio non è davvero buio, che il nero non è affatto nero, ma blu viola come il mare di notte, e che a volte nel buio si nasconde un altro buio, più piccolo, più denso. Ombre. Ombre che parlano, che soffiano odori polverosi, antichi, che ci toccano, a volerci dire qualcosa che, però, non capiamo.
Parlano una lingua diversa dalla nostra. Sono come sospiri tra le fronde. Fruscii di carta.
Bambina avanza a tentoni nel buio. So che ha i capelli lunghi perché oggi mi ha permesso di pettinarli: sono finissimi, soffici. Mi concentro su ciò che sento: tela di ragno, acqua di fiume, nuvole, ovatta, limo. Anche i suoi capelli sanno di latte e fiori.
Io la chiamo Bambina, ma non sono sicuro che le cose stiano così. A volte la sua voce è acuta, saltellante, altre cupa e un po’ roca. Probabilmente si trova in una via di mezzo tra l’infanzia e la maturità, ma io continuo a chiamarla Bambina. Se anche fosse vecchia, vecchissima, paragonata a me non sarebbe che un atomo di niente. Non ricordo quanti anni o secoli io abbia: l’ho dimenticato. Esisto in questo luogo da molto, moltissimo, tempo.
Ci sono state altre bambine prima di lei, le ho accompagnate tutte, ma questa è speciale. Non ha paura. Abbraccia l’oscurità, vi cammina attraverso, si lascia toccare. Ascolta. Cerca qualcosa. Di tanto in tanto, quando inciampa o urta oggetti sconosciuti, si ferma e comincia a elencare tutto quello in cui è inciampata o che ha urtato, per non dimenticare. Una sorta di geografia della tenebra fatta di ricordi.
*
Portale. Cardini cigolanti, odore di legno. Qualcuno, qualcosa, ha detto «entrate».
Tenda di velluto. Fibre asciutte, odore di polvere. Un lembo in basso mi ha sfiorato la caviglia. Forse era un serpente, ma i serpenti non sono così caldi. Giro a destra, quella che io penso sia la destra.
Albero di carne. Un tronco di pelle, pelle viva, percorsa da venuzze. Immagino siano azzurre. Ma com’è l’azzurro? Non sono sicura di ricordare. Odore di sudore. Quando vi ho appoggiato il palmo, ho sentito l’albero sospirare di piacere. Aveva la forma di un fianco di donna.
Risveglio. Maestro mi lascia dormire su di sé. Ha il corpo di un gigante, ma la consistenza del fumo. Quando mi sveglio, cerco di guardare la sua erezione, ma ovviamente non vedo nulla. Posso però toccarla. Mi sfugge tra le dita, poi torna consistente, poi si sfalda in spirali vagamente luminescenti. Mi alzo e proseguo il cammino accanto a lui. Penso mi ami.
Vaso di fiori. Vetro, ceramica, odore di terriccio umido. Fioriscono rose, le riconosco dal loro profumo unico. Ne colgo solo due. Mi serviranno come pegno per l’abisso.
*
Bambina va avanti a elencare ciò che ricorda fin quando non incontriamo qualcos’altro. Ha ragione quando pensa che io la ami. È così. La amo come si amano le cose per la prima volta, con ingenuità, sorpresa, euforia. Paura.
Non mi hai mai detto il suo nome, ma a cosa serve un nome nel buio? A chiamarla se si perde? A sentirla vicina? Non serve. Ci teniamo per mano, camminiamo insieme attraverso la notte perpetua.
«Maestro, secondo te questo è un libro?» mi chiede.
Mi chiama Maestro. Mi passa un oggetto squadrato, lo annuso, sa di carta e inchiostro. Sembra un libro. Glielo restituisco, sento il fruscio di pagine che scorrono tra le dita. Deve essere proprio un libro. Non abbiamo idea di chi l’abbia scritto, che storia racconti, che finale abbia. Nel buio prende le sembianze di un piccolo buco nero. La bambina ci infila un dito dentro, poi sento il suo «oh» delicato.
«Sento qualcosa» sussurra, «le lettere si stanno arrampicando sul mio braccio».
Ne sono felice. Forse le parole risaliranno il suo braccio, la spalla e arriveranno all’orecchio, infilandosi nel timpano per poi venire assorbite dalla sua mente. Così, forse, potremo scoprire chi l’ha scritto, che storia racconta, che finale ha.
«Allora?» domando.
Bambina lascia cadere l’oggetto.
«Una storia triste» risponde, avvilita, «e qui abbiamo bisogno di storie felici».
Camminiamo sempre insieme. Quando è stanca lascio che si accoccoli nello spazio tra il mio petto e il braccio. Ci sta tutta intera, come una bambola. Respiro il suo odore di latte e fiori, capisco che si addormenta quando comincia a mugugnare lievemente. Se mi concentro, mi rendo conto che i suoi capelli non sanno di fiori generici, ma di un fiore specifico. Sa di acqua stagnante, di fango, ma sul fondo avverto come un odore morbido, di borotalco. Belladonna, mi dico. Il suo veleno entra in circolo. Lo capisco perché il buio all’improvviso scoppietta di fulmini colorati e le ombre assumono sfumature e forme danzanti. Ridacchiano con voci lievi che fanno eco contro l’enormità di questo spazio.
Bambina non si sveglia. Ridacchia anche lei nel sonno. Si stira, si contorce languidamente contro di me, mi appoggia una mano sul petto. Il suo ginocchio sfrega contro la mia erezione. Le sfioro le palpebre, dorme ancora. O forse fa finta di dormire.
*
Portale. Tenda di velluto. Albero di carne. Risveglio. Vaso di fiori.
Accordo. Ha ragione Maestro. Ho fatto finta di dormire. Il suo petto era come melma, la mia mano ci affondava dentro. Odore di bosco, di muschio bagnato. Le ombre ridevano.
Elisir di belladonna. Ho sentito sulla pelle il buio contrarsi. Aveva la pelle d’oca. Odore di mandorla amara. Un desiderio straziante, letti di seta, pelle rovente, la sua erezione contro la mia coscia, montagne di fiori, artigli intorno al seno, un sospiro violento, la schiena luminosa, due corpi nudi uno sull’altro, lui che premeva per entrare, a cavalcioni ho cavalcato le ombre, sono entrate dentro di me, la sua eccitazione era crudele, ho infilato una mano nel buco nero del suo cuore. Intorno al mio braccio si sono arrampicati ramoscelli di belladonna, nella bocca ho sentito le sue dita cercarmi la lingua e bacche dal sapore del veleno. Lo amo, come si amano le cose per l’ultima volta, con disperazione, disincanto, con la rabbia di tenere per sé almeno questo.
Costruttore dell’alba. Sento che la notte è passata. Odore di lenzuola dopo il tramestio di corpi impazienti e ciechi. Forse altrove è già giorno. Ma cos’è il giorno?
*
Come sempre facciamo congetture, tentativi, ipotesi.
«Secondo te è amore?» mi chiede Bambina.
Ricordo il suo corpo greve sul mio ventre. Non aveva il peso di una bambina, ma di una donna adulta. Anche il suo seno, le natiche, il calore che si irradiava dal pube, la carnosità della lingua. L’ho toccata. Era una lingua grande. Però io continuo a chiamarla Bambina.
«Non vedo cosa possa essere se non questo» rispondo.
Sento che sorride, e fa sorridere anche il buio, perché mi stringe forte la mano.
«Bene» sussurra, «qui abbiamo bisogno di storie felici».
Lei è sempre stata così, da quando è nata: un’anima leggiadra, speranzosa, non adatta all’altro mondo, quello da dove viene. Me l’hanno affidata. Avevo il compito di condurla qui, di condurla all’abisso. Bambina non era fatta per restare nel suo mondo. In sé aveva i germogli del buio, semi che avevano bisogno del buio per crescere. Non tutti sono fatti per fiorire al sole, alcuni fanno a meno della vista per sentire. Per sentire.
Quando l’ho portata qui, mi ha chiesto: «Perché?».
«Perché avevamo bisogno d’amore».
Le altre bambine che ho guidato prima di lei non sono sopravvissute. La paura del buio le ha schiacciate, il terrore delle ombre le ha fatte seccare dentro. Avevano timore di diventare tenebra e tenebra sono diventate. Penso siano felici ora che non hanno più nulla da combattere.
*
Portale. Tenda di velluto. Albero di carne. Risveglio. Vaso di fiori. Accordo. Elisir di belladonna. Costruttore dell’alba.
Pozzo infinito. D’improvviso i miei piedi sono affondati nell’acqua fredda. Un lago o una piccola pozza, non so. Ho allungato la mano per misurarne la grandezza. Odore di alghe e funghi. «Facciamo un bagno» ho proposto a Maestro. Lui ha riso, poi mi ha condotta a largo tenendomi per mano. Qualcosa ci sfiorava la pelle: fiori di loto forse, pesci forse, ombre forse. Sono rimasta immersa per tanto tempo, con Maestro che mi teneva a galla tra le sue braccia. Ho lasciato le due rose sulla sponda del lago, non devono rovinarsi.
Yomi no kuni. Ci avviciniamo all’abisso. Sento che il buio sfarfalla, che le mie pupille si dilatano. Odore di foschia e zolfo.
Maestro stamattina (o era stanotte?) mi ha detto: «Qualsiasi cosa succeda, io verrò con te». Ho sentito una lacrima calda scendere sul viso. Non avevo mai pianto.
C’è qualcosa nella tristezza che non capisco, che mi fa sentire come se il mio corpo si sottomesse a una malattia perenne: nuvole turbolente in testa, mani che tremano, palpitazioni, l’incapacità di trovare le parole. Qui, al buio, le parole sono tutto. Senza le parole siamo perduti. La tristezza mi costringe al silenzio, a trattenere un coagulo di cose non dette, non viste, non sentite. Maestro non può vedermi. C’è solo la mia voce. Il mio corpo. Ha detto che verrà con me.
*
Bambina si avvicina all’abisso. Intuisco il suo nervosismo e lo sforzo a tenerlo a bada. Crepita attraverso il palmo della sua mano. Dopo aver galleggiato nel lago ci siamo riposati sulla sponda. Ha lasciato che la possedessi. Ho appoggiato la schiena contro qualcosa, forse uno di quelli che lei chiama “alberi di carne”, e mi è salita sopra. Al buio la sua voce, i suoi sussurri, parevano venire da ogni parte.
Mi domando come sarà amarla quando arriveremo alla fine, sempre che l’abisso sia davvero la fine. Forse dopo ci sarà qualcos’altro, un mondo in cui potremo finalmente guardarci negli occhi. E quando ci guarderemo negli occhi, ho paura che avrà paura di me, dell’ombra che mi porto dietro.
*
Portale. Tenda di velluto. Albero di carne. Risveglio. Vaso di fiori. Accordo. Elisir di belladonna. Costruttore dell’alba. Pozzo infinito. Yomi no kuni.
Portale. Cardini cigolanti, odore di legno. Qualcuno, qualcosa, ha detto «entrate».
Io e Maestro continuiamo a camminare nell’oscurità, ma noto dei piccoli cambiamenti: la terra è più densa, asseconda i nostri passi; l’aria sembra rarefatta, come se stessimo salendo di quota; odore di neve; lui mi tiene più vicina a sé, ha paura di perdermi. Camminiamo mano nella mano come sempre, il buio e il piccolo buio sono di nuovo blu viola, poi blu blu, poi ecco, all’improvviso nel mezzo, in quello che pare il suo cuore, sembra schiarirsi. Sorge il sole?
«È un riflesso» bisbiglia Maestro, «guarda: luccica».
Non lascio la sua mano. Camminiamo, camminiamo per un tempo infinito. Le ombre ci seguono: un corteo di veli di nebbia e fumo. Ridono, sussurrano, ma non capiamo cosa dicono. Parlano una lingua diversa dalla nostra. Urto qualcosa, mi ferisco la fronte. Dal naso sento scendere un rivolo di sangue. Maestro mi pulisce. Quando mi rialzo e allungo la mano avverto una superficie congelata, forse ghiaccio, forse vetro. Per quel poco che riesco a vedere, se mi muovo a destra, si muove a destra con me; se inclino la testa, inclina la testa con me.
«È uno specchio» dice Maestro.
Contraccolpo. Quella lì dentro sono io. Odore di Maestro. Odore di rose. Lo strattono verso di me con violenza, lo specchio restituisce un’immagine nebulosa, tremolante, di due esseri viventi, il primo altissimo e nero come catrame, la seconda – io – come una creatura tutta bianca che non gli arriva nemmeno alla cintola.
*
Bambina ci infila un dito dentro, poi sento il suo «oh» delicato. La superficie si è dischiusa come un bocciolo. Bambina non poteva che essere bianca. In questo luogo avevamo bisogno d’amore. Di luce. Porgo le sue rose, lei le getta nell’abisso come pegno per ringraziare le ombre di non averla mangiata viva. D’altra parte, ora sappiamo che sono un’ombra anch’io.
Portale. Tenda di velluto. Albero di carne. Risveglio. Vaso di fiori. Accordo. Elisir di belladonna. Costruttore dell’alba. Pozzo infinito. Yomi no kuni. Portale. Contraccolpo. Luce. Vita.
*
«Ed è così, signori e signore, che la storia finisce» conclude il burattinaio, «un applauso a Bambina e a Maestro!».
Bambina e Maestro si baciano. Il pubblico scoppia in un applauso fragoroso. Qualcuno, dal fondo della piazzetta, urla «Bis! Bis! Raccontaci un’altra storia felice!». Il burattinaio, la faccia dipinta di cerone e baffetti posticci, sorride, si inchina e fa inchinare anche le due marionette. La prima, nella mano destra, quella di una bambina dai capelli e dalle vesti bianche, con due rose minuscole ricamate sul colletto; la seconda, nella mano sinistra, di un semplice panno nero grande il doppio. Sui visi di carta hanno degli occhi dipinti, chiusi.
Il pubblico applaude ancora, le marionette si inchinano in ogni direzione. Quando i bambini e le bambine capiscono che non ci sarà alcun bis, si disperdono.
Il burattinaio annuncia che lo spettacolo verrà ripetuto l’indomani sera, spegne la lampadina sul piccolo soffitto del teatrino, tira le tende rosse; nel frattempo, una giovane adolescente, truccata allo stesso modo, passa in mezzo alla folla per raccogliere spicci in un cappello di feltro.
Il burattinaio si avvia verso una roulotte parcheggiata sul fondo della piazza. Entra, lancia il copricapo sulla sedia, poi scoperchia una cassapanca gitana in legno di cedro, l’unica cosa di valore che possiede. Dentro la cassapanca, foderata di velluto blu viola: oggetti di scena, scampoli di tessuto, coroncine, piume, vecchi libri, altre marionette, una saponetta al latte d’asina, fiori secchi. Adagia con cura Bambina e Maestro in un angolo, poi chiude il coperchio.
Una targhetta d’ottone vicina alla cerniera riporta un’incisione: “Teatrino del buio”.
A illustrare, la litografia “Den lilla prinsessan och trollen” da “Troll” (1915) – Hendrick van Cleve.