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Chiavi

Autore
Francesco Casini
Ciclo #1 - Una porta si apre
Narrativa generale
8 ottobre 2020

-Arriverà mai qualcuno?
Siamo in veranda a fumare, stanchi. Abbiamo nuovamente tirato a lucido la hall, spolverate e impilate le sedie dell’angolo colazione, sistemato il vecchio archivio cartaceo dietro la reception: un mucchio di registri e rubriche telefoniche ingialliti. I vecchi proprietari gestivano ancora tutto con telefono e taccuino.
Ele spegne la sigaretta e mi guarda.
-Allora?
Non so che dire. Tutti i giorni mi fa la solita domanda.
Si alza innervosita.
-Non capisco come fai a rimanere così calmo!
Tira un calcio alle scope appoggiate al muro che crollano e sparisce giù per la discesa, in direzione del mare. Rimango ancora ancora un po’ a fumare. Il sole è appena tramontato, il cielo va scurendosi. In lontananza arriva il rumore delle onde portato dal vento. Il vento è leggero e persistente. Quando si affievolisce torna il silenzio. Siamo lontani dal mare, non molto, ma sicuramente di più degli altri hotel. Forse è per questo che non abbiamo clienti, non so. Getto il mozzicone in strada, raccolgo le scope e rientro. Torno in reception e prendo il grosso mazzo di chiavi con i passe-partout e i doppioni. C’è una piccola porta nel sottoscala che non sono ancora riuscito ad aprire. Mi metto lì e provo tutte le chiavi. Cerco di seguire un ordine ma il mazzo è molto grosso e disordinato, le chiavi si distinguono a malapena. Le provo tutte, alcune non entrano, altre non girano, arrivo in fondo e mi convinco di averne saltata qualcuna. Sono giorni che ci provo, Ele mi prende in giro. Tiro le chiavi spazientito contro il muro. Improvvisamente mi sento in colpa ed esco a cercarla.
Vado verso la spiaggia. La strada è in discesa, a volte accelero il passo spinto dalla gravità. La cittadina è desolata, mi accompagna il frinire degli insetti estivi. Arrivato al mare la strada curva e costeggia la spiaggia fino agli scogli. La vedo seduta laggiù, un puntino sulle pietre.

Ele torna a casa e s’infila in cucina.
-Ciao!
Non risponde.
-Tutto ok?
-Ho avuto una giornata di merda – urla dall’altra stanza.
Sento che apre sportelli, prende del vino, un bicchiere. Batto sul divano e le dico di venire qua. In tv passa un programma di cucina. Spiegano come preparare l’astice. Ho sempre pensato quella con le chele fosse l’aragosta, e invece.
-Ele?
Il cuoco dice che gli astici non piangono. Il sibilo che si sente quando si gettano vivi in pentola, sono i gas all’interno del guscio. In acqua bollente muoiono istantaneamente, non c’è da preoccuparsi. Mi chiedo se ne avrei il coraggio.
Ele è ancora in cucina. Mi alzo e la raggiungo. È seduta al tavolo, si regge la testa.
-Hey che succede?
Faccio per accarezzarla ma si ritira.
-Scusa. Ho bisogno di stare sola.
Mi sento un po’ offeso ma non lo do a vedere. Prendo un bicchiere anch’io e mi verso del vino. Mi siedo in fondo al tavolo e aspetto. Dopo un po’ inizia a sfogarsi. Parla fissando il bicchiere.
-Ti giuro il mio collega non fa un cazzo, un cazzo di niente.
È sempre la solita storia.
-Oggi mi ha lasciato cinque contratti da elaborare. Come si fa a essere così irresponsabili? Devo lavorare il doppio e sono pagata una miseria.
Il cuoco in soggiorno continua il suo programma. Dice che per controllare la cottura basta infilare il coltello nell’astice. Mi chiedo come sia possibile infilzarlo attraverso il guscio, vorrei proprio vederla questa.
-Non ne posso più cazzo!
Batte il pugno sul tavolo. Il vino nei bicchieri oscilla. Mi viene sempre in mente la scena di Jurassic Park.
-Perché non smetti di pensarci.
Vado da lei di nuovo. Stavolta si fa accarezzare.
-Vai a rilassarti sul divano, preparo io cena. Ti va?
Fa sì con la testa. La bacio sulla fronte. Fa per alzarsi ma la trattengo.
-Aspetta.
Le riempio il bicchiere di vino.
-Ecco, portati questo.
Sorride e scuote la testa come per dire che sono sciocco.
Do un’occhiata in frigo. Sono rimasti dei funghi. Decido di fare un risotto. Controllo se ho il burro. Niente burro, userò l’olio. Sciolgo il dado per il brodo in un pentolino d’acqua. Faccio tostare il riso. Prendo il vino dalla tavola e lo faccio sfumare. Annacquo tutto e prendo i funghi. Il trucco è cuocerli a parte e non sciacquarli. Dopo un po’ mi rendo conto che non sento Ele. La cerco in soggiorno ma non la trovo. In tv passa la pubblicità.
-Ele?
Vedo la luce fredda del bagno tagliare il corridoio. La chiamo nuovamente ma non risponde. La trovo seduta sul cesso ancora vestita. Ha il mascara sciolto sul viso. Singhiozza.
-Che diavolo succede?
-Lasciami stare.
Vado da lei, mi inginocchio alle sue gambe. Cerco di consolarla.
-Dai, è stata solo una giornata di merda.
-No è che.
Piange ancora un po’. Strappo della carta igienica e gliela allungo. Si soffia il naso. Riprende fiato, poi continua con la voce strozzata.
-È stata una settimana di merda, un mese di merda, un anno di merda…
-Ma che significa?
Ricomincia a piangere. Non so proprio che fare. Mi sembra un problema enorme, così, da affrontare all’ora di cena.
-Ci facciamo una vacanza? Hai solo bisogno di una vacanza, dai. Stacchiamo un po’.
Improvvisamente mi abbraccia. Piange sulla mia spalla. Sussurra qualcosa.
-Ho paura di non amarti più.
Trattengo il fiato per un momento. Mi alzo e la fisso, impietrito.
-Scusa io… ascoltami, parliamone.
Fa un lungo discorso ma non sto ascoltando.
Chissà come s’infilza un astice. Non riesco proprio a pensare ad altro.

Siedo accanto a lei. Da qua vediamo il piccolo golfo della cittadina. Ha gli occhi umidi, cerca di nasconderlo. È seduta controvento, fuma. Gli sbuffi di sigaretta volano via come quelli di un treno. Ele fuma molto quando è stressata. Fumare è una forma di autolesionismo, ho sempre pensato che chi esageri abbia colpe da scontare.
Adesso mi guarda, ha gli occhi rossi.
-Forse abbiamo fatto una cazzata – dice.
-Le cose andavano male comunque.
-Sì, ma almeno non eravamo sul lastrico.
Ha ragione, penso. Le dico che il rischio d’impresa fa paura, ma gli investimenti fruttano sempre, è solo questione di tempo. Qualche sciocchezza dei tempi dell’università. Lei ascolta in silenzio. È troppo intelligente per credermi ma sembra apprezzare il tentativo. Le prendo la testa e me la stringo al petto. L’abbraccio un po’, lei si lascia andare. S’è fatto buio, il mare adesso è una grossa macchia nera. Non vediamo nulla, sentiamo solo lo sciabordio della risacca. Ele dice che il mare è inquietante di notte.
-Perché?
-Non so, si muove nel buio, fa paura.
Annuisco anche se non sono molto d’accordo.
-Ho freddo.
Si rigira tra le mie braccia e chiude gli occhi. Penso a noi, a quello che stiamo facendo. Mi chiedo se siamo stati ingenui a cercare soluzioni altrove. Contemplo il paesaggio attorno. Le piante in lontananza frusciano, le cicale continuano a ronzare e il mare a scavare la costa. Guardo gli scogli smussati sotto di noi e mi chiedo da quanto siano qui, come rovine. Questo angolo di costa mi sopravviverà immutato. Per quanto le cose possano andarci male, il mondo se ne accorgerà appena. Il pensiero in un certo senso mi consola.
Comincio a sentire freddo anch’io. Smuovo Ele e le dico che è ora di tornare. L’aiuto ad alzarsi e camminiamo tenendoci per mano fino all’hotel. Rientriamo e lei vede il mazzo di chiavi per terra.
-Ci sei riuscito?
Scuoto la testa.
Raccoglie le chiavi e si avvicina alla porta. Ne infila una qualsiasi e gira. La serratura scatta al primo colpo. Sgrano gli occhi e la guardo sbigottito.
-Ma come diavolo hai fatto?!
Lei esulta e mi corre incontro. Mi salta in collo.
-Erano giorni ci provavo!
La faccio volteggiare un po’, ridiamo come due bambini. Quando mi viene il fiatone la rimetto giù. Mi rendo conto che non la vedevo ridere così da parecchio e che è bellissima quando ride. Le do un bacio e corriamo alla porta. Muoio dalla voglia di sapere cosa c’è dentro. La spalanchiamo. Cianfrusaglie polverose, uno scaffale con qualche attrezzo per la manutenzione, un sacchetto pieno di saponette di cortesia, nulla di che. Siamo contenti comunque, guardiamo il ripostiglio soddisfatti. Ele dice che ha fame, va a cucinare qualcosa. Le faccio un cenno di assenso e lei corre via verso la cucina. Vado a sedermi in reception, metto le gambe sulla scrivania e tiro un grosso sospiro.


Illustrazione di Silvia Lutaj