È il mio momento
Le gite del fine settimana con i miei genitori e – se la madonna ti aiutava – qualche amico di famiglia sono state la maledizione della mia infanzia e di buona parte della mia adolescenza. Ho argomentato più volte davanti ai miei che preferivo essere lasciato a casa anziché fare un interminabile giro in Umbria a vedere chiese e salire scalini di pietra finché non mi andava il cervello in pappa. Ma da quell’orecchio proprio non ci sentivano. Per convincerli a lasciarmi a casa c’è voluta una gita particolarmente disastrosa – l’ultima che abbiamo fatto insieme, come una famiglia – a Montebello di Torriana, sull’Appennino romagnolo vicino a San Marino. Ci andammo una domenica di giugno. Avevo sedici anni.
Con noi c’era una coppia di amici dei miei e la loro figlia Fiorella, che aveva la mia età. Non eravamo amici, ma nemmeno ci odiavamo. Certo dopo averla vista per cinque giorni a settimana tutte le mattine in classe, passarci anche il weekend non era entusiasmante, ma tant’è, tutto fa brodo se viaggi coi vecchi. Andammo a visitare questo castello appartenuto a non so che dinastia di pitocchi del Medioevo di cui non sapevo nulla e intendevo continuare a non saper nulla anche dopo la visita. Probabilmente a causa del forte vento che soffiava dall’Adriatico – poteva piovere nel giro di pochissimo – in giro c’eravamo solo noi. Mentre i miei e i genitori di Fiorella si spargevano per le stanze, provando a seguire la guida, Fiorella e io finimmo per prendere la nostra strada e scomparire discretamente altrove.
O per meglio dire: Fiorella, guida alla mano, stava seguendo una traccia, e io per non sapere che altro fare le andavo dietro pensando ai fatti miei.
– Bisogna che troviamo la ghiacciaia. Deve essere qui da queste parti, disse a un certo punto col naso nel libro aperto, imboccando una rampa di scale verso il basso.
– Trovare cosa?
Scendevamo in una penombra grigia. Fuori dalle bifore si vedevano le nuvole dense e la luce piovosa e limpida dei temporali in arrivo. Il vento che fischiava tra le fessure mi regalava, sempre più intenso, l’odore di pietra fresca.
– La ghiacciaia dov’è scomparsa Guendalina.
– Non ti seguo.
– O Azzurrina. Preferisco Guendalina, suona meno inventato.
– Fiore’, bisogna che mi spieghi perché non sto capendo.
Si fermò di colpo e mi guardò.
– È strano che tu non lo sappia. Lo sanno tutti. A me lo hanno raccontato alle medie.
– Cosa?
– Che il castello è stregato.
– In che senso?
– C’è un fantasma che si aggira per queste sale. Non tutti i giorni, solo la sera, e solo nel giorno del solstizio d’estate.
Ci pensai un attimo.
– Cioè, stasera?
– Appunto. Per questo speravo di beccarla.
– Ah, è una lei?
– Sì. Guendalina, o Azzurrina. Come ti ho detto, preferisco il primo.
– Però il nome mi dice qualcosa. Aspetta, aspetta: la so. Era albina, giusto?
– Bravo.
– E figlia di questo grande feudatario.
– Ugolinuccio Malatesta. Signore di questo castello nel 1375.
– La povera bimba trascurata che gioca con la sua palla di stracci!
– Esatto.
– Scortata dai due soldati!
– Quella!
– Rincorre la palla nei sotterranei, urla, i soldati scendono a vedere e lei è scomparsa.
– Bravissimo. Però non era un semplice sotterraneo. Era la ghiacciaia. Ma quindi lo hanno raccontato anche a te.
– Sì. Un sacco di anni fa, alle elementari. Me ne ero quasi dimenticato. Mi fa stranissimo che siamo proprio dove è successo il fattaccio.
– Anche io mi sento molto emozionata.
– Ma quindi questa gita è opera tua? Cioè, hai convinto tu i miei a fare questa gita con i tuoi, proprio qui?
– No, credo lo abbiano deciso per caso, ma quando me l’hanno detto mi è scattata la lampadina e ho fatto qualche ricerca.
– E che hai scoperto?
– Che nessuno crede a questa storia.
– Ma tu sì?
Fiorella non mi ha risposto, ma ha chiuso il libro e si è fermata di colpo. In effetti eravamo scesi lungo l’ultima rampe di scale, questa volta di legno, ed eravamo finiti in una stanza sotterranea di pietra, illuminata da una luce sul soffitto. Stavo per ripetere la domanda, ma ci rinunciai. Mi piaceva quel silenzio.
– Speravo che qui fosse più facile vederla, sussurrò Fiorella alla fine di una lunga pausa.
– Perché è scomparsa qui?
– Sì.
– Vuoi dire che nessuno ci ha mai pensato?
– Forse. Ma qui non lo dice.
Rimanemmo in silenzio per un attimo.
– Io torno su, annunciai.
– Fermo dove sei.
Finii col culo per terra, sdraiato sulla pietra come una stella marina. Provai ad alzarmi – avevo braccia e gambe pesanti come piombo. La lampada sul soffitto andò in corto circuito ed esplose. Davanti a me brillò qualcosa di simile a un lampo – un lampo con una testa e due braccia. Ma non seguì alcun tuono. Fiorella disse:
– Vado a chiamare aiuto.
Un secondo dopo era a terra anche lei.
– Raffaello, aiutami. Non riesco a muovere un muscolo.
– Nemmeno io. Sono paralizzato.
– Ma che sta succedendo?
– Non lo so.
– Chi c’è qui con noi?, urlò allora Fiorella.
– Proprio tu lo chiedi?
Era una voce nel buio. Dopo che ebbe parlato, si diffuse per la ghiacciaia una luce d’abisso, blu scura e malcerta. Mi parve di vedere due piccole macchie rosse come rubini brillare e scomparire nell’azzurro, come minuscoli fulmini.
– Non capisco, continuò Fiorella. – Non vedo nessuno. Sento una voce ma non c’è nessuno.
– Non vedi nessuno, riprese la voce – perché i fantasmi, da che mondo è mondo, sono perlopiù trasparenti.
Non riuscimmo a rispondere.
– Voci senza corpo. È deprimente, sapete. Già da viva nessuno mi faceva caso, ma dopo settecento anni di trasparenza non so davvero come ho fatto a non sbroccare.
– Non sarai mica Azzurrina, chiesi.
– O Guendalina, corresse Fiorella.
– Sono stata battezzata Laldómine, in realtà. Un nome fiorentino dei miei tempi, perché mamma era di Firenze, una Portinari che andò sposa a Uguccione di Montebello, il torsolo che gestiva questo posto. Azzurrina e Guendalina sono nomi venuti fuori dopo da non so che chiacchiera male interpretata. Ma questo non vi interessa.
La luce aumentò d’intensità. Ci parve di scorgere all’improvviso una figura umana in mezzo a noi; una bambina dai capelli lunghi, azzurri – la pelle bianca e gli orli del corpo tremolanti come sott’acqua. Quando aprì gli occhi capii da dove venivano quei fulmini di rubino.
– Se mi concentro, si vede qualcosa, continuò lei. – Ma più di così non ci riesco. Pazienza: a breve non sarà più un mio problema.
– La leggenda era vera…?, chiese Fiorella.
– Dici se ero veramente albina…? Certo.
– I capelli azzurri?
– Vero anche quello. Mamma me li tingeva con non so che zozzeria che me ne ha fatto cadere metà. Si vergognava di me. Anche papà. Mi hanno sempre ignorata, e sbolognata a balie o soldati che mi tenessero dietro mentre sgambavo per il castello.
Cominciava a succedere una cosa strana. Mentre giacevo immobile a terra, sentivo salire la maglietta verso il mio collo. Come se qualcuno me la stesse provando a tirar via.
– E la storia della palla di stracci?
– No, quella è una scemenza. Giocavo con le bambole, non a palla. E non sono scomparsa davvero: sono morta strangolata, dichiarata scomparsa e seppellita di nascosto la notte dopo.
– Oddio, e da chi?
– Sempre da mamma. Non stava benissimo di testa.
Riecco di nuovo quella buffa sensazione di prima, come se i miei pantaloni si stessero sfilando da soli, scendendo lungo le mie cosce.
– Dio, ma che orrore, mormorò Fiorella.
– Vero? E non è che dopo sia migliorato qualcosa. Ero diventata un fantasma, a tutti gli effetti invisibile. Prima lo ero solo per modo di dire.
– Perché sei rimasta qui?, ho chiesto allora.
– Perché ho pazienza, mi sentii rispondere da quella figura sfocata nella tenebra azzurra. – Una cosa interessante dell’essere morta e rimasta, diciamo, è che più passa il tempo, più impari a controllare tutta una serie di fenomeni.
La ascoltavo, ma non riuscivo a prestare molta attenzione perché proprio in quel momento le mutande mi scendevano giù dal bacino, verso le ginocchia. Ero in atroce imbarazzo. Qualcosa si gonfiava sotto la mia pancia, come quando mi alzavo di notte con la vescica piena.
– Certo, non succede subito, devi aspettare – appunto, devi avere pazienza. Ma diventi più potente con l’andare degli anni, e se sai aspettare abbastanza, arriva il tuo momento.
– Senti, non so se sei tu a fare questa cosa, esclamò Fiorella – ma smettila subito. Rimettimi addosso i pantaloni e le mutande. Cioè, le mutande e poi i pantaloni. E lascia stare il mio regg—
Si sentì il clac del gancio, e lo scorrere della seta sulla pelle.
– E il mio momento è arrivato, proclamò la bambina fantasma. – Oggi finalmente smetto di essere invisibile.
La luce azzurra raddoppiò d’intensità. Gli occhi di Laldómine presero fuoco e brillarono come soli morenti. Mi sentii percorso da un calore gelido, elettrico – fui sollevato, inerte come una marionetta senza fili, tornai dritto in piedi, mi staccai da terra, mi caddero pantaloni e mutande. Non riuscivo nemmeno a tenere la testa dritta. Col mento poggiato sullo sterno, non potevo che testimoniare con orrore la mia spaventosa erezione.
– Raffaello, aiuto. Non riesco a muovermi. Non riesco a controllarmi, gridò Fiorella. Provai a muovere gli occhi verso di lei, debolmente bluastra nella luce della ghiacciaia. Sospesa in aria a pochi centimetri da terra, i pantaloncini caduti e le mutande attaccate alla caviglia sinistra, era per il resto completamente nuda. La bambina fantasma non si vedeva più, come dissolta in una sfera di elettricità carminio e celeste che scorreva attraverso e intorno a noi.
– Forza ora, tuonò una voce nel nulla.
Qualcosa intorno a me mi strattonò verso Fiorella. La testa continuava a pendermi dal collo inerte, sbattuta a destra e sinistra mentre il mio corpo si estendeva sopra quello di Fiorella. Mi veniva da vomitare. La punta della mia erezione ora toccava il suo ombelico, e mi pareva che a forza di pulsare sarebbe esplosa. Non riuscivo a non guardare la maschera di orrore sul viso di Fiorella, le lacrime che cominciavano a scenderle sulle guance. Del tutto a sproposito mi venivano in mente i dipinti egiziani di Nut, il cielo, sopra Geb, la terra, quando il vento li separa dal loro amplesso perpetuo per permettere alla vita di nascere.
– Dentro, ordinò la voce. Sempre sospeso in aria, fui preso come un pupazzo da una mano immensa, che provò maldestramente a centrare la vagina di Fiorella con il mio aggeggio in fiamme, finché non la trovò e mi ci spinse dentro come un cucchiaio nella panna. Fiorella mandò un urlo e a me venne giù un fiotto di sangue dal naso. Sentivo i singhiozzi di lei mentre come uno stantuffo venivo sbattuto dentro e fuori, dentro e fuori. Mi sentivo improvvisamente di pietra, incapace di pensare. Solo il mio bacino sembrava scaldarsi sempre di più, e pizzicare. Quando il pizzicore fu insopportabile, di colpo credetti di pisciare fuoco, e fui percorso da un languore molliccio. Rimasi così, dentro Fiorella, per non so quanto, finché non fui sollevato in aria e lasciato cadere a terra come una bambola rotta. Sentii un crac nel mio braccio e urlai come un maialino.
– Scusa, sentii tuonare la voce. – Non è stato un lavoro precisissimo. Ma l’importante era che sganciassi tutta la carica dove dovevi.
Mentre mi contorcevo a terra tenendomi il braccio rotto, Fiorella si rialzò, fece per rimettersi le mutande, non ci riuscì, si rannicchiò in posizione fetale sulla pietra dura. La luce azzurra era scomparsa ed eravamo al buio. Da fuori si sentiva il ruggito del temporale.
– Perché hai fatto questa cosa…?, mugolò infine tra un singhiozzo e l’altro. – Perché?
– Perché, come te e il tuo amichetto, ho diritto anch’io a esistere, rispose la voce, ora sottile e attutita. – E questo è un modo più efficiente di altri.
Col cervello investito da una scarica di dolore dietro l’altra, provai a rialzarmi col braccio sano. La voce sembrava provenire da Fiorella. Non dalla sua bocca però: da più sotto.
– Bene. Non mi resta che darvi le istruzioni finali, e poi dileguarmi, disse la bambina fantasma, la voce come un gorgogliare nel basso ventre. – La copula è riuscita splendidamente, per fortuna tu stavi ovulando e ora sono sistemata nella tua tuba di Falloppio destra.
Fiorella mandò un guaito come di un cane calpestato.
– Non preoccupatevi, non è figlio vostro. Ho debitamente sostituito tutti e quarantasei i cromosomi, sono io quella che Fiorella porta in pancia. Ho eliminato la questione dell’albinismo perché non sono cretina, ovviamente, ma per il resto è tutto materiale genetico mio. Di voi mi servivano solo i gameti e un contenitore.
Fiorella cominciò a mormorare ‘no, no’ mentre piangeva. Io caddi sulla schiena, incapace di pensare.
– Raccontate un po’ quello che vi pare ai vostri genitori, continuò la bambina fantasma, ora un grumo di cellule che si
moltiplicava. – Non m’interessa. Ma chiariamo subito una questione. Fiorella, posso ancora controllarti come una marionetta come ho fatto prima, se possibile ancora meglio perché ora sono dentro di te. Se anche solo pensi ad abortire in qualunque modo, o ti metti a bere, a fumare, a iniettarti della roba in vena, ti giuro che ti faccio vivere l’inferno. Chiaro?
Fiorella piangeva.
– Ho detto: chiaro?
– Sì, uggiolò lei.
– Raffaello, vale anche per te. Non provare nemmeno a fare i numeri da divo del cinema, tipo prendere a calci Fiorella o buttarla giù dalle scale – se anche solo ci pensi ti spezzo l’altro braccio, le gambe, il collo, ti ammazzo con un soffio – ricorda che non mi servi vivo, mi serviva la tua sbobba, se non sei già morto è solo perché sono di buon umore. Mi sono spiegata?
– Sì.
– Bene. Fiorella: fra nove mesi uscirò e allora potrai fare quello che vorrai, tenermi e crescermi, darmi in adozione, mi va bene tutto. Ma ricorda sempre: vi ho in pugno. Tu e questo pisciasotto. Prima di nascere e dopo.
Fuori dalla ghiacciaia cominciammo a sentire voci e rumore di passi, come di gente che si avvicinava. Che si fossero accorti della nostra assenza?
– Cos’ho dimenticato…? Ah, giusto: grazie della vostra collaborazione, ragazzi. Ho intenzione di giocarmi al massimo delle mie possibilità questa seconda chance.
Le voci si avvicinarono alla ghiacciaia. Sentivo gradini di scale battuti da piedi.
– E non fatela tanto lunga, concluse la voce nella pancia di Fiorella. – Prima o poi l’avreste fatto anche senza di me, magari in un noioso pomeriggio di pioggia. Adesso che ho rotto il ghiaccio, lo potete rifare quando volete.E tacque proprio quando i nostri genitori cominciavano a scendere le scale della ghiacciaia, chiamandoci a gran voce.
A illustrare il racconto: Earthbound Souls di Matthias Luger (www.flickr.com/photos/-23/23128688039/) con alcune modifiche ai capelli del fantasma; e una stanza dei sotterranei del castello di Kronborg, fotografata da jpellgen (www.flickr.com/photos/jpellgen/30880449208/)