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La band del Tavolino

Autore
Lucia Visonà
A scelta dello chef
Narrativa generale
30 novembre 2023

Era arrivato a inizio giugno e senza saperlo aveva scelto proprio il posto che era stato di Jeanine. Trentasette anni di onorata carriera a bere birra seduta sui gradini del supermercato urlando Enculé ai passanti. Mai un giorno di assenza, mai una volta che fosse in ritardo, finché i servizi sociali non l’avevano portata di forza al CASH di Nanterre, reparto psichiatrico. Così lo spazio davanti alla vetrina del Paris Store – che nonostante il nome è un supermercato cinese – era rimasto libero da un giorno all’altro.
Il posto gli era piaciuto subito perché era abbastanza spazioso per sedersi e c’era una tettoia che rimaneva aperta sempre, anche nel giorno di chiusura del negozio, per ripararlo in caso di pioggia. La via era piuttosto stretta, con palazzi di mattoni che proteggevano dal vento e facevano ombra d’estate. Non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Non conosceva nessuno nel quartiere, ma gli avevano detto che in place de Torcy le sere d’estate suonavano quelli del Tavolino e gli era venuta voglia di dare un’occhiata. Verso le sette arrivavano a uno a uno i componenti del gruppo, si appoggiavano alle inferriate della chiesa o si sedevano su vecchie sedie che la nettezza urbana non aveva ancora portato via e aprivano la prima lattina di birra.

In un angolo della piazza c’era il tavolino, di legno scuro, con una gamba zoppa. Era comparso all’improvviso, una mattina di tanti anni prima – un dono del cielo, un meteorite, un mobile di seconda mano preso da Emmaüs e abbandonato di nascosto da una coppia che doveva traslocare. Ormai la gente del quartiere si era abituata a vederlo e lo considerava parte dell’arredo urbano. Sopra ci stavano giusto le casse. Ad accenderle ci pensava il Cinese. Una base elettronica a 200 Megahertz. Poi tirava fuori il basso e si metteva a fare qualche slap, interrompendosi ogni tanto per prendere un sorso di whisky. Teneva in tasca una di quelle bottigliette minuscole che vendono al supermercato vicino alle casse, che per rubarle bisogna rompere l’antitaccheggio senza farsi vedere dall’agente della security. Gilles suonava la chitarra elettrica, dopo aver messo a letto sua madre, e alle percussioni non mancava mai Tonton.

A cantare, invece, era il capo della banda, un antillese di nome Ferruccio, una montagna umana, con una testa grande quanto un pallone da basket che sembrava minuscola rispetto al resto del corpo. La gente del quartiere lo chiamava Ferrusciò o anche Ferrutchò, con l’ultima sillaba che suonava come uno starnuto. 
Quando gli altri musicisti si erano scaldati, faceva un paio di passi fino al centro della piazza dove c’era la giostrina. Erano passati decenni da quando l’ultimo bambino ci era salito sopra, chissà se funzionava ancora. L’acustica, però, era perfetta. Ferruccio si metteva dietro il cavalluccio giallo e alzava la testa in modo che la voce sbattesse contro i profili in acciaio del tetto prima di uscire dall’altro lato della piazza.
Dalle labbra spalancate iniziavano a colare suoni gravi, lenti, formatisi nelle profondità di quel corpo gigantesco.
Je vous parle d’un temps que les moins de vingt ans ne peuvent pas connaître.
Montmartre en ce temps-là – e con un gesto del braccio indicava un punto alle sue spalle, perché dietro ai palazzi, dietro ai binari della ferrovia, dietro ai negozi di tessuti africani e le macellerie Halal, c’era in effetti Montmartre con i suoi turisti che si facevano fare il ritratto o rubare il portafoglio.
La Bohème…
Chi abitava al piano terra poteva sentire i vetri tremare.
La Bohème…
Accelerava un po’ verso la fine del ritornello, e il Cinese gli andava dietro muovendo la testa su e giù per darsi il ritmo.
Ça voulait dire on est heureux
La voce si infilava nel mercato coperto facendo girare i clienti in fila al banco del pesce.
Nous ne mangions qu’un jour sur deux
Le ultime note rimanevano in sospeso nell’aria fresca della sera, poi si perdevano al di là dei confini del quartiere.
Dopo ogni esibizione dai tavolini dei bar si alzava uno scroscio di applausi. Battevano le mani anche i clienti del ristorante thai, mentre gli spacciatori di rue de l’Olive fischiavano e gridavano Bis.
«Ehi tu, cazzo guardi? Eh, dico a te, Xavier Bardem» gli grida una sera il Cinese, che ha fatto un anno di triennale di cinema a Paris 8. «Massì, non sembra Xavier Bardem con quel ciuffo così…»
«Che?» chiede Ferruccio strizzando il cartone del vino per fare uscire il fondo.
«Non conosci Xavier Bardem?» il Cinese intanto ha appoggiato il basso alla ringhiera della chiesa e finalmente può dedicarsi alla bottiglietta di whisky.
«Certo che lo conosco, mica vivo in una scarpa…»
«Eh?»
«Caverdèn certo, quello che fa Zorro. Allora che ci fai qui?»
«Niente ascoltavo.»
Senza accorgersene ha attraversato la strada e ormai è a pochi metri dal tavolino.
«Perché, ti piace la musica?» Ferruccio gli si avvicina minaccioso.
«Sì…»
«Ah, gli piace la musica. E suoni?»
«No.»
«Ah, non suona. E che fai?»
«Canto.»
«Canta»
Gli fa il verso il capo del gruppo. La voce, però, gli esce cupa come un tuono. Si gira verso gli altri membri della banda con una risata pronta a uscire dal fondo della gola, ma Tonton, che come al solito non ha capito niente, gliela blocca gridando tra mille sputacchi – ormai gli è rimasto un dente solo.
«Allora facci sentire!”
Bardem si avvicina alla giostrina. Ha la fronte proprio sotto la tettoia. Inspira.
Kyrie eleison. Christe eleison.
È la prima canzone che gli è venuta in mente. 
Kyrie eleison. 
Al pubblico rimasto nella piazza sembra di sentire un rintocco di campane di cristallo. Il suono volteggia nell’aria, accarezza le guance, rende più limpida l’aria della sera contaminata dal traffico.
Christe eleison.
Non sa perché ha pensato proprio a quel canto. Non credeva nemmeno di ricordarselo. Dal seminario era stato cacciato quando i preti avevano scoperto che aveva venduto i candelabri d’argento per pagarsi i debiti di gioco. 
Kyrie eleison. Christe eleison.
«Un vero peccato», aveva commentato padre Georgios, «con una voce così.»
Quando finisce di cantare, tutto il quartiere trattiene il respiro per alcuni secondi. Un silenzio irreale, assoluto. Seguito da un boato di applausi, grida, fischi, gente che piange, che ride, che sviene. 
Così quella sera Xavier Bardem era entrato a far parte della band del Tavolino.
I concerti erano andati avanti tutto il mese di luglio, anche nei giorni di canicule. Il repertorio era sempre lo stesso, versioni un po’ ritmate dei classici francesi, soprattutto Piaf. All’inizio avevano cercato di cantare in due, ma le loro voci non si armonizzavano. Troppo profonda quella dell’antillese, mentre Bardem aveva uno strano timbro cristallino che faceva pensare ai castrati della musica barocca. Anche se lì sotto funzionava tutto alla perfezione, potevano testimoniare le prostitute di Belleville. 
Avevano deciso di fare a turno: una canzone per Ferruccio, una per Bardem. Ma il pubblico applaudiva fino a spellarsi le mani solo per il secondo. Le performance del gigante antillese, sentite e risentite nelle sere d’estate, sembravano aver perso tutta la loro forza. Nessuno ballava più quando le ascoltava. Lui se ne accorgeva, vedeva la gente chiacchierare invece di farsi cullare dalla musica. Le ragazze non lo fissavano più con gli occhi lucidi pendendo dalle sue labbra. Qualcuna stava perfino al telefono. Prima di ogni pezzo si giurava di mettercela tutta, faceva dei respiri profondi nei tre passi che lo portavano davanti alla giostrina, stringeva le mani e la fronte, concentratissimo, ma poi per la pressione sbagliava le parole, andava fuori tempo, steccava. Anche perché, il più delle volte, arrivava nella piazzetta già ubriaco perso.
Dopo qualche settimana aveva smesso di farsi vedere. Si diceva che si esibisse sul Lungosenna quando non era troppo sbronzo per stare in piedi. Alla fine faceva bene, aveva commentato Tonton. Di turisti ce n’erano di sicuro di più là. Chissà che mance…

Gli abitanti del quartiere avevano saputo dell’incendio solo la mattina dopo. Uscendo di casa si erano trovati davanti i resti calcinati della giostrina. I cavallucci di plastica si erano squagliati. Restava solo qualche pezzo di lamiera bruciacchiato, sul bordo della piazza.
Durante la notte nessuno aveva notato la sagoma incappucciata sbucare dal retro del mercato coperto con una tanica in mano. Nessuno aveva sentito l’odore della benzina sull’asfalto. Nessuno aveva visto la fiamma, prima blu, poi rossa, divampare e avvolgere in un attimo la vecchia giostra 
Nemmeno la sirena dei pompieri, allertati da una telefonata anonima, aveva distolto dal sonno gli abitanti del quartiere. Ma d’altronde erano abituati a spari, petardi, urla e musica a tutto volume. Per loro era stata una notte come tante.
Insieme alla giostrina anche il Tavolino era sparito. Forse bruciato, forse portato via dai netturbini. E la sera, il Cinese, Gilles e Tonton erano arrivati in place de Torcy, puntuali come orologi svizzeri, ma vedendo la cenere nera nel posto si esibivano avevano preferito alzare i tacchi per non rischiare di finire nei casini.
Xavier Bardem, invece, non si è più visto. Secondo alcuni è stato contattato da un grosso produttore e ora è in tour con David Guetta nelle discoteche di Ibiza. Altri sostengono che è tornato nel suo monastero in Grecia, su un monte dove le donne non possono mettere piede. Chissà come gli mancheranno le puttane di rue Saint-Denis. 
C’è chi dice che si è trasferito in Spagna per lavorare come controfigura di Xavier Bardem. «Anche con Penelope» ridacchiano gli spacciatori di rue de l’Olive. Un paio di vecchi giurano che è finito in prigione per l’incendio. 
«Chiedetelo a Ferruccio» dice qualcun’altro. Per poi aggiungere a bassa voce: «chiedetegli in che punto del canale l’ha buttato.»
«Fatevi dire da lui dove l’ha sepolto.» E assicurano di averlo visto uscire di notte con una pala dal Jardin d’Eole.
Ferruccio però non lo sa che fine ha fatto Xavier Bardem. Sa solo che, da quando è bruciata la giostrina, sotto il Pont Saint Michel c’è l’acustica migliore di tutta Parigi.


Ad illustrare: Brassai, foto di archivio.