Categories

La caduta

Autore
Giuseppe Fontana
Ciclo #18 - Tre allegri spaghetti morti
Narrativa generale
20 giugno 2024

Martin Landau una volta disse: “Solo gli attori mediocri si sforzano di piangere; quelli bravi cercano di trattenere le lacrime”. Le sue parole mi risuonano in testa mentre guardo uno dei candidati per la parte del suicida che si strappa i capelli, in ginocchio.
«Che ne pensi di questo?» mi chiede il direttore esecutivo, dopo che un interprete poco convincente esce dalla stanza.
«Sembra un senzatetto. Io punterei a qualcosa di più… borghese? Per far empatizzare gli spettatori».
Il direttore annuisce, fingendo di prendere considerazione le mie opinioni, ma su questo punto concordiamo entrambi. Il candidato successivo è una ventenne dagli occhi dolci, che con un accenno di borse sotto gli occhi susciterebbe almeno un’ondata di compassione.
«Mi raccomando, dammi sconforto» dice il direttore. La ragazza annuisce come se farlo fosse per lei la cosa più naturale del mondo.

La prima volta si è trattato di un malinteso.
Fu un signore con un berretto dei Lakers a urlarmi di non farlo. Io a una simile evenienza non ci avevo proprio pensato, anche perché il mio palazzo non è poi tanto alto e c’è il rischio di sopravvivere alla caduta.
All’inizio non lo presi sul serio, per via del berretto, ma il signore insisteva troppo perché si trattasse di uno sketch comico. Gli assicurai che non c’era di cui preoccuparsi, ma lui non mi dava retta e in breve si aggiunsero altre persone preoccupate per la mia incolumità. Avrei dovuto chiarire le mie intenzioni e disperderli prima che la situazione sfuggisse di mano, ma temevo che la verità li avrebbe delusi. Non riesco a essere onesto se rischio di ferire qualcuno: ad esempio, quando perdo interesse in una ragazza, mi allontano gradualmente da lei, in attesa che il digiuno di affetto la induca a lasciarmi.
A trovarmi impreparato fu l’arrivo dei pompieri e quello simultaneo dei giornalisti. Le possibilità di spiegare l’equivoco sfumarono nelle sirene dei vigili del fuoco che, acclamati dal popolo, piazzarono un materasso gonfiabile nel punto in cui sarei dovuto atterrare. L’idea di me che rimbalzavo e morivo lo stesso mi ricordò quella scena di The Office, ma la mia risata venne interpretata come una sfida lanciata ai soccorritori, che si piegarono sulle gambe, pronti a spostare il materassino. Tuttavia, ero piuttosto sicuro che se avessi corso lungo il cornicione non mi sarebbero stati dietro.
«Ragazzo, pensaci bene» disse al megafono uno dei pompieri, «Tu non vuoi farlo».
Era vero, io non volevo farlo. Mi ero seduto sul cornicione per schiarirmi le idee, in preda all’angoscia per la caducità della vita che si era destata in me dopo un profondo pisolino pomeridiano, uno di quelli al cui risveglio senti che la giornata ti è sfuggita tra le mani: avevo chiuso gli occhi con il sole che quasi si infilava sotto le palpebre e li avevo riaperti che fuori era buio. Sbandando per l’appartamento in cerca di un appoggio fisico ed esistenziale, avevo concluso che l’avrei trovato all’aperto; da cittadino del ventunesimo secolo con idealizzazioni romantiche, sono sempre convinto che le risposte si trovino all’aperto.
«Che cos’è successo, ragazzo?» mi chiese il pompiere.
«Niente» risposi, esasperato, «Non è successo niente».
Espressa ad alta voce, mi sembrò una valida motivazione per porre fine a una vita e d’un tratto l’altezza del palazzo mi fece paura.
La folla non era convinta e tutti mi esortavano a confidarmi. Compreso che non avrei parlato, una vedova ebbe il colpo di genio, decidendo di aprirsi per prima, raccontando la lotta del marito contro il cancro. La storia fu così commovente da spronare qualche altro coraggioso a confessare il proprio dolore, finché tutti seguirono l’esempio di questi pionieri. Io ascoltavo in silenzio, ridotto a ingranaggio di un meccanismo volto alla catarsi collettiva; eppure ero io ad aver avviato il processo e questa consapevolezza riempiva il vuoto che mi divorava da dentro.
Durante la testimonianza di uno studente fuori corso, arrivò un elicottero. Un elicottero, cazzo. Non sapevo che in Italia ne avessimo. Le persone ai piedi del palazzo lo salutarono festose, come un nuovo messia pronto a scendere in terra. L’unico a non rallegrarsene fu lo studente, che se ne andò a capo chino. Quando la confusione cessò e riprese il momento di condivisione, nessuno si chiese che fine avessero fatto lui e le sue bocciature ingiuste, la famiglia ignara e la borsa di studio negata.
La folla si era dimenticata di me, compresi i pompieri, che si erano seduti sul materassino a bere birra. All’inizio non ci feci troppo caso, assorto nei racconti; una volta realizzato che, se mi fossi lanciato, nessuno se ne sarebbe accorto, rimasi molto avvilito e tornai a considerare la distanza fra me e il suolo. Per fortuna la mia frustrazione non durò molto, perché dopo mezz’ora le vicende personali erano esaurite, riportando il centro dell’attenzione su di me. Avevo l’oneroso compito di scrivere l’epilogo di quella raccolta di drammi e la mia inerzia spirituale non sarebbe stata gradita; non essendo dotato di troppa fantasia, me ne uscii con una storia identica a quella del ragazzo che si spara ne L’attimo fuggente. Uno scroscio di applausi condito di esortazioni a non abbandonare il teatro premiò il mio coraggio e mi inchinai in modo un po’ sconsiderato, facendo sussultare tutti. Allora, ridendo, annunciai nel tripudio generale che volevo dare un’altra possibilità alla vita.

«Cosa provi prima di salire sul tetto?»
L’attrice è interessata a scavare a fondo nella mia esperienza per un’interpretazione migliore, dice. È una vera professionista, dice.
Il presupposto fondamentale è un senso di noia e inettitudine tale da risucchiare ogni energia vitale, lasciandoti sul letto simile ad un palloncino senza elio. Hai forza sufficiente solo per stare sui social, ma dopo un po’ vieni preso da una tremenda insofferenza dell’essere che ti fa disinstallare TikTok. Se è il tedio ad affliggerti, non ti rimane che attendere la fine della giornata; se sei sospeso in un ambiguo stato di spleen, puoi sperare che dal bozzolo della tua infelicità esca la farfalla della tristezza. È una tristezza che non riesci a esprimere, vorresti piangere ma invece continui a covare il groppo in gola: sottolineo questo aspetto, augurandomi che le arrivi il messaggio.
Proseguo. Così entri nella fase dei drammi ultimi del genere umano: sei inutile, nessuno ti ama; ti ritrovi a pensare: “Io che ci faccio in questo mondo?”. Non perché ci siano motivi per preferire la morte, ma perché non ce ne sono per preferire la vita.
L’attrice prende nota su un quadernetto. Quello che non le dico, per ovvi motivi, è che io non ci credo sul serio a queste cose, almeno non quando salgo sul cornicione, sennò va a finire che mi butto davvero.
Il copione prevede che la ragazza si getti da un ponte. O meglio, che stia per farlo. Per fortuna arrivo io con la troupe, che stiamo girando per la città in cerca di suicidi – un suicidio è sempre dietro l’angolo, recita la tagline dello show. La ragazza sta piangendo e ci spiega che il fidanzato la maltratta, fisicamente e verbalmente; le regola ogni momento della giornata e la chiama puttana se indossa una gonna o va in discoteca con le amiche. Eppure non riesce a lasciarlo, perché in lui c’è del buono e a volte sa essere dolce.
Io le spiego che l’amore non funziona così, che il rapporto dev’essere equilibrato: in una relazione sana, la donna è in grado di conciliare la maternità con la propria carriera lavorativa. Le mie parole fanno breccia nel suo cuore, rivelandole un mondo – quello della parità di genere – a lei sconosciuto.
«Ma come faccio a ricominciare?» mi domanda, speranzosa.
«Come ho fatto io: amando te stessa».
Poi, girandomi verso la telecamera, impettito e con voce impostata, dico: «La violenza di genere è sempre sbagliata. Anche sugli uomini».  

È difficile definire quando sono diventato un fenomeno di massa. I miei tentativi di suicidio riscuotevano un notevole successo perché permettevano alle persone di sfogare il proprio dolore e al contempo di farsi un video  mentre salvavano la vita di un uomo.
Dopo la quinta volta, hanno iniziato a invitarmi in podcast e talk show, dove ero chiamato a dibattere su temi che andavano ben oltre le mie competenze, ma tanto bastava girare a vuoto sulla questione senza prendere posizione. Una volta, ad esempio, ho avuto un confronto con un esperto di geopolitica su un conflitto in Medio Oriente, ma me la sono cavata con frasi come: «Insomma, bombardare i civili è brutto, ma io mi chiedo sempre come reagirei al posto loro», oppure: «Non vedo bianco e nero, ma grigio».
La soddisfazione maggiore l’ho avuta quando sono stato contattato dal Presidente della Repubblica, che voleva fissare un incontro per insignirmi di una medaglia d’oro al valore civile. Secondo il Presidente, la tenacia e il coraggio che avevo dimostrato erano un esempio per tutti quelli che annaspavano nelle tribolazioni della vita. Quella chiamata ha migliorato una giornata veramente mediocre, evitando che salissi sul cornicione a cercare conforto dai passanti. Quando ho conosciuto il Presidente ho appreso con piacere che era una persona davvero alla mano. Un po’ svampito, ma simpatico. Mi ha spiegato che quando sei il capo dello Stato, tutti ti odiano finché non gli conferisci un’onorificenza.
«Anche tu mi odiavi?» ha chiesto.
«Io non odio nessuno, tranne quando ho la luna storta e odio me stesso».
Secondo il Presidente ero davvero un bravo ragazzo, uno con la testa a posto, non come i miei coetanei smidollati. Io gli sorridevo, anche se ero un po’ perplesso, essendo famoso per le mie crisi depressive. L’equivoco si è chiarito dopo la consegna, quando il Presidente, stringendomi la mano, ha detto: «Ho sempre creduto che la pittura fosse un mezzo potente per aiutare i ragazzi dei quartieri difficili».

Sto guardando un video sugli americani che non sanno che le mele crescono sugli alberi quando arriva il messaggio della cancellazione del programma. Ho un attimo di esitazione prima di uscire da TikTok,  una risposta tempestiva non cambierà comunque le scelte della produzione. L’agente mi informa che lo show ha avuto un netto calo di ascolti, dovuto alla ripetitività degli episodi. «Purtroppo non possono trasmettere un suicidio, altrimenti li querelano» spiega.
Ogni messaggio che appare sullo schermo è una martellata che manda in frantumi il mondo che mi sono costruito e grazie al quale sono diventato la versione migliore di me stesso, quella che piace agli altri. L’agente mi sconsiglia mosse avventate: non andare fino in fondo alle proprie azioni è da sinistroidi radical chic, perfino se si tratta di ammazzarsi. È come gridare ai cortei del Primo Maggio “Pagherete tutto! Pagherete caro!” e il giorno dopo tornare a fare gli straordinari non retribuiti. Non c’è ancora domani per la rivoluzione, la gente la vuole subito.
«Mi stai suggerendo di uccidermi?» domando perplesso.
«Non è così semplice, ma la tua immagine ne gioverebbe».
Mi sembra di affondare nelle tenebre, ma in realtà è il corpo che si sta afflosciando sul divano.
«Ogni celebrità è un Icaro a un battito di ali dalla caduta» scrivo, soddisfatto da questa personale considerazione.
«Ma c’è chi cade alla luce dei riflettori e chi precipita nell’oblio», ribatte l’agente.
Sì, mi sta decisamente suggerendo di uccidermi. Inizio a scrivergli che dovrebbe avere a cuore il mio bene, ma un’intuizione mi blocca. Forse è così, forse davvero vuole il meglio per me.
I Greci, ad esempio, anelavano a una morte in battaglia, disprezzando quella vile per vecchiaia: che disonore sarebbe per me vivere all’ombra di un successo ormai estinto? Più ci penso, più una vita simile mi appare indegna e peggio della morte: mi conviene uscire di scena con stile finché mi è ancora concesso. Dovrò toccare il fondo per raggiungere vette inesplorate. 
«Contatta la troupe, ci vediamo sotto casa mia tra un’ora» scrivo, ed esco dalla chat.

A illustrare: fotografia di George Marks.