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Quando cade la regina

Autrice
Nicole Trevisan
Ciclo #16 - Lo spaghetto dimezzato
Narrativa generale
02 novembre 2023

Si presenta con la figura del Cinque di Bastoni. È vestita di bianco, con troppi anelli alle dita e una voce ridotta a toni addolciti, quasi stomachevoli. Denuncia con quella carta un’indole combattiva mai addomesticata, l’eterna ricerca della fiamma e dello splendore. Prende a raccontare, posando le mani aperte sul tavolo, dopo aver lisciato le pieghe dell’abito sulle cosce scarne.

Il suo nome è Maria Romano.
Un nome che, appena pronunciato, tutti ricordano.
C’era stato un tempo in cui l’avevano portato nelle tasche, impresso su una locandina cartonata, stampata a caratteri bruni; dietro agli occhi, i romantici, e i taccagni nel portafogli che pesava centomila lire in meno. Anche di più, dipendeva se era una matinée o un serale. Dal ruolo, dallo stormo di comprimari che le disponevano intorno, ruoli precari che si dissolvevano oltre le righe del programma. Ma ricordavano lei. E lei sapeva, inchinandosi ogni sera, di aver regnato su mani scroscianti, su corpi vivi e innamorati, e non su uno stagno di cigni immaginato duecento anni prima, non foreste incantate né villaggi bucolici. Aveva raggiunto il firmamento e desiderava restarvi appesa.

L’allora direttore di ballo del teatro La Fenice guidava con accanto sua moglie. Nureyev sedeva dietro, con la figlioletta del direttore e Maria. La piccola giocava con il bavero del suo cappotto. Aveva trent’anni. Non voleva toccare la bambina, che aveva ignorato le regole di buona educazione per scalzare il suo posto e incuriosirsi del suo abbigliamento. Le tirò la sciarpa, rigirò un bottone, rise cercando di metterlo in bocca, poggiando la fronte bombata sul suo seno piatto.
«Com’è carina, Laura. Proprio come la mamma.»
Nureyev era un gentiluomo. Non aveva figli e adorava quelli degli amici. La piccola gli sorrise, e così la madre. Era ancora una donna elegante, una ballerina che stava recuperando la maternità dall’ultima fila. Maria rimase in silenzio. La carta del Mondo le aveva assegnato una parte e lei si muoveva racchiusa nel muto involucro del sipario. Era la solista, la stella, la più mirabile delle prime ballerine: cedette a Laura una linea smussata agli angoli delle labbra, la stessa che riservava ai giornalisti.
«Diventerà brava come lei? Anche di più. E persino di mademoiselle Maria. Vero?»
Nureyev continuava a parlare a Laura e le tese un dito. Lei lo strinse e le voltò la schiena, sollevando un vagito estasiato al più grande ballerino di tutti i tempi.
«Lo spero. Anche se dovrà iniziare molto presto. Imparare la disciplina.»
Il direttore la raggiunse attraverso lo specchietto e fece una battuta sull’età di Laura, ridendo.
Nureyev non diede segno di averla sentita: giocherellava con la bambina, se la sistemò sulle ginocchia per farla sobbalzare in armonia con le buche della strada in direzione Venezia. Mimava un fox trot, un bolero, un ritmo africano. Maria la sbirciava e si sentiva deglutire il veleno dell’insinuazione che aveva trovato nella voce stanca di Nureyev e nel suo silenzio. Rinunciava a parlare con lei e si ringalluzziva con una pupetta tutta bave e gorgheggi, predestinandola.
Durante le prove le aveva rivolto commenti esigui e si era distratto durante la variazione di Odile. Bene, le aveva detto, quando il pianista aveva sollevato le mani dalla tastiera e Maria ansimava. Bene, e se n’era andato. Come se lei non stesse camminando sul suo stesso sangue, come se tenere la spina dorsale allineata e avanzare verso la porta della sala non la costringesse a trattenere le lacrime. Una sua parola sarebbe stata tutto. Sarebbe stata la gloria. Ma la dedicava a Laura e ignorava lei, lasciandola consumarsi lungo il profilo della laguna che si sporcava di nebbia oltre il finestrino e un baule stipato di abiti di scena.
Avrebbe ricordato quel pomeriggio, ma non ne parlò mai più. Neanche di Nureyev. Evitò il suo nome, le domande fameliche delle amiche innamorate, della famiglia orgogliosa che l’aveva lasciata in stazione, adolescente minuscola con la sua valigia di cartone, magra da sembrare malata, per fare di lei una divinità.

A trent’anni una ballerina è oggetto di tentazioni. Il corpo comincia a cedere, si fa rigido, disobbediente. Maria lo sentiva: avrebbe potuto arrendersi ai crepitii delle vertebre e accettare gli omaggi degli ammiratori, concedersi di diventare un’icona della vita mondana, convertirsi allo schermo televisivo in abiti luccicanti. Alcune colleghe l’avevano fatto. Avevano lasciato il palcoscenico ed erano state sostituite da esemplari più giovani, diciannovenni dalle ginocchia sporgenti e i polsi sottilissimi. Maria implorava si spezzassero, sotto le ciglia abbassate, con le dita che mimavano coreografie nel sonno. Lei avrebbe resistito. Avrebbe cercato altri teatri, altri maestri capaci di consacrare la sua arte. Lontano da Nureyev, il più possibile dalla proiezione della sua ombra..
Non era mai salita su un aereo e staccò un biglietto per New York. Quando lessero che era nata in Sicilia, ai facchini dell’hotel venne da chiedersi perché ci avesse messo tanto. Smisero l’inglese e Maria sentì l’accento sbavato di casa, fumò con loro e più tardi mise piede al Lincoln Center. Camminò aggrappata al braccio di George Balanchine.
«Ho il vizio di innamorarmi delle mie ballerine.»
«Spero non sia troppo tardi.»
«Lei non è come le altre, Maria. Ho l’impressione che dei due sarei io a dover implorare un suo sguardo. Ma sono abbastanza vecchio da evitare di farmi del male.»
«Ha avuto quattro mogli. Non voglio essere la quinta.»
«Tuttavia, per essere sicuro di non innamorarmi di lei, devo almeno chiederle di entrare nella compagnia. Sarei un maleducato, nonché uno sciocco, a non farlo.»
Portava un fazzoletto variopinto al collo e i capelli lunghi, anche se radi. Non aveva smarrito la vanità nel tempo. Si immaginò somigliargli quando avrebbe avuto la sua età. Sperò di possedere la stessa grazia seducente. Gli tese la mano. Fu la sua Coppelia. La vestì di bianco e lei non smise mai quel colore per un altro.

Volta la terza carta, l’Otto di Bastoni. Questo è il movimento, il viaggio, la corsa verso il successo che la elesse. Ma sapete già tutto, dice Maria. Quasi, aggiunge. Dietro di lei sfila un uomo curvo su un quotidiano, lo legge a sussurri. A metà corridoio, perde metà delle pagine e le calpesta, ciabattando oltre una porta lasciata aperta. Maria lo guarda sbatterla e prende un sorso d’acqua; solo dopo, continua.

La sera del suo addio, l’artrite le mordeva le caviglie. Dovettero farle un’iniezione, le promisero che non avrebbe sentito dolore, ma quando fu sola sbriciolò una pastiglia, pestandola col rossetto, e ne leccò la polvere. Non avrebbe dovuto, lo sapeva. Ma sarebbe stata l’ultima, non era più necessario continuare. La aspettava un teatro stipato di persone che avevano pagato cara la sua ultima esibizione, un atto ultimo, unico: la nota che trilla un attimo prima del silenzio e riverbera nell’orecchio, ritornando nella veglia, nella memoria rarefatta dei giorni lieti, quando per emergere dalla malinconia si pizzica una sonorità assolata.
Non si accorse che il suo partner la lasciò sola sul palco per rientrare dietro le quinte e tornare con un mazzo di fiori, lo capì quando ne sostenne il peso tra le braccia. Le luci di scena, quelle che punteggiavano i palchi e la galleria, e l’enorme lampadario sospeso sulla platea le entravano negli occhi, facendola piangere dei contorni che non poteva distinguere. Tre inchini, tre chiamate a sipario calato. Fu un trionfo. Il pubblico era estasiato, commosso. Pensarono lo fosse anche Maria per quel pianto che le oscurava la vista. Il suo partner si inginocchiò davanti a lei, e ancora non se ne accorse, finché non lo sentì dedicarle l’amore di una vita, ignorare la differenza di età e di fama, chiederla in moglie.
«Sì. Lo voglio.»
Maria gli strinse le mani, si alzò in piedi. Era enorme, Bernard. La avvolgeva e si prendeva cura di lei come nessuno era riuscito a fare prima, non George, non i ragazzi del balletto né gli uomini d’affari che si erano impuntati a frequentarla e le offrivano cene, abiti, fiori – avevano la convinzione di doverle un corteggiamento ottocentesco, aderente al suo ruolo di creatura eterea. Bernard la faceva ridere, invece. Nessuno aveva mai pensato a farla ridere. A prenderla in giro per come camminava, per il candore ostentato, le pettinature che mettevano in risalto il profilo aguzzo, da uccello marino. La passava a prendere in moto, e lei, tutta sciarpe e gonne, si incastrava alle sue spalle, lo stringeva ai fianchi e svolazzava tra le auto e i semafori ingrigita di fumi di scarico, sbraitando contro di lui, che rideva, allungava una mano per strizzarle la coscia e accelerava incontro alle curve, godendo del vento urbano.
Si sposarono in una chiesetta in Sicilia, vicino a dove Maria era cresciuta. Vennero i genitori di lui dalle Fiandre, i fratelli con le loro mogli, una manciata di nipoti. Era più giovane, lo aspettavano almeno altri dieci anni di carriera e poi chissà, sarebbe potuto diventare coreografo, mettere in piedi una compagnia, diventare un maestro di balletto. Maria sarebbe stata al suo fianco nella buona sorte e nella cattiva: erano d’accordo. Per questo si vestirono entrambi di bianco, quel giorno.

«Madame.»
Le disse lui, facendole l’occhiolino. Teneva in braccio per la prima volta la loro bambina, cullandola in una stanza d’ospedale che le era stata riservata per l’evento. La seconda figlia nacque quindici mesi dopo. Maria aveva quarantatré anni. Non pensavano sarebbe stato possibile avere una gravidanza a quell’età, averne due sfiorava il miracolo. I medici erano stati scettici, avevano predetto ogni male per la madre e le due bambine. Invece il suo corpo sfibrato dai digiuni, dalle lacerazioni muscolari, indebolito alle ossa, fioriva lontano dalla scena. La sua bellezza si ammorbidiva in linee che coprivano le sporgenze degli zigomi e delle anche, lei se ne vergognava, ma quando incontrava i flash tornava al sorriso patinato che conoscevano tutti, che la portava a comparire nei settimanali in edicola, tra le protagoniste della vita mondana che giudicava troppo sfacciate, ridicole nella loro ostentazione. Girava le pagine dedicate a quelle showgirl con tanta furia da rischiare di strapparne i volti tra le mani.

Voltò la quarta e la quinta carta: Dieci di Coppe, felicità, abbondanza e realizzazione; Sei di Coppe, ricordi e tenerezza, la quiete dell’infanzia. I miei anni migliori, ammise, sospirando a labbra socchiuse, l’immortale posa a spalle basse, le scapole schiacciate per estendere il collo in un panneggio di rughe. Anche se non ero più una regina, ero così felice. Così felice.

Aprirono una fondazione, lei e Bernard. Un centro dedicato allo studio della danza in un quartiere periferico, ma in fase di riqualificazione, data la prossimità a una nuova fermata della metropolitana. La sede era in una vecchia fabbrica tessile, ariosa, rimessa a nuovo da un team di architetti che aveva preservato la struttura industriale e rivestito il cemento con assi di legno pregiato, collocato luci alle pareti e disposto pianoforti agli angoli. Molti insegnanti erano volontari e la retta per gli studenti era minima, sovvenzionata da eventi che Maria e Bernard patrocinavano personalmente, attirando donazioni, l’interesse della stampa e della televisione, che seguivano l’opera delle due étoile ritirate dalle scene glorificandone gli intenti: anziché accomodarsi in poltrone firmate, si dedicavano ad avvicinare al balletto e alla musica i bambini nati in quartieri popolari, soffocati tra officine e magazzini, nello svantaggio sociale. Nobilitavano la materia grezza: così descrissero il loro lavoro. E loro si tenevano stretti, le due bambine per mano, precocemente simili alla madre, entrambe iscritte alla scuola propedeutica della Scala.
Era il sette di gennaio e Maria aveva accompagnato le figlie a lezione, quando le dissero di Nureyev. Era morto il giorno prima. Non aveva avuto una fine serena. Soffocato, sussurrarono. Un’agonia straziante. Maria portò un fazzoletto all’angolo asciutto degli occhi. Due sale più in alto, si allenava Laura, la predestinata. Non sarebbe mai uscita dal corpo di ballo. Mancava di tecnica e disciplina, non somigliava ai genitori. Nureyev si era sbagliato.
Con quella conferma e l’articolo di giornale che strillava la sua morte stretto allo stomaco, Maria corse alla Fondazione, a dare la notizia a Bernard. I giornalisti sarebbero venuti a fare domande, era bene si preparassero.

L’ultima carta è il Sei di Ori: successo e prosperità materiali, generosità verso i bisognosi. Condivisione. Maria Romano la volta e sorride, ritira la mano gonfia di vene ricamate in rilievo. È imbarazzata. Un’espressione rara sul suo viso, nessuno gliel’ha mai vista indossata.
«E cosa avvenne dopo, signora?»
«Nient’ altro.»
I due tacciono. Si erano preparati ad almeno un’ora di girato, il tablet con le domande giace inutile sul tavolo, a schermo spento. La ragazza lo riaccende, alla ricerca di un appiglio.
«Com’è possibile? Ci ha raccontato una bella storia. Ma già la conoscevamo, eccetto alcune sfumature. Non capiamo come sia arrivata ad  essere così….»
«Isolata.»
«Potremmo dire così, sì.»
«Lo definirei un effetto indesiderato.»
L’antica étoile, l’amante e la musa di Balanchine, è immobile. Fissa il ragazzo che le ha fatto le domande con la sua telecamera portatile, la sua collega col cellulare usato come microfono. Un tempo avevano mezzi diversi. Un tempo avrebbero affittato la hall di un hotel per intervistarla, anziché chiederle di usare casa sua. Ma sono due freelance. Forse ancora studenti. La stampa ufficiale le sta alla larga da quando ha dichiarato che trovava deplorevole la deriva che stava prendendo il mondo della danza. Ballerini di colore, asiatici. Ballerini sovrappeso. Un generale decadimento dei costumi. Un tempo si faceva senza dirlo. Tutti lo sapevano. La creanza, il silenzio, che fine avevano fatto. Per la prima volta, si era sentita insultare dal suo pubblico. Non la amavano più.
La regina è caduta.
«Alcuni l’hanno accostata a certe correnti politiche, sebbene non abbia mai preso parte al dibattito e…» Maria scuote la testa. Non un capello cede allo chignon che continua a trattenerle i capelli tinti, ancora lunghissimi. La mano si distende incontro alla prima carta.
«Temo non abbiate colto il punto fondamentale.»
L’indice punta le figure illustrate. «Ce l’ha sempre avuto davanti.» Cinque persone, cinque bastoni, una sola fiamma. Maria Romano aveva combattuto e vinto. Di lei si doveva parlare, perché perde chi scompare. E un’étoile non dovrebbe spegnersi. Mai.


A illustrare: immagine generata con AI