Trompe L’Oeil
Nei miei anni di penombra, quando il dolore era un rumore di fondo che poteva pure piacermi se non mi fermavo ad ascoltarlo, mi sono reso conto che regalare un libro a un lettore forte, come si dice oggi, può essere una pigna in culo altrettanto grossa che regalarlo a uno che non legge mai. O forse di più, perché quest’ultimo magari ti dice grazie e mette il regalo sullo scaffale per non aprirlo mai più; l’altro invece se lo legge, e poi viene a tirarti i piedi nel letto perché il libro non c’entra niente con lui e con i suoi gusti.
Con mia suocera è così. Due libri su tre che le regalo, li sbaglio. La conosco da anni e ancora non ho capito i suoi gusti. Ma è contraddittoria, capitemi. Giro per Feltrinelli con angoscia, guardando la parete della narrativa, mastico cognome dopo cognome e in un’ora non ho ancora scelto. Ricordo certi fallimenti spettacolari. Siccome le era piaciuto tanto Origini di Saša Stanišić, ho creduto di andare sul sicuro con Bassure di Hertha Müller – è pure un premio Nobel – e quasi me lo ha tirato via di mano mentre glielo leggevo.
«Ma è come quello prima, Rosina. Infanzia, fattorie…»
«Sì ma quello prima era divertente. Questo è una palla mostruosa».
Era così carica per la fantascienza dura – ha preteso che le leggessi tutto Asimov – che pensavo di far bene con Tau Zero di Anderson. A pagina quaranta mi ha detto anche basta, troppo sessista. Grande amore per Banana Yoshimoto, ma guai a mettere sul piatto Murakami. Mille squasi per Eshkol Nevo, ma di Amos Oz e David Grossmann non siamo riusciti a finire nemmeno un romanzo. Ripenso a tutto questo mentre giro per gli scaffali, e a un certo punto decido di tentare l’intentato. Passo in cassa, mi calco bene il berretto in testa e la sciarpa al collo, ed esco addosso alla bufera di neve.
Questi stranissimi aprìli del cambiamento climatico. Ti pare che nevica? A fatica copro il mezzo chilometro che mi separa da casa di mia suocera, un appartamentino al terzo piano di un condominio grigio con boschetto di abeti dove l’abbiamo messa l’anno prima che morisse mia moglie, con l’idea di starle vicino ora che invecchiava sempre peggio. Mi tolgo la neve di dosso e dall’ombrello nell’androne semibuio, risalgo, chiavi nella toppa ed entro.
«Ciao suocera, sono io».
«Ciao nuoro».
(Mi prende in giro.)
«Galina se n’è già andata?»
«Eh! Da due ore. Oggi aveva il turno corto. Com’è fuori?»
«La mamma di tutte le tempeste».
Reggendosi a fatica sul suo bastone, Rosina è in piedi accanto alla finestra della cucina, e ha la mano sul vetro.
«Questo spiega perché fa un freddo cane», commenta; e mi viene incontro senza guardarmi, con l’occhiata involontariamente perplessa dei ciechi. La stringo tra le braccia e la sento fragile sacco di carne, ma ben calda nella sua tutona di flanella. L’accompagno alla sua poltrona preferita in salotto, dove Galina — la badante moldava — le ha lasciato il plaid. Mi accorgo che ha anche tirato a lucido i pavimenti e passato l’anticalcare sulle finiture in metallo della doccia.
«Cosa leggiamo oggi?»
«Ho una novità».
«Dai?»
«Un classico italiano».
«Tipo Manzoni?»
«No: Fogazzaro».
«Oddio, cosa mi vai a tirar fuori. Sai che io quelle robe dell’ottocento non le ho mai lette? Neanche a scuola».
«Per questo mi son detto: proviamo. Se ti fa schifo, ho un piano B».
«Non occorre. Se mi fa schifo, voglio che mi descrivi il dipinto».
«Rosina, te lo descrivo ogni maledetta volta che vengo».
«Ma sai che non mi sazio mai».
«Ok».
Le preparo il tè, il Coumadin perché ha una valvola in plastica e bisogna che il sangue passi bene, il Monuril per questa brutta cistite che ogni tanto le torna, e vorrei anche farle le iniezioni intravitreali per la degenerazione maculare umida, tanto sono infermiere e posso sia farle l’anestesia locale sia manovrare la siringa – ma mi tocca portarla in ospedale ogni venerdì. Ha molto dolore, sapete – ma fa finta di no.
«Ok, suocera», inizio a dire sedendomi accanto a lei. «Iniziamo con Piccolo mondo antico».
«E iniziamo».
Ma Franco Maironi non fa in tempo a piantar lì il risotto ai tartufi di sua nonna austriacante, che Rosina mi chiede di fermarmi.
«Ti sei rotta i coglioni?»
«No. Mi piace. Ma ho voglia che tu mi dica del dipinto».
Mi arrendo: «Ok suocera. Vediamo che c’è di bello stavolta».
«C’è gente che pesca sul canale» le annuncio.
«Sì?»
«Aha. Aspetta che mi avvicino, sono piccolissimi. Eccoli. Stanno proprio pescando, hanno la canna, il cappello sugli occhi per sonnecchiare e… oddio, hanno i fiaschi di vino accanto. Ma pensa te che dettaglio».
«Oh. E quanti sono?»
«Tre. Un quarto sta sulla gradinata del Trianon e sta… credo suonando un flauto».
«Che tipo di flauto?»
«Eh, aspetta, è molto… credo un flauto traverso. Per come lo tiene… e poi si vede che è d’argento».
«Come siamo messi col boschetto? Dio quanto mi mancano le passeggiate».
«Il boschetto è sempre lì, è tipo la mia barba quando non mi rado, copre tutto fino alle colline sullo sfondo. Anzi no, pure più in là. Uh guarda questa montagna».
«Addirittura?»
«Eh sì, è lontanissima ma è impossibile confondersi. Sta proprio sullo sfondo, come un gigante in mezzo alle colline».
«È molto alta?»
«Una specie di piramide bianca, suocera. Pare di marmo. Tutta innevata».
«Mi vien freddo solo a pensarci».
«Vuoi un altro plaid?»
«Naa. Vai avanti con la montagna».
«Eh ma questa c’è, suocera».
«E gli alberi? L’altra volta mi hai detto che c’erano i lecci».
«Sì, non vorrei averti detto una cazzata, però i dettagli delle foglie qui sono talmente precisi che uno poi va su Google immagini e… ecco, vedi, sono proprio lecci. Qui invece…»
«Qui dove?»
«Eh, come spiegartelo… a metà strada tra la balaustra e la prima collina. Subito dietro la fontana con le anfitriti che gli esce l’acqua dalle tette. Ricordi?»
«Come no. E che alberi sono?»
«Sicuro aceri».
«Sì? Ce li avevo in giardino da bambina».
«Anch’io. La foglia è proprio uguale».
Devo essere molto distratto in questo periodo, perché le scorse volte non mi sembrava di avere notato né gli aceri, né la montagna. E sì che ormai lo conosco a menadito, questo battilocchio. Non ricordo chi ha detto che il bello delle opere d’arte è che ci trovi qualcosa di nuovo ogni volta che ci guardi, ma non sono sicuro che si riferisse a un caso del genere. E sicuramente non funziona con tutte le opere d’arte.
Visita dopo visita, Piccolo mondo antico non fa l’effetto che speravo. Rosina non è particolarmente coinvolta. Ma non è nemmeno incazzata che ho sbagliato libro – solo, sembra presa da altro. Una sera mi costringe a descrivere il colore del camminamento.
«In realtà più che camminamento sembra una terrazza, suocera. Ora che ci guardo bene, è molto vasto».
«Sì? e di che colore è?»
Ci penso un attimo, e:
«Oggi, beige».
«Perché oggi?»
«Non so. L’ultima volta che ci ho fatto caso era primo pomeriggio, la luce era diversa, mi pareva che fosse un rosa pallido. Adesso è mattina, c’è un’angolazione che»
«Ma tu vieni sempre qui di sera per via del lavoro».
«Non la luce di fuori, dico quella del dipinto, ribatto spazientito. Poi realizzo che ho detto un’assurdità e resto inebetito.
«Com’è pavimentato? Ci sono mattonelle?»
«No», mormoro. «È una superficie unica, come fosse marmo. Lucida. Pare quasi che ci abbia piovuto. O che abbiano passato lo straccio».
«Piovuto, sicuro», ribatte Rosina. «Sento il petricore da qui».
«Il che?»
«Nuoro, diobono, mi hai letto tutto lo scibile umano e mi cadi su una parola chichì e chicò come petricore?»
«La lettrice sei tu. Io da solo mica sto lì a leggere Murakami».
«Quello nemmeno io, grazie al cielo sono cieca. E comunque l’odore della pietra bagnata dopo la pioggia (visto che con te mi tocca definire tutto) a me sembra pure molto forte. No?»
Saranno i sensi aumentati dei ciechi, penso mentre annuso vicino al dipinto. Sente con forza questo petricore, che io invece sento molto tenue. Poi penso che non dovrei sentirlo affatto, e resto inebetito un’altra volta.
«Nuoro?»
«Eh?»
«Ti sei rotto i coglioni?»
«Mannò. Vuoi che ti dica qualcos’altro del dipinto?»
«Nah. Ricomincia pure con Fogazzaro, voglio vedere se Franco sputtana la nonna col testamento».
Franco non sputtana la nonna e resta senza una lira. Nel frattempo la nevicata smette e a maggio fanno seicento gradi. Che matto, questo nuovo clima. Sovrintendo personalmente al montaggio dell’impianto di aria condizionata in casa di Rosina. Una sera entro in casa e mi complimento con me stesso: è freschissimo.
«Ti aumentano la pensione, suocera. Letto oggi sul newsfeed di Repubblica».
«Ooooh. Di quanto?»
«Due euro al mese».
«Il lordo, vero?»
«Ovvio».
«Secondo te, se crepo, all’INPS fa piacere?»
«Rosina».
«Forse dovremmo crepare in molti più vecchi».
«Se non c’è riuscito il covid. A proposito, non esagerare con l’aria condizionata, che ti viene un accidente».
«Ma quale aria?»
In effetti l’impianto è spento. Pure, nel salotto – a finestre chiuse – tira un venticello profumato di – di – resina di pino, ecco cos’è.
«Ma che è, primavera?», chiedo.
«Mi pare. Guarda la luce».
La luce che illumina il parapetto e il bosco sotto è quel velo di luce brillante, azzurrino, che nei primi giorni caldi di primavera sembra gonfiare le cose nella pura contentezza di rinascere un’altra volta. Tutto bellissimo, se non che fuori c’è l’inferno e razionano l’acqua. Fisso le cime dei pioppi e degli abeti abbastanza da rendermi conto che questo venticello che gira per la stanza è lo stesso che ne fa oscillare le chiome, con garbo – quasi a ritmo.
«Suocera, ma come fai a vedere…?»
«Vedere, non vedo un accidente. Sento che c’è una luce diversa. Tu, piuttosto. Come se la passano nel giardino?»
Guardo bene:
«Eh, non vedevano l’ora di uscire, con questo sole. Son tutti in giro».
«Dai, e che fanno? Oh che nostalgia».
«Fanno la qualunque. Roba da matti, ci sta fuori una città intera. Le famiglie coi bimbi. I ragazzi coi piedi nelle fontane. Un signore che legge col cappello sulla fronte, sdraiato… passa il carretto coi cartocci dei lupini…»
«I lupini!»
«Eh».
Anziché leggere, quella sera provo a cucinarle qualcosa. Pollo alle mandorle, ma le mandorle meglio tritarle, che non si sa mai coi suoi denti. In realtà insisto per trasferirla in cucina e spignattare in sua compagnia perché il crescente protagonismo di questo dipinto mi disturba profondamente. Cosa pretende, di fare meglio della realtà? Ma se non fa altro che confondermi le idee. Anche quelle di Rosina.
Poi succede che una sera vengo e Rosina è uscita di casa. Non la trovo da nessuna parte. La chiamo al cellulare, ma vibra silenzioso sul suo comodino. Poggio la borsa in salotto ed è allora che mi cade l’occhio sulla parete in trompe-l’œil e sul parapetto beige, dove Rosina, il bastone sempre accanto a lei, è appoggiata coi gomiti sulla balaustra, e contempla il panorama. Per un attimo penso che sia un’immagine, ma – come del resto tutto all’interno del quadro – la vedo muoversi.
«Suocera…?»
Si volta e arranca verso di me. Gli occhi sono meno vuoti del solito – sembra quasi che un minimo ci veda. Protende la mano per farmi una carezza. La mano parte dal dipinto e arriva fino alla mia guancia. Non capisco più le distanze, dove finisce il mondo e inizia il dipinto. Però la carezza la prendo lo stesso.
«Ciao nuoro. Eri tu che chiamavi?»
«Eh, direi. Ma tu, rispondere…?»
«Abbi pazienza, mi sono distratta a guardare il giardino. La giornata è splendida e mi pare di distinguere certe forme, certi contrasti… Ho esplorato col bastone. Credo si scenda da una scala sulla destra – e indica una zona oltre il dipinto, che lei vede e io no.
«Suocera, vieni bene in salotto e siediti, che ti affatichi».
«Oh, no. Io d’ora in poi resto qui. Obiettivamente si sta meglio».
«Ma qui dove…?»
«Che ne so, fammi esplorare e poi te lo dico. Secondo me dentro il Trianon una camera me la danno. Sennò attraverso il giardino e vedo cosa c’è».
«Ma tu sei fuori come un culo, suocera. Ti sembra che prendi e vai dentro questa specie di dipinto antropofago?»
«Macché antropofago. Stai ben calmino anche tu. È una finestra, tutto qua. Una porta, se preferisci. Fammi fare un giro, magari torno, magari no».
«Ma scusa, e io?»
«Tu vai avanti con la tua vita. Che domanda è?»
«E tu no?»
«No, io una vita non ce l’ho più».
«Suocera!»
«Perlomeno, non lì dove stai tu».
«Rosina!»
Mi prende entrambe le mani, che sento calde per il sole del dipinto.
«Enrico, lasciami libera di perdermi qui dentro. Già mi sento meglio, ho meno dolore, meno pesantezza. Chissà che non riesca a dare un senso a questi anni inutili che mi aspettano».
«Ma suocera» – e qui mi sento gli occhi gonfi – «non è che sei l’unica a essere triste perché è morta Mirella».
«Ah sì? E com’è che non ne parliamo mai?»
«Che ne so».
«Lo so io. Perché a forza di occuparci l’uno dell’altra, abbiamo messo il discorso in una scatola e lì è rimasto. Bisogna che lo riapriamo con comodo e separati, ognuno per conto suo».
«Lo possiamo riaprire anche qui in salotto, eh».
«No, nuoro, io proprio non ne posso più di star male. Fammi andare via».
«E se venissi anch’io?»
«No. Tu stai qui. Io non ho più una vita, ma tu sei giovane e puoi tranquillamente affrontare la cosa. Per te ne vale la pena».
«Che discorsi sono. Ho perfettamente superato la morte di mia moglie».
«Sono cieca, non sono cretina».
Si volta, riprende il bastone, arranca verso l’angolo a destra del dipinto. Il venticello di giugno le scompiglia i capelli bianchi come panna, che sotto il sole mandano riflessi d’argento.
«Suocera, ma poi torni a trovarmi?»
«Vediamo come mi gira. Se è, mi trovi qui sulla balaustra».
Arranca e scompare nel mondo del dipinto, mentre io, che la seguo con gli occhi, incontro l’altra parete della stanza e la perdo.
Ma siccome perderla del tutto un po’ mi secca, la settimana dopo vendo il nostro appartamento e accendo il mutuo per comprare il suo. Mi ci trasferisco il mese successivo, mi do da fare per arredare, rifare il bagno e la cucina, sostituire il mobilio. La parete con il trompe-l’œil, naturalmente, non la faccio nemmeno toccare dall’architetto. Nel trambusto del trasloco e dei lavori, quasi mi scordo del dipinto. Poi piano piano la situazione si calma, e la mia penombra diventa un dolore in piena luce, una lampada al neon che mi ricorda la mia perdita ogni volta che apro gli occhi. Ma dicono che da questa fase si deve passare per forza, e allora mi lascio calpestare come da un bulldozer. Ogni tanto siedo sul divano che ho fatto mettere davanti al dipinto, un drink in mano, e guardo.
C’è tanta gente che passa per il giardino. Dall’estate siamo passati all’autunno, i colori delle foglie sono stupendi e spesso piove – le persone vanno in giro in k-way e maglioni a righe, e ogni tanto becco suocera che, passin passino ma senza bastone e vedendoci credo abbastanza bene, guarda lo stagno con le oche o riempie la borraccia alla fontana con le anfitriti.
A illustrare: un discreto quadro di Michiel Schrijver