Benvenuti
Come tanti altri bambini nati in estate – ad agosto, nel loro caso – Arturo e Rebecca passavano i loro compleanni perlopiù in solitudine. C’erano i genitori, naturalmente, e i nonni, e la grande casa di campagna che aveva costruito il padre di nonna; e basta. E il loro sesto compleanno prometteva di essere lo stesso degli altri cinque, se non che all’orizzonte c’era il primo giorno di scuola, di lì a poche settimane. Che emozione! Forse era per quello che mamma non la smetteva di piangere.
– Mamma, ma quindi ci mettono in classe insieme, a me e Titi?
Mamma non rispose. Rimase sdraiata sul divano a piangere e a graffiarsi le guance.
– Mamma, insistette Rebecca, in piedi davanti al divano.
– Bibi, lasciala stare, le sibilò Arturo da dietro la porta del salotto. E con un gesto la richiamò.
– Ma Titi, voglio sapere se siamo in classe insieme.
– Non mettono i gemelli nella stessa classe, scema.
– Ma poi con chi gioco?
– Ci vediamo comunque a casa, no?
Papà prese la mamma in braccio e la portò a letto, dove c’erano tutti gli altri nonni. Arturo la sentì gridare lasciami, lasciami.
– Secondo te possiamo restare a scuola anche nel pomeriggio, Bibi?
(Diceva così perché cominciava a sentirsi a disagio a stare a casa.)
– Solo il mercoledì, rispose lei, che si era informata dal cugino Giampaolo.
Passò agosto, cominciò settembre.
– Papàààà, ci sei?
– Titi, ma perché strilli?
– Scema, papà ci deve portare a comprare la nave dei pirati della Lego.
– Scemo sei poi te, papà non può oggi, me lo ha detto prima a pranzo.
– Come non può. E che deve fare?
Passò accanto a loro il padre, discutendo animatamente con i suoi genitori. I gemelli videro la sua faccia e qualcosa li spinse a dileguarsi.
Il primo giorno di scuola mamma era in piedi dal mattino presto. A dire il vero a Rebecca sembrò che non fosse andata proprio a nanna, aveva ancora indosso il vestito della sera prima tutto stropicciato. Forse era anche un po’ stanca, perché non riusciva a stare dritta camminando. Papà preparò la colazione, spostando le bottiglie vuote da terra (una o due si erano rotte e c’erano i vetri sul pavimento) e cercando di pulire il tavolo appiccicaticcio per il vino che c’era caduto. La mattina era grigia – aveva piovuto durante la notte.
Arturo e Rebecca si sedettero e cominciarono a far cadere i biscotti nel latte.
– Titi, non si gioca con i biscotti. Prendili nel cucchiaio e mettiteli in bocca senza farli cadere di nuovo.
– Uffa, papà.
– Posso avere la coca cola?
– Ma Bibi, ti sembra?
– Ho finito di farvi gli zainetti, urlò la mamma dall’altra stanza, e poi scoppiò a piangere.
Papà corse da lei. Arturo e Rebecca cominciarono a tirarsi i biscotti e a dirsi le parolacce.
– Vacca.
– Stronzo.
– Mammaaaa, Bibi mi ha detto ‘stronzo’
Nessuno dall’altra stanza rispose. La voce di papà cercava di andare sopra alle urla di mamma, ma senza riuscirci granché.
– Non voglio andare a scuola, piagnucolò Arturo, improvvisamente triste.
– Io sì, qui non ci voglio stare. Appena vediamo la maestra le chiedo se posso dormire a scuola stanotte.
– Allora anche io voglio dormire a scuola.
– Copione.
Arrivò papà con i loro grembiuli. Disse loro seccamente di smettere di fare gli stupidi e di lavarsi i denti, che dovevano uscire.
– Guai se li sporcate, disse loro consegnando i grembiuli. Titi e Bibi filarono in bagno, di lavarono i denti, indossarono i grembiuli e gli zainetti che trovarono all’ingresso – dinosauri per Bibi, macchinine per Titi. Mamma era alla porta con gli occhi gonfi che provava a sorridere. Uscirono di casa. Papà chiuse la porta e aprì per loro la porta della station wagon.
– Le cinture, ordinò. Poi guardò la mamma:
– Ti senti di guidare, Silvia?
La mamma, seduta al posto del guidatore, mise le mani sul volante, come provando a ricordarsi qualcosa. Poi le tolse, respirando grosso.
– No. Non riesco proprio, Camillo, fai tu.
– Va bene.
In vista ormai della scuola, mentre parcheggiavano, papà si sentì in dovere di dire
– Mi raccomando ragazzi, è un posto nuovo per voi, ma alla fine è una scuola, farete tante belle cose, disegni, imparerete a scrivere, leggerete tante fiabe.
– I cartelloni, aggiunse la mamma – non so se li fanno ancora. Noi li facevamo.
– Ma certo che li fanno ancora, disse papà prendendo la mano di Bibi, mentre mamma prendeva quella di Titi – tanti cartelloni colorati dove incollerete le figurine e –
– Le figurine dei Pokemon!
– Ma certo, tesoro, anche quelle.
– Mamma, mi stritoli la mano.
– Scusa, pulcino. Scusa.
Cominciarono a rallentare. Nel piazzale davanti all’ingresso della scuola la folla era fitta. Rebecca e Arturo riconobbero alcuni amichetti della materna e si divisero per salutarli, poi tornarono a ritrovarsi. Ci volle un po’ perché cominciassero a ridere o anche solo a sorridere – l’atmosfera in generale non era proprio allegra. Alcuni avevano il papà in lacrime, altri molto pallido, per altri il papà proprio non c’era perché si era sentito male, e solo la mamma era lì. In alcuni casi, per converso, c’era solo papà perché era la mamma ad essersi sentita poco bene. Laddove una mamma c’era, non era molto diversa nell’atteggiamento dal papà a cui si accompagnava. Una signora a un certo punto si fermò per inghiottire una decina di pillole, tracannando da una bottiglietta d’acqua che aveva in borsa.
Si avvicinò un papà.
– Xanax?
– Sì, rispose la mamma.
– Posso? Poi le pago la confezione.
– Ma si figuri, ne ho altre quattro in borsa. Prenda, anche per sua moglie, e gli passò una confezione intera, che il papà portò effettivamente a una signora che lo accompagnava, seduta addosso ad un tronco d’albero con la faccia tra le mani. Tra lui e lei, Arturo contò che presero circa venti pillole. Il bambino che era con loro li osservava muto.
– Ma quando comincia?, esclamò Rebecca. – Voglio andare a scuola, almeno non ci sono tutti questi tristoni.
– Io voglio stare con mamma e papà, dichiarò Arturo, e qui gli cominciarono a scendere le lacrime.
– Nooooo scemo, cosa fai, piangi? No no no, gridò Rebecca, e lo abbracciò stretto come per soffocarlo, – non cominciare mica che poi non smetti più. Ma che ti prende? È solo la scuola. Ci divertiremo un sacco. Devi solo smetterla di metterti le dita nel naso.
– Ma poi non so come pulirlo, protestò lui asciugandosi le lacrime.
– Coi fazzoletti, genio. Guarda, così – e tirato fuori un fazzoletto pulito dalla tasca, glielo mise in mano e lo costrinse a soffiarsi il naso e a pulirsi per bene tutte e due le narici.
Fu in quel momento che le porte dell’edificio si aprirono.
Cadde su tutta la piazzola d’ingresso il silenzio. Bibi e Titi si sporsero sulle punte dei piedi per vedere cosa c’era dentro il portone che si era aperto. Che delusione! Non si vedeva nulla. Il portone si apriva su un rettangolo di tenebra fitta.
Un secondo dopo si accese una luce proprio sopra l’ingresso, e la figura alta e composta di una giovane donna sembrò coagularsi sull’orlo del buio, proprio sopra la scalinata d’ingresso.
– Carissimi, carissime. Benvenuti. Oggi comincia una grande, meravigliosa avventura. Da parte di tutto il corpo docenti il nostro più caldo augurio per la serenità delle vostre famiglie. È con immensa gioia che ci assumiamo oggi il carico più prezioso che possiate donarci.
Aprì le braccia.
– Lasciate che vengano a noi.
Spinti dai genitori, i bambini cominciarono a salire le scale e ad avviarsi verso il portone. Alcuni corsero, in preda alla gioia. Altri fecero i capricci, incassarono una sberla e si avviarono a testa china, trascinati da un amichetto o amichetta più entusiasta di loro. Rebecca prese Arturo per mano e cominciò a marciare verso la signora bionda, lieta di potersi lasciare alle spalle la casa dei suoi genitori, che da mesi ormai era più una trappola che altro.
Sentì sua madre gridare, mentre i genitori presenti cercavano di zittirla o di risponderle a tono:
– La cosa più bella che avevamo, il senso di tutta la nostra vita, è colpa nostra, è solo colpa nostra, siamo maledetti, maledetti tutti
– Signora Silvia, la prego, sia ragionevole
– Siete stati voi, tutti voi, ma anche io, oh oh oh siamo tutti morti, guardate cosa abbiamo appena fatto
– Tesoro, guardati intorno – il tuo cancro è in remissione, la mia azienda è salva, e sono sicuro che ognuno di noi qui ha avuto delle belle notizie ultimamente, matrimoni che si rinsaldano, processi vinti, l’assicurazione che paga senza fare storie, sono stati tempi di abbondanza per molti di noi
– Non toccarmi, non osare toccarmi
– Quello che sto cercando di dirti è che bisognava essere un po’ stupidi per pensare che tutto questo fosse gratis
– Non è il momento di essere ingrati, Silvia, non possiamo permettercelo
Niente, mamma continuava a gridare. Arturo si voltò, ma Rebecca non gli diede tregua, e lo trascinò verso il portone. Quando furono entrati tutti nel grande salone d’ingresso, il portone si chiuse da solo alle loro spalle. Del chiasso infernale che avevano fatto fuori da scuola non era rimasto che un grasso silenzio. Rebecca avrebbe voluto aprir bocca, ma qualcosa la frenava.
All’imbocco del salone stava ancora la signora bionda.
– Benvenuti alla nostra scuola, bambini. Tanto nostra di noi maestri e maestre, quanto vostra, naturalmente. Oggi penseremo a dividervi in classi. Ma prima, se siete d’accordo, il preside vorrebbe farvi un saluto collettivo, e darvi il benvenuto.
Non so come, ma Arturo e Rebecca (e forse anche altri) intuirono che non era stata chiesta veramente la loro opinione.
La signora bionda batté le mani. Le pareti, il pavimento, il corridoio che si apriva di là dalla porta della sala, le statue, i quadri, i divani, tutto andò a fondersi in una strana polpa tridimensionale, vuota e densa allo stesso tempo. Non c’era più il sopra e il sotto, o il davanti e il dietro. Si vedevano le stelle, fitte come la sabbia al mare. E a tappezzare l’orizzonte, gonfie nuvole di gas vermiglio, blu oceano, violetto, scarlatto. Poi tornò tutto a coagularsi in un’altra stanza, con un altro pavimento, e colonne di osso che reggevano un soffitto troppo in alto per essere visto.
– Ma come hai fatto? Sai fare la magia, signora?, esclamò Rebecca.
La signora bionda la guardò con amore.
– Ma certo, piccola.
– Fichissimo. Dove hai imparato?
– Dove imparerai anche tu. A scuola.
Arturo si era attaccato a Rebecca e pareva non riuscire a staccarsi.
– Il signor preside con i maestri, disse scandendo le parole la signora bionda, e mentre parlava la sua testa si allungava e i denti diventavano zanne.
Davanti a loro era comparso questo signore alto come una giraffa, fatto di venti o trenta sfere di luce sospese nell’aria, e connesse da frenetiche braccia nerissime, che si attaccavano ora ad una sfera ora ad un’altra, percorrendo gli spazi tra un globo ed un altro globo, e disegnando sempre arabeschi diversi. La luce nelle sfere pulsava con la regolarità di un battito cardiaco.
– Benvenuti, bambini. Benvenuti al vostro primo giorno di scuola nella nostra antichissima istituzione.
Dietro di lui si vedeva una schiera di creature che parevano fatte un po’ alla rinfusa – mezza capra e mezzo ragno, un quarto di elefante e tre quarti di salamandra, un terzo di geco e due terzi di anemone. Ce n’era uno, in fondo a destra, che poteva essere scambiato anche solo vagamente per un uomo. Ma Arturo non ci cascò.
– Guarda quello là. Ha i denti fuori dalla bocca, sussurrò a Rebecca.
– Si vede che sta più comodo così, rispose lei. – Se ha delle carie si vede subito.
Considerato che odiavano entrambi andare dal dentista, gli pareva un guadagno.
A illustrare il racconto: “Mist Study” by Robert Ryminieck.