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Disagiografia di un santo

Autrice
Mauro Reperto
A scelta dello Chef
Narrativa generale
2 giugno 2022

Non si sfugge al proprio destino. Molti di noi vivono nella convinzione che non sia così, ma prima e poi finiamo tutti nel Grande Trita-Karma. Chi sui social ha spesso ironizzato sugli anziani adulatori dei cantieri, in tarda età potrebbero diventare come loro. L’attore che ha seguito la sua vocazione abbandonando la carriera di avvocato apparecchiatagli dal padre potrebbe finire a fare il caratterista nel cinema, in ruoli di avvocato, recitando pure male. E così via. Il 25 dicembre non si celebra unicamente la solennità della nascita di Gesù Cristo Nostro Signore, ma anche la ricorrenza di ben nove santi, come Adalsinda di Morchiennes, e otto beati, tra cui Bentivoglio De Bonis da San Severino Marche. L’ultimo arrivato di questa virtuosa compagine è San Pettoro decollato, il Santo protettore dei tifosi di Sampdoria e Torino (San Pettoro suona infatti come “Samp e Toro”); l’aggettivo “decollato” non si riferisce a una morte per decapitazione ma al suo lavoro di steward per la compagnia francese “Voulevant”, esperienza precedente alla vocazione. Neanche Pettoro è sfuggito al suo destino.
Pettoro Filadelfio nacque il 3 agosto 2057 a Vibo Venezia da un’umile famiglia. Durante la sua vita, la normalità fu costantemente sotto assedio. Il padre, Tolomeo, era un uomo di larghe bevute e piuttosto violento. Portava una lunga barba finta per simulare saggezza, e se la toglieva solo per fustigare lui e i suoi tre fratelli con dei randelli nodosi. Riservava lo stesso trattamento alla consorte, Plauzia, secondo il vecchio proverbio “Più picchi tua moglie più buona è la zuppa”. Esasperata dalla durezza della vita coniugale, Plauzia probabilmente commise suicidio preterintenzionale restando soffocata da una piccola pera che aveva lanciato in aria e cercato di riprendere in bocca al volo per scommessa. Da questo episodio originerebbe l’etimo del verbo “perire”. La perdita della madre fu un duro colpo per la famiglia Filadelfio, formata da soli maschi, tutti fornai e per niente avvezzi alle faccende domestiche. La mazzata definitiva arrivò pochi mesi dopo, proprio alla vigilia delle seconde nozze di Tolomeo con la collega Berta la Piedona. Il borgomastro di Vibo Venezia promulgò un editto che proibiva di impastare il pane con i piedi. I controlli della ASL erano frequenti e le multe salatissime. Nel giro di pochi mesi Tolomeo fu costretto a chiudere la bottega, il suo pane aveva perso quel sapore e quella fragranza che ne avevano decretato il successo e non vendeva più neanche una rosetta. Cadde in una profonda prostrazione, cui pose fine gettandosi nottetempo nelle fauci di un ippopotamo affamato allo zoo di Tristoia. L’animale rimase poi soffocato dalla lunga barba finta. Le dolorose vicende non scoraggiarono gli eredi, che decisero di aprire insieme un ristorante ma Pettoro, ormai maggiorenne, sentiva di essere destinato a cose più “alte”. Nonostante le botte ricevute, era un giovane forzuto e di bell’aspetto, a parte quando sorrideva. Aveva due canini nel lato destro della bocca, una particolarità forse causata da una randellata di suo padre, così forte che gli aveva spostato alcuni denti in tenera età; non tutti erano tornati al loro posto. Conseguito faticosamente il diploma di maturità al liceo scientifico “Montemagno”, il Nostro abbandonò il paese natio per trasferirsi nella capitale, San Benedetto del Trollo. Sfruttando la sua fisicità, fu assunto da “Just Hit”, una società che operava nel settore riscossione crediti. I metodi utilizzati per il recupero delle somme dagli insolventi erano terribilmente efficaci: si andava dalle asce di porfido, opportunamente sagomate, in grado di rompere un braccio con un sol colpo, all’immersione di varie parti del corpo nel catrame o nell’acqua bollente. L’attività era redditizia ma causò i primi problemi di coscienza in Pettoro, che per un po’ li affogò nell’idromele. Decisosi infine a lasciare quello sporco lavoro, superò le selezioni per diventare assistente di volo. «Sono forse queste le cose più “alte” cui ero destinato?» si chiedeva sovente il Nostro tra un succo d’arancia e un Gratta e Vinci. La risposta non tardò ad arrivare. Pettoro fu l’unico sopravvissuto all’incidente aereo di Tirana del 2081; una circostanza piuttosto miracolosa se si pensa che l’apparecchio esplose in volo poco prima di atterrare. Anche se non ricordava niente, Pettoro si convinse che quella era una chiamata divina alle armi.
Erano anni bui e tempestosi. Il capo dello Stato Pontificio, Papa Severo ma Giusto II, che tutti ricordiamo per aver introdotto l’autotune nei cori in chiesa, era alle prese con la proliferazione di movimenti eretici e il ritorno dei culti pagani, che specie nella capitale, erano incentrati sull’adorazione del Cinghiale sulla Tangenziale.
La scienza aveva fatto passi indietro e l’ignoranza dilagava: in Europa molti credevano che gli Oceani fossero in pendenza e il viaggio di ritorno nel Vecchio Continente in salita.
Anyway: ordinato monaco circense, Pettoro iniziò la sua benefica attività di clown di corsia. Era molto abile nel far ridere i bambini, tramite la giocosa ricostruzione delle torture effettuate per conto di “Just Hit”, simpaticamente coadiuvato dagli infermieri. La cosa non passò inosservata e fu segnalata alle alte sfere vaticane, dove si era deciso che sarebbe stato carino riconquistare Gerusalemme, caduta nelle mani dei terroristi islamici di Harbr Maschik.
Pettoro, che aveva nel suo CV anche una militanza come ultrà della Lazio, partì così per la IX spedizione in Terra Santa, dove si distinse nell’estorcere informazioni ai nemici, e nell’inventare metodi che procurassero non solo dolore al prigioniero ma anche tanti bei sorrisi ai torturatori, sempre molto stressati. Sospese quindi le solite amputazioni con lo spadone, per adottare torture meno convenzionali; non tutte davano esiti positivi. Una di queste consisteva nel far ingoiare un piccolo flauto al torturato, per poi farglielo espellere con manovre di salvataggio, a patto che il soggetto confessasse. Da questa tecnica derivano il verbo “spifferare” e l’espressione “voce flautata”, mentre non è certo se il termine “flatulenza” provenga da un esito alternativo o da un effetto collaterale. Ad ogni modo la cosa spesso finiva con un decesso preceduto dall’emissione di un coacervo di parole e note orrendo e incomprensibile. I colleghi gli affibbiarono per questo il nomignolo di “Pifferaio di Heimlich”. Più efficace fu invece la privazione del sonno. Ogni venti minuti per 36 ore di fila, a turno i torturatori andavano a svegliare il malcapitato e gli chiedevano: “Che cosa fai a capodanno?”. Quasi tutti cedevano dopo 3 ore circa. I terroristi venivano anche legati con delle corde a una vettura e trascinati per qualche km su strade sterrate. Anche in quell’occasione, Pettoro dimostrò tutta la sua sensibilità imponendo che fossero utilizzate solo auto a idrogeno per rispettare l’ambiente. Per finanziare la Crociata ebbe l’idea di far indossare alle vittime dei jeans che dopo i primi 500 m di corsa venivano sfilati e rivenduti a prezzi astronomici sul dark web, come jeans strappati per collezionisti morbosi. La linea si chiamava “Strisciati di Gaza”. Gerusalemme fu infine riconquistata e molti arabi furono convertiti. Pettoro fu attivo anche su questo fronte: si occupò di persona della fecondazione di molte donne musulmane, che chiamava affettuosamente, “le pettorine”, forse per via della “punzonatura”. Fece trionfale ritorno in patria. Non chiese alcun premio materiale per l’opera di convincimento svolta in Palestina; si appassionò invece alla botanica e, chiuso nel suo monastero a Marina di Vallanzasca, tra un esorcismo e l’altro, coltivò il suo giardino-orologio. Era un’aiuola piena di fiori che si aprivano a orari diversi nell’arco delle 24 ore. C’erano i convolvoli che si schiudevano alle 3 di mattina, la cicoria alle 5, la calendula alle 9 e così via, fino alla primula della sera e al cereus peruvianus che si svela verso le 23. Proprio a quell’ora, il 28 giugno del 2119, Pettoro si spense serenamente, circondato dall’affetto dei suoi cari, in un boschetto di sicomori, al culmine di un amplesso con un paio di pecore.