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Abito qui

Autrice
Federica Bertagnolli
A scelta dello Chef
Narrativa generale
9 giugno 2022

In sogno, ancora una volta, le appare la palude: un pantano color bottiglia, fisso come un acquerello tra filamenti di nebbia dalle sfumature fluorescenti. Sprofonda un centimetro alla volta. Pur non avendo percezione del proprio corpo sa di essere immersa nell’acquitrino fino alla vita, così come è certa – nel modo in cui lo si è sempre nei sogni – che quella stessa desolazione si dispieghi all’infinito da ogni parte.
Torna al mondo reale con l’odore di foglie marce nelle narici. Annaspa tra le lenzuola, il respiro appesantito dai grumi di fango che ha nei polmoni, finché la voce di lui non emerge dalla penombra della camera da letto per dire: «Basta».

È mattina quando raggiunge un’amica al bar vicino al parco. Per strada si trascinano, lei e quella sua mastodontica pancia che non vuole smettere di crescere. Ormai le fa impressione anche solo guardarsi allo specchio: la pelle tesa e innervata di venuzze azzurre, l’ombelico che sporge, la schiena incurvata dallo sforzo.
«Ti vedo stanca».
La sua amica picchietta le unghie laccate di verde sul tavolino, e lei prende un sorso di caffè insapore. La luce che scintilla tra le fronde dei salici le fa male agli occhi.
«Davvero molto stanca».
Di nuovo la sua amica, un lampo di rossetto color sangue. «C’è qualcosa che non va?»
Si stringe nelle spalle. Un minuscolo cuore le batte nelle orecchie, la fame di qualcun altro si somma alla sua per torcerle lo stomaco. Tutt’intorno la vita scorre in un flusso luminoso, e lei in quel flusso è un granello duro di terra, un nodulo maligno.
«D’accordo, ho capito. La tua faccia dice tutto». Un sospiro da parte dell’amica. «Strano, però. Matrimonio, gravidanza… non era quello che volevi?»

La prima volta che mettono piede alla villa, ad accoglierli trovano lame di luce e spirali di pulviscolo.
«Incredibile», mormora lei. «È tutto cambiato».
Lui allenta il nodo della cravatta e scandaglia la stanza vuota con aria disgustata. «Sì, nel senso che ormai questo posto è fatiscente».
Lei, impalpabile, si confonde con la polvere. Tiene il loro bambino in braccio, una cosina bollente a cui aggrapparsi.
«Guarda qua». Lui calcia dei frammenti di vetro e indica le schegge di legno irte sul davanzale accanto a un nugolo di mosche morte. «Che razza di catapecchia».
I ricordi di lei stridono contro quella versione pessimistica; sono diapositive animate da un viavai di parenti, immagini color seppia che evocano voci allegre e profumo di fiori. La casa è satura di memorie, un organismo poroso che ha trattenuto ogni parola, ogni pianto, la sensazione di cullare contro il petto una bambola di plastica anziché un altro essere umano.

I suoi seni perdono latte. Chiazzano maglie e vestiti più volte al giorno, e in quelle occasioni gli occhi azzurri di lui si fanno più freddi, un angolo della bocca torto in un sogghigno.
Le capita sempre più spesso di restare sola in casa con il bambino, tra scaglie di carta da parati che planano sul pavimento e vecchi mobili fermi a prendere polvere come mucchi d’ossa. Le pareti si scorticano sotto il pianto di suo figlio e lei lo culla, ci infonde amore e un po’ di rabbia e a volte si chiede come sarebbe vederlo sparire.
Una sera, a cena, lui rientra dal lavoro con lo sguardo che luccica. In sottofondo il telegiornale riporta notizie preoccupanti dal mondo della sanità, frasi che lei ascolta solo per frammenti. Sta circolando una nuova malattia, una che colpisce le donne facendole sparire nel nulla. Un morbo che in base a chissà quale meccanismo altera la consistenza dei loro corpi, un po’ come quando tra i neonati è girata quell’infezione per cui si facevano leggerissimi, come palloncini rigonfi d’elio, tanto che per tenerli ancorati a terra i genitori si sono visti costretti a legarli.
«Preparami un caffè», dice lui, leccandosi un dito dopo aver dato fondo al piatto.
Lei ubbidisce, e così ha inizio: il caffè non è buono, la casa fa schifo, il bambino ha lo sguardo vacuo e la colpa è sua, questo le grida suo marito mentre le tiene la testa a un soffio dalle fiammelle che tremolano sul piano cottura.
Non era quello che volevi?
Una volta libera, lei si liscia le pieghe del vestito. Potrebbe urlare, ma non lo fa.

Inizia appendendosi agli stipiti delle porte. Torna al passato così, lasciando penzolare le gambe, accogliendo una vertigine che sa di lamponi e di pomeriggi trascorsi sull’altalena. La casa l’asseconda, placida, e ben presto è la volta del tavolo da pranzo. Ci si nasconde sotto come faceva durante i pranzi in famiglia, conta i nodi del legno e percorre con i polpastrelli le fessure tra le assi del pavimento. Non passa una settimana che si ritrova raggomitolata nell’armadio, distesa nella vasca da bagno, avvolta in un tappeto.
Un pomeriggio lui la sorprende accovacciata in un angolo, nuda e infreddolita al riparo di uno specchio. «Sei patetica», sibila, «una povera pazza».
Il giorno seguente, lei apre un varco nella carta da parati e ci si nasconde dietro. Ecco la sua nuova pelle, lo strato di epidermide che la proteggerà dal mondo. Potrebbe scavarci due buchi per gli occhi e restare a guardare la vita che si consuma.

È quasi inverno quando si accorge di essersi spinta troppo in là. Qualcosa è cambiato, ora la casa cede sotto il suo tocco. Le sue mani passano attraverso i muri e afferrano la calce, si addentrano negli specchi ed è come immergere le dita nell’acqua fredda. La pervade una strana sensazione, il formicolio di quando un arto si addormenta, e intanto il suo corpo perde concretezza disgregandosi nel tintinnio di piatti e bicchieri.
Interagisce con certi oggetti, a volte. Coltelli che senza ferirla le attraversano i palmi delle mani, un vaso di vetro da incastrare nella pancia come un ventre cavo, immacolato. Forchette da indossare al posto delle dita e candele che le si sciolgono sulle spalle e sulla punta della lingua.
Il bambino sta piangendo quando lui la trova in piedi al centro della sala da pranzo, con il tavolo che la trapassa da parte a parte all’altezza dei fianchi.
«Ora basta». Suda, suo marito, e la strattona via imprecando. «Questa storia deve finire».


Compiono le dovute indagini, a mollo nel bagliore spettrale del computer. È già successo che un altro centinaio di donne si siano fuse con la loro abitazione nell’arco dell’ultimo anno, o almeno così sostiene il motore di ricerca. Il caso clinico più discusso, riportato su Nature, racconta di una professoressa di matematica diventata un tutt’uno con la villetta a schiera che aveva appena finito di pagare. Stando al marito rimasto vedovo – o non proprio – di tanto in tanto la sua voce rimbomba nelle tubature scandendo parole in una lingua sconosciuta fatta di sibili e gorgoglii.
La causa del disturbo non è chiara, ma sembra esserci uno specialista in Olanda che sta portando avanti delle ricerche d’avanguardia, studi grazie ai quali un giorno, forse, qualcuno riuscirà a trovare una cura.
«Non capisco», dice lei.
«Vieni a dirlo a me?» Lui si passa le mani sulla faccia. «Qualsiasi cosa sia, trattieniti. Smetti di farlo e basta».
Me non è così facile. Nel cuore della notte, sempre più spesso, gli tocca accendere la luce e ripescare sua moglie dal pavimento, dov’è atterrata sprofondando attraverso il materasso. Lei sputacchia la stessa cenere che staziona nel camino, si massaggia le ossa che scricchiolano come il legno delle mensole e rimira alla luce del sole le ragnatele che le si intessono tra le dita. Le capita di sentire le voci dei suoi genitori da qualche parte alle sue spalle, e allora compie una serie di piroette attraverso il salotto scomponendosi in milioni di molecole che poi tornano ad aggregarsi.


Una sera il computer rigurgita l’ennesimo articolo: «I dati parlano chiaro», ha affermato il medico olandese nel corso di un’intervista, «In sede di analisi, le donne che hanno contratto il morbo si sono dimostrate, sostanzialmente, inadatte alla vita. Per qualche motivo il loro organismo ha innescato una lotta interna per smettere di esistere, come nel caso delle malattie autoimmuni. Da qui l’assottigliamento progressivo delle cellule, gli squilibri chimici che a livello cerebrale ricordano quelli propri degli episodi depressivi. Restano da chiarire i collegamenti tra questa sintomatologia e il ruolo giocato dalle abitazioni, e dunque dai fattori ambientali, ma sono del parere che…»
Lui abbassa lo schermo sulla tastiera.
«Non guarirai mai», dice, facendola suonare come un’accusa.
«Non credo di poterlo fare».
«Di’ piuttosto che non vuoi». Sbuffa sprezzante, una vena in risalto sulla fronte, «Un’ingrata, ecco cosa sei. Come tutte quelle altre appestate».
Il tempo di preparare le valigie, e sparisce in un rombo di motori portandosi dietro il bambino. In punta di piedi sulla soglia, lei si rende conto di non riuscire a oltrepassarla. È malata, è vero. Ora la sente, la febbre che a poco a poco la sfibra, che altera la sua consistenza.
Trascorre le settimane seguenti allo specchio, a guardarsi sparire nel legno e nell’intonaco. Il senso di pace che l’avvolge è sorprendente: non c’è più niente a cui pensare o per cui preoccuparsi, nessun desiderio da prefiggersi come obiettivo. Quello che vuole non conta, esiste solo quello che fa: piantare le proprie fondamenta nella terra, vibrare al passaggio delle automobili. Rimanere compatta contro lo scorrere dei giorni, con la banderuola che si agita al vento.

A illustrare il racconto: Correggio, Giove e Io, 1532-3 / Magritte, La Résponse Imprévue, 1933.