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Il Diavolo

Autore
Giuliano Tomarchio
Ciclo #9 - Spaghetti Freak
Narrativa Generale
20 gennaio 2022

Erano ormai diverse notti che Fil non riusciva a dormire. Si rigirava nel letto, controllava il respiro, contava le scolopendre, ma niente, nulla sembrava funzionare. Poteva solo avvicinarsi alla finestra e sbirciare la casa di fronte fra le lamine dell’avvolgibile. Il nuovo arrivo nel quartiere lo aveva molto turbato. Una casa che Fil aveva visto centinaia di migliaia di volte era diventata un luogo di mistero e orrore sconosciuto, dopo che era stata presa in affitto da uno Straniero che veniva da lontano. Le luci all’interno erano spente e tutto il quartiere giaceva in una calma mai vista, troppo reale. La cosa era decisamente poco sinistra: il disordine naturale del quartiere era scomparso. Fil era l’unico che l’aveva vista bene, quella schiva figura, mentre trasportava scatoloni e pacchi. L’uomo – sempre se di questo si trattava – aveva una capigliatura banale, un volto anonimo, un’altezza media, persino la postura era prevedibile. Era una cosa mai vista. Non da quelle parti. Un evento classificabile e consueto. Una figura dolorosamente normale. Fil si sentì mancare. Il solo pensare quella parola gli faceva correre i brividi lungo la schiena.
C’era qualcosa di maledettamente non-sbagliato in quello Straniero, ma in città nessuno sembrava ancora essersene reso conto. Eccetto Fil. Aveva anche provato a razionalizzare la cosa, a ripetersi che non doveva essere troppo superficiale. Conosceva molta gente che vista da fuori appariva perfettamente – un altro gemito soffocato – normale, ma che aveva una mente, il membro o almeno l’intestino deviato. Poteva essere, ma Fil sentiva che non era così. Era un qualcosa di intangibile. Lo Straniero non aveva proprio niente che non andava, la sua aura era neutra – Fil credeva di aver ereditato dalla madre la capacità di poter vedere le “aure” delle persone, e talvolta anche il pin delle loro carte di credito. E se non era così, come mai allora non si faceva mai vedere in giro? Che aveva da nascondere? Fil, ovviamente, non aveva prove. Ancora. L’indomani, dopo la scuola, avrebbe convocato i suoi fedelissimi e avrebbe illustrato loro il piano per smascherare questo prodotto geneticamente perfetto della natura.
Fil passeggiava davanti al muretto come un generale che ispeziona le truppe. L’esercito in questione consisteva in tre giovani aborti troppo cresciuti, i suoi migliori amici. Rotto camminava sul muretto su un piede solo, con il grosso casco a forma di televisore in testa che lo faceva ondeggiare prima da un lato e poi dall’altro. Il piccolo Rotto, da bambino, già molto più basso della media, si era intrufolato su un ottovolante e, arrivato al giro della morte, aveva fatto un volo di una ventina di metri. Era atterrato, per fortuna, su un padre di famiglia che da allora non ricordava più di esserlo, e si era procurato una vistosa cicatrice in testa che non ha mai voluto farsi chiudere. Il copricapo di Rotto, trovato non si sa dove e mai più rimosso, copriva un non indifferente danno all’emisfero frontale sinistro. Rotto non parlava mai, ma era un grande ascoltatore. Il contrario di una tv, insomma.
Appiattita contro un albero lì accanto, Ombra Kid scrutava immobile i compagni. Era difficile stabilire se Ombra fosse un ragazzo, una ragazza o altro, dal momento che non lasciava mai l’oscurità. Sarebbe stata capace di eclissarsi anche nel deserto, sotto l’ombra di un granello di sabbia. Era molto riservata, certo, ma al contrario di Rotto sapeva sempre cosa dire. Saltava fuori quando meno te l’aspettavi, da un angolo buio o da un armadio socchiuso, per sorprenderti o spaventarti con un tempo comico da veterano del vaudeville e una voce penetrante e diaframmatica.
Fil annuì verso dove credeva si trovasse Ombra, non sapendolo esattamente, per poi passare davanti a Tetra, appoggiata al muretto con le mani in tasca, ed esaminarla con il suo miglior sguardo da ispezione militare. Dopotutto, era lei l’anello debole del gruppo. Tetra era una ragazza nata con un set di quattro testicoli. Per il resto, una fanciulla in tutto e per tutto, graziosa anche. Purtroppo. Non avrebbe mai trovato un buon partito disposto ad amarla, con un’anomalia così lieve. Peccato: era dolce, gentile, intelligente e, piccolo punto in più, se ti stringeva forte la mano poteva vedere come saresti morto. Fino a quel momento ci aveva sempre preso.
I tre soldati osservavano sull’attenti il loro generale Fil mentre illustrava il piano dell’imminente incursione in territorio nemico. L’avrebbero seguito ovunque. Fil, dopotutto, era il ragazzo più affascinante e popolare che conoscessero. Il classico ragazzo cool, quello che a scuola tutti invidiano, ammirano, desiderano. La genetica era stata generosa con lui e gli aveva concesso numerose anomalie, eccessive per una persona sola. I dottori dicevano che non avrebbe superato i ventisette anni, cosa che lo rendeva ancora più carismatico e dannato. Fisicamente, questo era Fil: benda su un occhio, monocolo nell’altro, albino, iride rossa e capello bianco, una mano non si era mai formata, una gamba gliela aveva spappolata il medico quando era uscito dalla pancia di mamma. Fil era daltonico dall’unico occhio, dislessico, ossessivo-compulsivo, paranoico, ipocondriaco, sia narcolettico che sonnambulo e soffriva di occasionali attacchi epilettici. Ma più di tutto questo, Fil aveva qualcosa di veramente inqualificabile, qualcosa che nessun medico, per quanto bravo, avrebbe potuto diagnosticargli: Fil era un perdente nato, il fallimento completo di Madre Natura. Era una qualità molto apprezzata a quei tempi, in cui uno strambo qualunque poteva fare soldi facili con una startup o ottenere un po’ di notorietà apparendo in un qualche reality show come “Un Freak in Frac” o “Antipasti e Anticristi”. Fil era refrattario a ogni forma di successo; persino al “purché se ne parli”.
Fil sbirciò da sotto il muretto la quieta dimora della Straniero. La casa sembrava vuota. Con un solenne gesto della mano sana, Fil diede il via all’operazione. Come da programma, Rotto si scagliò contro il vetro di una finestra, aprendo un varco col suo corpo. Fil e Tetra lo seguirono dentro, con la seconda che sorreggeva il primo, costretto a trascinarsi dietro quella brutta copia di una gamba. Ombra Kid entrò quando nessuno guardava e subito si confuse fra le tenebre. I quattro si guardarono intorno. Era una vera casa degli orrori. Un bagno, una cucina, un salotto, una scala… Prevedibile quanto angosciante. Fil si fece forza e attraversò il corridoio appoggiandosi alla parete, mentre gli altri stentavano a muoversi. Avanzò in quel luogo maledetto, finché non si scontrò con un comodino che gli sbarrava la strada. Su di esso, accanto a un abat-jour dal design tradizionale, vide la foto incorniciata dello Straniero con una donna carina ma non bella, dai lunghi capelli corvini. Una tipica, e per questo inquietante, foto di coppia. Sembravano mediamente felici. Fil era sicuro, però, che lo Straniero vivesse lì da solo. Si girò per indicare ai compagni questo nuovo indizio, ma non ne ebbe il tempo. Le luci del corridoio si accesero e tutti si irrigidirono al rumore distinto di passi sulle scale.
«Un’ombra! Il mio regno per un’ombra!» echeggiò Ombra Kid.
I soldati, ancora vicini alla finestra, batterono subito in ritirata. Tetra fu la prima a scappare via urlando, seguita – probabilmente, dal momento che non si vedeva più – da Ombra Kid.
«Te l’avevo detto che saresti morto abbandonato da tutti in uno squallido tugurio, Fil! » urlò Tetra.
Rotto rimase immobile per qualche secondo, il cervello un po’ lento a elaborare, poi si dileguò senza emettere un fiato. Fil cercò di trascinarsi verso l’uscita, ma il terrore non fece altro che agevolare la sua caduta. Finito sul pavimento, Fil alzò lo sguardo e si ritrovò di fronte quell’ordinaria figura. Lo Straniero, in tutta la sua aberrante normalità, lo fissava inespressivo. Fil chiuse l’occhio, in attesa di un’ignota e tremenda reazione. Lo Straniero si limitò, però, a sollevarlo da terra e a farlo sedere sul divano. Fil aprì l’occhio e si accorse con sorpresa che era ancora vivo. L’Uomo Medio di fronte a lui continuava a guardarlo con quell’insopportabile espressione neutra.
«Tè e biscotti?» chiese.
Fil non disse niente, deciso a non parlare neanche sotto tortura. Lo Straniero si diresse comunque verso la cucina. Fil rimase immobile, immaginando quale veleno, o peggio, quale tè insipido lo Straniero stesse preparando nell’altra stanza. Quando l’uomo rientrò e piazzò il vassoio davanti a Fil, questi lo esaminò per qualche secondo e lo giudicò abbastanza invitante da rischiare. Ma era come temeva: quei biscotti avevano un sapore bilanciato e un po’ scialbo. Dannazione!
«Dunque…» cominciò lo Straniero, con voce piatta e incolore, «mi pare di aver sentito rumore di vetri rotti…»
Fil non rispose, inflessibile, ma prese un altro biscotto.
«Senza infamia e senza lode, eh?» disse l’uomo, indicando i biscotti. «Lo diceva sempre mia moglie. Ho questa capacità di non riuscire a dare sapore alle cose.»
Fil realizzò in quel momento che lì fuori, da qualche parte, c’era almeno un’altra persona come lui e dovette soffocare un conato di vomito. Lì immaginò figliare e moltiplicarsi a dismisura a gruppi di dieci, venti, cento, per poi espandersi e invadere tutti i quartieri della città, ormai sprofondata nella più assoluta mediocrità. Per fortuna, la secchezza dei biscotti placava la sensazione di rigetto.
«Be’, anche fe doveffevo effevci miliavdi di voi» sbottò Fil, con la sua R moscia e la sua S sibillina, «noi vi vispedivemmo tutti a cafa. Non ci favemo divideve. Puoi anche dive a tua “moglie”, o qualfiafi cofa fia in vealtà, di non venive!»
Lo Straniero fu per un istante interdetto dall’aggressività del suo interlocutore e, in minima parte, dal suo modo di parlare. Poi si lasciò scivolare tutto addosso con un sorriso malinconico.
«Non credo ce ne sarà bisogno.»
Fil, con aria perplessa, si leccò via pezzi di biscotto dai quattro canini. Ebbe come un’epifania e si pietrificò in una posizione buffa, con la lingua biforcuta che pressava contro una guancia: lo stava minacciando? Voleva forse dire che erano già qui? Era già in atto un’invasione su larga scala, si erano infiltrati nei più alti livelli della società? Il terrore prese posto al disgusto.
«Ti… ti faccio pvefente che fei obbligato a tvattavmi come un pvigionievo politco. Fe tu, o la tua novmale mogliettina, mi tovcete anche folo un capello bianco, noi…»
«Normale…» lo interruppe l’altro. Sembrava improvvisamente distante, non più in una casa dall’architettura ragionata e comune. L’uomo trattenne la parola in bocca, per cercare di capire che sapore avesse. Aveva un sapore sbagliato.
«Non mi pare ci fosse niente di normale, in lei. Magari in apparenza. Ma non nelle… piccole cose. Sono quelle che ci mancano di più, no?»
Fil alzò la testa e lo guardò per la prima volta negli occhi, senza smettere di masticare platealmente l’ennesimo biscotto. Gli sembrava, o così credeva, di aver percepito un cambiamento nella sua aura. Su quel piatto grigiore si era steso un velo di… tristezza? Era forse un trucco per distrarlo?
«Che c’entvano ova le “piccole cofe”?» chiese Fil.
«Sì, insomma» continuò un po’ imbarazzato l’uomo, tornato in sé, «i piccoli gesti che faceva. Quel modo di sedersi, con le gambe accavallate, dopo una giornata di lavoro. O come, quando voleva infastidirti, ti strappava a tradimento i peletti delle braccia. Come teneva la tazzina del caffè la mattina o come ti guardava poco prima di addormentarsi. Ti guardava e ti faceva sentire speciale, anche se non lo eri.»
Fil si grattò la testa. Non si aspettava di essere colpito da quel treno di pensieri, sbucato dal nulla, da una galleria oscura e nascosta. Di certo non era stato segnalato agli Arrivi. E Fil si sentiva come uno che è salito senza biglietto, con l’ansia di voler scendere il prima possibile. Poi si rese conto che lo Straniero, da quando era arrivato, non aveva probabilmente parlato con nessuno. L’unico che lo aveva notato, che si era accorto della sua esistenza, era Fil.
«E ova dove fta?» biasciò Fil. L’uomo ci mise qualche secondo per rispondere.
«Se n’è andata. In quella casa non ci poteva restare, così sono venuto qui» disse.
Fil lo osservò in silenzio. L’uomo abbassò lo sguardo e rimase immobile. Fil si sistemò sul divano, di colpo a disagio. L’immagine dell’orda dei normali era ormai lontana e sbiadita.
«Come ti chiami?» gli chiese l’uomo, rompendo il silenzio che si stava ammassando nella stanza.
«Fil.»
«Sarebbe… Filippo?»
«No. Fil è il mio vevo nome. La mia effenza vivelata al mondo. Viene da Filottete. Per via del… be’, della gamba, pvincipalmente. Per la f-figa, fecondaviamente. Cattiva fovte, intendo. E tu? Come ti chiamano?»
«Come mi…? Ehm, Mario.»
Ovviamente, pensò Fil.
«No, intendo il tuo nome, il tuo nome vevo. Quello che dice chi fei.»
«Io… nessuno mi chiama in nessun modo.»
Fil squadrò per bene quella grigia figura. Nonostante la sua repellente normalità, c’era qualcosa di inqualificabile persino in lui. Forse proprio per quella. Era qualcosa di intangibile, un po’ come intangibile era la qualità di fallimento totale di Fil.
«Be’» fece Fil, «dov-vesti avevlo, visto che ova ftai qui. Qui non ci fono mafcheve, folo volti. Tutti fono unici, ma lo fiamo infieme.»
Mario inarcò un sopracciglio. «Però, cose complicate, per un ragazzo così giovane.»
Fil si fece il più possibile dritto, lottando contro quel principio di gobba che cominciava a spuntargli. «È quello che ci ha infegnato Vodolfo.»
«Chi è Vo… Rodolfo?» chiese Mario.
Una pietra sfondò la finestra dietro Fil e atterrò esattamente in mezzo a loro. Tra i vetri rotti attaccati alle ante, i due scorsero una folla inferocita spuntata come un fungo nel giardino. Una folla stereotipata, con forconi e torce (facevano parte di un comodo set che veniva distribuito ai cittadini all’occorrenza). In prima fila c’erano Rotto, Ombra Kid (nascosta dietro Rotto) e Tetra, che probabilmente pensavano di essere la cavalleria. Davanti a tutti c’era Rodolfo, un omone con un grande naso rosso e luminoso, la guida della comunità nell’oscurità del mondo. Era il parroco della Holy Platypus Church, un ordine autoctono e antignostico dalla dottrina New Age, e lo spacciatore locale. Prendeva la questione “oppio del popolo” alla lettera.
«Grande Divisore!» urlò Rodolfo, «Se sei venuto per oltraggiare il nostro stile di vita, sappi che noi siamo più forti! Ridacci il nostro ragazzo speciale e abbandona la città!»
Fil si voltò di scatto verso Mario, «Tu ce l’av-vai puve qualcofa di ftvano, no!?»
Mario, ancora sconvolto dall’idea di aver perso ben due finestre nello stesso giorno, guardò Fil senza capire. Ma il volto del giovane esigeva una risposta immediata.
«Strano? Be’, io… un vizietto ce l’avrei.»
«Pavla, pvefto!»
«Sono un po’ un filatelico.»
Sacro Ornitorinco Duplice, aiutami tu, pensò Fil.
«Ce lo favemo baftave» sospirò Fil.
I due uscirono dalla porta d’ingresso e videro la folla e i loro set da tumulto. Rodolfo, nel vedere che Fil si faceva avanti sorretto dallo Straniero, alzò un braccio per placare la sua congrega. La folla si spense all’istante. Fil si schiarì la voce e fece da solo qualche passò in avanti sotto lo sguardo ammutolito dei presenti.
«C’è ftato uno fbaglio, fvatelli. Non ci vuole divideve. Il nome di queft’uomo è… Fvanco» disse Fil. «E, cvedetemi, è filat… ftvano. Ftvano fovte!»
Rodolfo, con passi lenti e teatrali, andò incontro all’uomo senza mai smettere di fissarlo. Mario rimase immobile e deglutì debolmente. Rodolfo si piazzò a qualche centimetro da lui e si abbassò per guardarlo dritto negli occhi. Il bagliore rosso del suo naso si proiettò sulla fronte sudaticcia di Mario. Al massimo della tensione, l’omone fece un passo indietro e afferrò la mano di Mario per stringerla con la forza di una macchina stritolatrice.
«Sì, lo vedo… Il dolore.» disse Rodolfo. «Benvenuto, Franco!»
La folla emise un sospiro di sollievo all’unisono, qualcuno applaudì. La portentosa stretta di mano ancora continuava e sembrava destinata a durare per almeno un altro minuto. Mario era troppo preso da questa per reagire, o anche solo per capirci qualcosa, ma il suo sguardo, mentre passava in rassegna le bizzarre figure che componevano la folla, andò poi a posarsi su Fil. Questi lo guardava col suo unico occhio rosso e sorrideva. Mario, o meglio Franco, tra una fitta di dolore e l’altra, riuscì a sorridere di rimando.
«Folo… non ftvingeve la mano a Tetva, fe non ci tieni a fapeve come fchiattevai. » gli sussurrò Fil.


A illustrare il racconto: Diane Arbus – Untitled, ‘Kids in costumes‘, 1970/1971.