Categories

La stufa

Autrice
Caterina Rapini
Fuori menù
Narrativa generale
25 maggio 2023

Il profilo dei palazzi taglia il cielo di febbraio in poligoni affilati come il freddo che entra nelle ossa. La stufa di ghisa nera troneggia al centro del monolocale, vuota e spenta: il tecnico verrà oggi a ripararla.

Calcolo quanti minuti ci vorranno per essere pronta, così non devo uscire adesso dal letto e incontrare il pavimento ghiacciato: trenta secondi per pisciare, due minuti per lavarmi i denti, due per sciacquare la faccia e le ascelle, tre per vestirmi, uno per trovare l’ultimo biscotto vegano nella dispensa e morderlo mentre preparo la colazione per Fabio: pane tostato, burro salato e prosciutto. 

Lui è accanto a me, sdraiato, la faccia spiaccicata contro il cuscino. Forse ha sentito che sono sveglia, perché mi cerca con la mano: trova un braccio, la pancia, si infila tra le cosce. Il suo respiro diventa più veloce, la mano segue il perimetro delle mutande. Fingo di dormire, ma lui si è già girato verso di me, ho il suo fiato caldo contro il collo, le sue mani dentro il pigiama. Le mestruazioni, sussurro, mi devono tornare le mestruazioni, calco la parola perché so che gli fa schifo. Ma non c’è traccia di sangue ormai da settimane, e forse anche lui se n’è accorto o comunque non gli importa: mi bacia il collo, l’orecchio, mi accarezza più forte. Sento il suo corpo sopra di me, il pigiama che scivola, lui che entra dentro ansimando. Apro gli occhi e guardo il soffitto: conto le travi, le assi di legno e tutti i loro incroci: trentatré, trentaquattro, trentacinque, trentasei riquadri. 

Fabio finisce, emette un grido, si riversa sopra il mio petto e mi chiede se sono venuta. Annuisco in fretta. Gli basta.

Esco di casa nel grigio della città che dorme: un gabbiano grida sopra la mia testa, volteggiando come un avvoltoio. Alla fermata dell’autobus una vecchia stretta nella pelliccia, un paio di studenti, un uomo con il giubbotto catarifrangente. Cerco di incrociare i loro sguardi, di catturare un saluto, ma i loro occhi mi attraversano come fossi trasparente. Mi confondo con i muri di cemento e i loro graffiti, un segno perso tra gli altri. 

Arrivo in tipografia, poggio la giacca, infilo il grembiule, prendo i detersivi. Riempio i secchi d’acqua per passare lo straccio, sento la schiena che tira: forse è il freddo. E se il sangue non tornasse? Fabio non mi permetterebbe più di lavorare: mi chiuderebbe in casa, serrata nel monolocale sopra l’appartamento dei suoi genitori. E invece questo lavoro invisibile mi fa continuare a esistere. 

Alle nove lascio l’ufficio, mentre arrivano i primi impiegati. Raggiungo a piedi l’appartamento della giudice D’Aurelio, passando sotto la ferrovia. Davanti a me si apre la città vecchia, con i suoi muri in mattoni e il ricordo di carrozze eleganti; dietro di me la città che conosco, tra le case popolari e il cementificio. 

Alla farmacia del corso compro un test di gravidanza: lo metto nella borsa e salgo le scale del palazzo, apro con la chiave che mi lascia il portiere. Nel bagno della giudice, davanti al lavandino di marmo rosa e allo specchio gigante che mi esamina, mi accovaccio e ci piscio sopra. Positivo. 

Richiudo il test e lo rimetto nella borsetta, lo butterò nel primo cestino della spazzatura che troverò per strada. Mi allaccio il grembiule e cerco l’aspirapolvere nello stanzino. Fabio mi videochiama ogni mezz’ora. Lo fa da quando ci siamo conosciuti, a una cena a casa di una compagna dell’università. Io ero una studentessa fuorisede appena arrivata a Pescara, lui da Pescara non era mai uscito. 

Le videochiamate durano di solito molto poco: il tempo di fargli vedere dove sono, di capire che con me non c’è nessuno. Mi avverte che il tecnico verrà tra poco, probabilmente gli farà aprire da suo padre. 

Lo vedo già approfittare per controllare la casa, passare il dito sopra i mobili alla ricerca della polvere, guardare nel frigo cosa ho comprato e cosa cucinerò per cena. 

Spero che almeno pagherà il tecnico per noi, o che Fabio gli abbia lasciato i soldi: i miei finiscono nel conto che abbiamo insieme, e può prelevarli solo lui. Prima di lasciare l’università avevo una carta prepagata, dove mia madre metteva quello che guadagnava facendo la cameriera a ore, esattamente come me. Quando sono andata a vivere con Fabio è sparita nel trasloco, e non l’ho più trovata. Conto le ore di lavoro che faccio, le moltiplico per il costo orario, tolgo le tasse, calcolo il totale. Sottraggo l’affitto, che non pago, e il cibo, che non pago, e le bollette, che non pago, e una macchina, che non ho, e le cene fuori il fine settimana, tutte cose che paga sempre lui. Mi perdo nei calcoli e non rispondo all’ennesima videochiamata. 

Per tornare a casa scelgo il tragitto più lungo, quello che passa per il ponte nuovo, una vela bianca splendente sopra il fiume. Guardo l’acqua scorrere placida, braccata dalle sponde di cemento, in carcere ma senza accorgersene. Sotto di me, un’ombra disperatamente avvinghiata alla balaustra prova a confondersi con la corrente. Mi somiglia. Mi perdo nella mia ombra, una sagoma disperatamente avvinghiata alla balaustra che prova a confondersi con la corrente. Sul marciapiede una signora porta a spasso il cane, una bambina corre in bicicletta. Un gruppo di ragazze passeggia, stringono al petto libri fotocopiati. Avranno la mia età. Una di loro si volta verso di me, la riconosco: abbiamo dato insieme l’esame di statistica. Alzo una mano per salutarla, ma lei si gira di nuovo verso le amiche, come se al mio posto ci fosse solo aria.

Nell’androne delle scale il portiere mi avvisa che il tecnico della stufa è già andato via, il padre di Fabio l’ha fatto entrare. Ha lasciato un biglietto, tornerà domani. 

La casa continua a essere gelata, il sole è sparito da ore dietro i calcinacci del palazzo di fronte. L’aria è viziata, ma fa troppo freddo per aprire le finestre. Mi sdraio sul letto supina, metto le mani sulla pancia. Mi sembra di vedere il sangue che cola giù, in mezzo alle gambe, fino alle caviglie. Mi tocco: nulla. L’orologio mi ricorda che devo preparare la cena: questa sera gli cucino la carne, mentre io mangerò delle patate. 

Taglio l’agnello con la mannaia, le mani mi prudono: immagino il mio sangue confondersi a quello del cadavere che sto macellando. Ho un conato di vomito, mi fermo. Sulla stufa c’è un pezzo di carta gialla, con una scritta nera di pennarello: “non accendere assolutamente, fughe monossido di carbonio”. Lo butto nella carta. 

Fabio torna mentre la carne è ancora in forno. È arrabbiato. Non mi rivolge la parola, butta la giacca sul letto, si siede e apre una bottiglia di vino. Ho paura a chiedergli perché: potrebbe essere qualsiasi cosa. E se avesse scoperto del test? Dove l’ho buttato? Sento i muscoli contrarsi, fingo di sciacquare i coltelli nel lavandino. Il campanello del forno suona, è ora di estrarre l’agnello. Mi avvicino alla tavola, lui sbatte i pugni sul piano, fa sobbalzare il vino dal calice. Perché non mi rispondi, quando ti chiamo? Tiro un sospiro di sollievo. Gli siedo in grembo, lo accarezzo con una tenerezza che non ho da tempo. Lui si lascia convincere. Mi mette una mano sotto il maglione, cerca il seno. Non ho voglia ma non mi oppongo. L’ultima volta che l’ho fatto non è andata bene. Inizio a contare le piastrelle della cucina. Fabio si alza, mi gira di spalle contro il tavolo. La parete è un mosaico tra il salmone e l’arancione, fatto di tessere piccolissime: so il numero a memoria, ma spero che ogni volta il risultato sia diverso. I jeans cadono sul pavimento e lui mi entra dentro con forza, senza chiedere permesso. Conto più veloce, spero solo che finisca presto. Ogni volta che provo a rifiutarlo ha un attacco di rabbia. Smette di respirare, sviene, oppure si fa del male. Una volta si è tagliato i polsi con un coltello da bistecca. Guardo nel lavandino, la mannaia è ancora sporca di sangue. Lui intanto finisce con il solito grido: è l’unico rumore di cui i suoi genitori, al piano di sotto, non si sono mai lamentati.

Fabio si riallaccia i pantaloni e si butta sul letto, con un cosciotto di agnello in mano. Accende la televisione, alza il volume, il grasso dell’animale cola sulle lenzuola. Pochi minuti e lo sento già russare. 

Porto i piatti nel lavandino, ripongo la teglia ancora piena in forno, guardo quella delle patate, cerco di stimare a occhio quanti pezzettini ci sono. Apro l’acqua, prendo il detersivo, bagno la saponetta. Stringo troppo forte il calice, il vetro si frantuma tra le mani: il sangue mi bagna le dita, scorre insieme al sapone e all’acqua calda verso la fognatura. Non provo dolore, solo stanchezza, come se tutta la gravità del mondo mi schiacciasse. Penso alla giudice D’Aurelio che mi guarda impietosita, alle compagne dell’università che non mi hanno riconosciuta, a mia madre che lavora troppo e non può venirmi a trovare mai. Penso al sangue, a quello che scorre nel lavandino e a quello che ho aspettato invano. Penso a questo monolocale in cui mi ritrovo a vivere senza fare rumore.

Il respiro di Fabio si fa sempre più profondo. Mi sciacquo la mano, la tampono con lo strofinaccio. Lascio i piatti nel lavello, chiudo l’acqua, apro l’armadio, infilo le scarpe da tennis, cerco della carta tra gli appunti dell’università, nel ripiano più alto. Esco sul balconcino, prendo alcuni pezzi di legna, ancora nella cassapanca dall’ultima volta che abbiamo usato la stufa.

La televisione ora è accesa sulla pubblicità, mamme bellissime vendono prodotti per la casa, contente della vita che fanno. Sistemo tutto con ordine, attenta a non svegliarlo: la carta sotto, le fascine, qualche rametto sottile, l’ultimo pezzo di tronco rimasto, legno di quercia. La carta brucia, il fuoco inizia a crepitare e disegna ombre sulle pareti, accarezzando il profilo di Fabio immerso nel sonno. Il tronco s’infiamma, il caldo si diffonde per la stanza. 

Mi metto la giacca, chiudo lo sportello della stufa e do una mandata alla porta mentre vado  via. 

Il freddo avvolge la mia faccia come una carezza. La città mi accoglie con le luci gialle dei lampioni, mi protegge con i muri sporchi dei palazzi. Attraverso il fiume, l’acqua nera e la sua ansia di perdersi nel mare mi fanno sentire in pace. Non so quanti minuti ci vogliano perché il monossido di carbonio faccia effetto, ma per una volta non ho voglia di contare.


A illustrare: Alberto Burri, Plastica