All’ombra della Città del Sole
They’re selling postcards of the hanging
Bob Dylan – Desolation Row
They’re painting the passports brown
The beauty parlor is filled with sailors
The circus is in town
All’alba della terza settimana di primavera la Città del Sole fu attraversata da una scossa silenziosa: il circo era tornato. Non esisteva niente di più atteso. E anche lui non aspettava altro.
Quella mattina, quando spalancò le finestre di camera per affacciarsi sulla strada, vide che in tanti erano già all’opera. Tra quei tanti, con la scopa in mano e intenta a spazzare il marciapiede, vide Cenerentola, la sua vicina, che lo riconobbe subito:
«Pollicino! Che ci fai già in piedi?».
Più avanti sulla via, dal vecchio pub uscirono due pirati sbronzi. Uno era alto e magro, l’altro l’opposto. Quello più alto, coi baffi lunghi e neri, nonostante la faccia rubizza per l’alcool manteneva un’aria presuntuosa e si sfogava sul piccoletto come se fosse un suo sottoposto. Il piccoletto vide Cenerentola e le mandò un bacino; l’altro, dal canto suo, assunse una posa più seria e sollevò leggermente il cappello, rivelando un grosso uncino al posto della mano sinistra.
Pollicino adorava osservare le persone che abitavano il vicolo dell’Ombra. Piccolo com’era, nessuno si accorgeva mai della sua presenza e questo gli permetteva di infilarsi ovunque indisturbato. A volte si nascondeva sotto a un tavolo del pub, dove ogni sera orde di marinai e disperati si ritrovavano per spingere la notte un po’ più in là, tra un boccale di birra e una rissa. Altre volte riusciva a sgraffignare qualche giocattolo al bazaar di Ramis, il posto sicuramente più interessante di tutta la via. Ramis aveva un cugino che viveva ad Agrabah e che gli aveva confidato in gran segreto di una strana grotta dove pare si nasconda una lampada magica in grado di esaudire qualunque desiderio. Un giorno Ramis avrebbe trovato il modo di andarsene da lì e sarebbe andato a caccia di quel tesoro.
Anche Pollicino sarebbe voluto andare all’avventura, scoprire nuovi mondi… quel quartiere era l’unico che conoscesse, e non poteva essere altrimenti. Era una legge ferrea della Città del Sole: chi nasce in Vicolo dell’Ombra non può uscirne. Spesso suo padre minacciava di abbandonare lui e i suoi fratelli nel bosco; ma erano parole vuote, nessuno era mai andato via da lì. I grandi raccontavano storie su come avessero combattuto per rovesciare quella legge ingiusta. Ma avevano sempre perso, e piano piano gli ombrosi – come si chiamavano fra di loro – si erano abituati al nuovo stato di cose; e così quelle storie erano diventate le loro fiabe della buonanotte, nenie nostalgiche da cui imparare qualche lezione, anche se Pollicino non aveva mai capito quale.
C’era però un modo per fuggire da lì, uno solo: il circo di Mangiafuoco.
Mangiafuoco era un uomo grande e barbuto, uno degli uomini più grossi e minacciosi che Pollicino avesse mai visto. Ogni primavera tornava alla Città del Sole per una settimana di spettacoli incredibili – o almeno così si diceva nel vicolo – e in una qualsiasi delle sei sere in cui pernottava in Città passava senza preavviso per il vicolo a scegliere qualcuno da portare con sé per farlo lavorare. Non era chiaro a nessuno perché Mangiafuoco potesse entrare e uscire liberamente nel quartiere. Gli unici altri che potevano farlo erano i soldati del re, che di quando in quando venivano a controllare che aria tirasse all’Ombra della Città del Sole.
Pollicino scese in cucina. Suo padre mangiava in silenzio la colazione, mentre sua madre osservava i suoi fratelli provare qualche numero che speravano potesse impressionare il proprietario del circo quando sarebbe passato di lì. Nessuno sembrava avere un talento particolare, ma la donna li incitava comunque. Ogni tanto voltava la testa verso il marito che mangiava un’unica fetta di pane immersa in latte e acqua, senza riuscire a nascondere le lacrime.
Pollicino indossò i suoi vecchi stivali e uscì di casa. Fuori nel vicolo erano tutti all’opera, pronti a dare il meglio di sé. Cenerentola aveva finito di spazzare il marciapiede e ora lavava la vetrina della sua bottega di abiti usati. Qualche metro più avanti un piacevole odore di dolci riempiva l’aria. Era la panettiera dei Marge, una coppia di vecchi inglesi. La signora in particolare sosteneva di fare dei biscotti a forma di uomo così perfetti che si aspettava di sentirli parlare da un momento all’altro: «Ti immagini uno spettacolo fatto da uomini di marzapane che ballano e cantano insieme?».
Il signor Marge osservò il vassoio perplesso: «Non siamo un po’ vecchi per andarcene, ormai?».
Sua moglie non prese bene il commento. Sognare, gli rispose, era tutto quello che le era rimasto.
Forse era uno scherzo della fame o forse la realtà, ma uno di quei biscotti dalla sagoma umana si alzò in piedi e con aria soddisfatta balzò giù dal vassoio. Una volta per strada notò che Pollicino lo fissava e disse con una vocina acuta: «Prova a prendermi!» Poi corse via a una velocità impressionante. Pollicino, che aveva saltato la colazione, si lanciò subito all’inseguimento – ma quel maledetto omino di marzapane era una vera scheggia! Pollicino rincorse quella che sperava diventasse la sua colazione per i vicoli più lerci del quartiere, fino a prendere una scala che portava in cima a un palazzo. Mentre si avvicinava alla porta che dava accesso al tetto sentiva sempre più forte un rumore di pianto. Quando finalmente si trovò in cima, riconobbe quella voce come quella dello strafottente Omino di Marzapane, che adesso giaceva a terra supino, con le gambe mutilate.
Il dolcetto senziente piangeva forte, e più piangeva più le lacrime gli scioglievano l’impasto. Come Pollicino gli si fece accanto, sbucò l’autore delle amputazioni. Era un piccolo gatto rosso dall’aria furba che si leccava i baffi soddisfatto.
«Era la mia colazione», disse Pollicino. Il gatto per tutta risposta si alzò ritto sulle zampe posteriori mostrando gli artigli. Ma non riuscì a tenere quella posizione a lungo. Così Pollicino ebbe un’idea:
«Ti offro questi in cambio del biscotto».
Si tolse gli stivali logori e li passò al gattino che li studiò incuriosito, per poi infilarseli. Aveva le zampette leggermente più piccole dei piedini di Pollicino, e infatti ciondolava un po’.
«Li riempirai crescendo, vedrai che ti aiuteranno anche a stare meglio in piedi», disse Pollicino.
Il gattino soddisfatto se ne andò via traballando. Pollicino raccolse l’Omino di Marzapane da terra. Aveva pianto fino a sciogliersi la faccia e non rimaneva quindi più molto da mangiare; ma era sempre meglio che passare un altro giorno a digiuno. Così lo mandò giù in un sol boccone; in fondo anche il suo stomaco era piccolo e gli bastava davvero poco per riempirlo. Tutto sommato la sua particolare statura era una fortuna da quelle parti.
La notte arrivò, come ogni altra notte, stendendo la sua lunga ombra su tutta la Città del Sole. A quell’ora non c’erano differenze apparenti fra il suo quartiere e tutti gli altri, e forse per questo motivo si vedevano più persone che di giorno. Eppure quella sera in giro c’era più trambusto del solito, e non ci volle molto per scoprirne il motivo: un uomo gigantesco dalla folta barba scura seguito da quello che nelle fiabe chiamerebbero orco, a sua volta seguito da un grosso carro coperto da un telo. Era arrivato Mangiafuoco.
Per le strade la gente accorreva come un fiume in piena alla corte del mastro circense, tutti implorando di essere scelti. Era impossibile capire chi vantasse cosa, ma ognuno di loro giurava di avere un’abilità speciale. Il carro, trainato da un asino dall’aria infelice, si fermò di fronte alla bottega di un falegname che cercava di scaldarsi di fronte a un camino. Pollicino strizzò le pupille per abituare meglio gli occhi al buio e notò che quel camino non era vero, ma soltanto dipinto sul muro. Mangiafuoco bussò alla porta del falegname e chiese di Geppetto. Disse anche che aveva sentito parlare di un burattino con un potere speciale. Geppetto non ne andava fiero, ma mostrò a quel barbuto signore la sua famigerata opera. «Si chiama Pinocchio», svelò con un po’ d’imbarazzo; «quando mente gli cresce il naso». Mangiafuoco alzò le sopracciglia e, incuriosito, gli fece qualche domanda sperando di farlo mentire. Non successe niente finché Pinocchio tutto serio non disse: «Io sono un bambino vero!», e allora il naso crebbe di colpo. Mangiafuoco continuò a farglielo dire, e il naso aumentò di un metro buono. Soddisfatto, il proprietario del circo lo acquistò dal falegname per tre zecchini d’oro. Geppetto chiese di poter venire anche lui ma gli fu negato: a Mangiafuoco interessavano solo i mostri e non i loro fabbricanti. La folla, intanto, riprese a implorare l’omone per farsi portar via di lì. L’orco, compare di Mangiafuoco, strattonò il burattino per un braccio per condurlo al carretto. Quando i tre passarono di fronte all’asino, questo emise un lungo raglio disperato; Pollicino notò che aveva gli occhi pieni di lacrime. Anche gli asini piangono?, si chiese. «E stai buono, Lucignolo!» disse Mangiafuoco colpendolo con una frustata. Poi il carro riprese la sua lenta passeggiata per fermarsi poco più avanti, di fronte al negozio di Cenerentola.
«Mio signore», disse la giovane. Indossava un abito elegante, cucito con pezzi di altri abiti, ma il lavoro era stato svolto con maestria e quasi non si notava. Mangiafuoco allungò la mano verso le perle che Cenerentola portava al collo.
«Mia graziosa, ci rivediamo… devo constatare che gli anni passano per tutti tranne che per voi».
«È questo l’anno in cui mi prenderete?».
Mangiafuoco sorrise malizioso.
«Questo dipende solo da voi. Cos’avete che io possa desiderare?».
I due entrarono in casa della ragazza e l’Orco si mise a fare la guardia al carro, dato che le persone cercavano di infilarvisi di nascosto.
Anche Pollicino, animato dalla sua solita curiosità, voleva scoprire quali altre creature potessero nascondersi sotto a quel telo variopinto. Così cercò di sgattaiolare fra le gambe delle persone e riuscì a sbirciare finalmente l’interno del carro. Era una gabbia di ferro rugginoso sul cui fondo avevano sistemato della paglia, vecchia chissà quanto. L’odore era atroce, qualcuno lì dentro doveva essersi sentito male e nessuno si era preoccupato di risolvere la faccenda. Pinocchio piangeva incatenato con un braccio a una delle sbarre, e come lui sedevano sulla paglia altre persone, tutte incatenate. Una donna barbuta, tre porcellini, un cucciolo di elefante dalle orecchie enormi. Sulla parete in fondo della gabbia qualcuno aveva scritto qualcosa con le proprie feci: Chi vive al sole vuole l’ombra; chi vive all’ombra vuole il sole.
Un enorme mano guantata tirò via Pollicino dal carro. Era l’Orco – aveva gli occhi iniettati di sangue. «Lasciami andare, aiuto!» gridò disperato Pollicino, e gli abitanti del vicolo insorsero contro l’Orco. Nel caos che ne seguì, Pollicino riuscì a divincolarsi, sfilando dalla mano dell’Orco il guanto; e scappò in un vicolo con quello strano trofeo di pelle nera.
La folla si placò non appena Mangiafuoco tornò in strada abbottonandosi la cintura dei pantaloni. Cenerentola sull’uscio aveva l’aria spettinata ma gli occhi che gridavano speranza. Mangiafuoco fece allontanare la gente dal carro e disse all’Orco di ripartire in fretta, ché anche per quest’anno avevano concluso.
Poco dopo nel quartiere piombò uno strano e rassegnato silenzio. Tutti erano tornati a casa, persino il pub era chiuso – non succedeva mai. L’unico suono udibile era quello di Cenerentola, inespressiva, che spazzava il marciapiede di fronte casa sua.
Pollicino, finalmente seduto sul suo letto, respirava affannosamente. Gli facevano male i piedi per quanto forte aveva corso, non era abituato a farlo scalzo. Non riusciva ancora a credere a cosa aveva visto nel carro di Mangiafuoco. Voleva svegliare sua madre e i suoi fratelli per raccontare dell’orribile destino toccava a chi veniva preso nel circo. Ma sentì che sarebbe stato inutile. Non gli avrebbero creduto, o peggio ancora lo avrebbero fatto, e a quel punto nel Vicolo dell’Ombra non ci sarebbe più stata neanche la speranza.
Rassegnatosi, cercò di pensare ad altro e si mise a esaminare il guanto che aveva sfilato all’orco. Era enorme, al punto che provò a infilarselo come fossero un paio di pantaloni, mettendo le sue gambe in due delle dita e tirando su il bordo fino all’ombelico. Di colpo il tessuto prese a illuminarsi e si restrinse intorno alle gambe di Pollicino fino a diventare due stivali lucidi e neri. Sbatté le palpebre incredulo – era una vera e propria magia! Dall’entusiasmo saltellò sul letto e si sentì leggerissimo. Con degli stivali così avrebbe potuto correre più veloce del vento, forse… sì, forse con quegli stivali ce l’avrebbe fatta, anzi ne era sicuro: sarebbe scappato da quel vicolo per sempre.
Fece un grande sbadiglio. Per l’entusiasmo si mise sotto le coperte con gli stivali ancora ai piedi e piano piano si addormentò, pensando che questo sembrava proprio l’inizio di una fiaba di cui, per la prima volta, gli pareva di afferrare il senso.
Ad illustrare: E. Williamson, Favela 2, in https://flic.kr/p/8gnvRa; e chickadeelomo, playing with fire, in https://flic.kr/p/5Crx9x