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Lumache

Autore
Francesco Casini
Ciclo #15 - Spaghetty Scorretty
Narrativa generale
10 agosto 2023

– Ti rendi conto della gravità di quello che dici?
È mia moglie – rispondo.
Batte il pugno sulla scrivania. Le stilografiche tentennano nel portapenne; i portafoto in argento con la moglie sorridente, le figlie sorridenti, il border collie sorridente, crollano; la lampada molleggiata in alluminio ondeggia, increspando le ombre della stanza.
– Senti – capisce d’aver esagerato, rassetta la scrivania, deglutisce, tiene lo sguardo basso, parla con un tono tre ottave sotto Pavarotti. – Dovrei segnalarti alle autorità.
Non mi scompongo.
– Restiamo calmi – dico.
– Restiamo calmi un cazzo.

– Non sei professionale però.
– Professionale? Io chiamo i carabinieri.
Io e Michele ci conosciamo da vent’anni.
– Non lo faccio solo perché ci conosciamo da vent’anni.
Ecco, appunto.
– Però adesso te ne vai. Abbiamo chiuso.
Scatta in piedi, scaraventa fogli e quaderni nella ventiquattrore. Cerco di tranquillizzarlo.
– Michele, ascoltami.
– Non provare a intortarmi!
– Non voglio farlo veramente. È solamente un pensiero, una fantasia assurda. Ti giuro.
Infila il cappotto, stringe la sciarpa al collo, si china verso di me.

– Io ti conosco, tu fai sul serio. Ascoltami: la gente perdona chiunque, Mussolini, Matteo Messina Denaro, Berlusconi, chiunque, tranne due tipi di persone.
Fa una pausa drammatica mentre chiude la valigetta. Poi mi mostra due dita.
– Pedofili e stupratori.
– Tecnicamente…
– FUORI.
Mi afferra sottobraccio, mi spinge alla porta.
– Non voglio ascoltare. Come cazzo ti viene in mente.
Povera Laura.
Crollo sulle ginocchia.
Laura è morta!
Infilo la testa tra le sue gambe. Inizio a singhiozzare. Uno spettacolo pietoso. Mi ripeto, con meno enfasi, la voce rotta, come nei film.
– Laura è morta.
Michele è senza parole. Lascia cadere le braccia, guarda attorno a sé sbigottito verso un pubblico immaginario. C’è un silenzio surreale nello studio. Anche la città, fuori, sembra essersi fermata.
Mi ricompongo. Asciugo le lacrime. Tiro fuori un fazzoletto e mi soffio il naso rumorosamente. Mi mette una mano sulla spalla. Adesso è calmo. Siamo calmi. Si inginocchia davanti a me.
– Sono passati cinque anni – dice. – Devi lasciar andare.

– Ci provo, ti giuro che ci provo.
Mi abbraccia.
– Non posso aiutarti, sono troppo coinvolto.
Mi dice un nome, un collega psichiatra, uno bravissimo. In quattro e quattr’otto mi rimette in sesto, me l’assicura. Lo scrive su un fogliaccio e me lo porge. Aiuta a rialzarmi. Scendiamo le scale del palazzo in silenzio. Io e Michele andavamo all’università insieme. Condividevamo un appartamento minuscolo nel quartiere popolare. Le sbronze più grandi le ho prese con lui. Ci scambiavamo le mutande quando sbagliavamo a fare il bucato. È stato il primo a cui ho presentato Laura. Quando la portavo a casa fingeva d’uscire e andava a dormire in auto. Così ha detto al nostro matrimonio, io non me lo ricordavo. Adesso è calvo e zoppica per un incidente sugli sci in Val Gardena. Arriviamo in strada.
– Chi l’avrebbe mai detto, eh, Miche’?
– Cosa?
– Che sarebbe finita così.
Adesso è a lui che viene da piangere.
– Non è finita un bel nulla, smettila. Hai quarant’anni, sei giovane.
Mi accarezza come fossi una pianta. Io annuisco.
– Va’ da lui, dammi retta. E riposati.
Ci abbracciamo ancora, lo saluto. Lo vedo andar via, scosso. Giro e m’incammino anche io. Mi sento in colpa ad aver riversato tutto su di lui. All’angolo c’è un cestino. Guardo il fogliaccio con su scritto Dr. Antonio De Felicis. Lo accartoccio e lo getto via.

Se facessimo un figlio?
– Questo è gorgonzola?

– Credo sia burro aromatizzato. Allora?
– Un figlio? Tu non vuoi un figlio.
– Forse ho cambiato idea.
– È l’orologio biologico.
– È un pensiero strutturato.
– Ti scadono le uova? Le congeliamo.
– Non mi trattare come un’incubatrice.
– Questo è zafferano, buonissimo.
– Sì, mi sa che hai preso il piatto migliore.

– Però tu dopo hai la specialità: pasta patate e lumache.
– Le cuociono vive? Ho paura che le cuociano vive, poverine.
– È proprio un piatto esotico.
– Le lumache sono tradizionali.
– Forse mi sbaglio con le rane.
Tu lo vorresti un figlio?
– …
– Sono seria.
– Abbiamo appena fatto il mutuo per la casa.
– Ma lo vorresti?

Odio i bambini, Laura. E pure tu. Urlano, frignano e si cagano addosso.
– Quando saremo vecchi rimarremo soli.
– Prenderemo una badante filippina.
– Posso portare via?
– Grazie.
– Sì, grazie.
– Non ti rende migliore o speciale fare un figlio, lo fanno tutti, come la patente. Non è nemmeno etico; inquinamento, sovrappopolazione e tutto il resto.
– Sei un filantropo, adesso. Se nessuno fa figli l’economia collasserà.

– È la volta buona che accantoniamo il capitalismo.
– Filantropo e pure marxista.
– Adottiamolo. Prendiamolo grandicello. Così non ci distrugge la vita sociale.
– No, invece è proprio questo che mi ha fatto cambiare idea… Gli altri bambini sono odiosi perché sono odiosi i loro genitori,
ma un figlio nostro ci assomiglierebbe. Io ti amo. Sarebbe come avere un altro te.
– …
– Spaghettoni?
– Miei, grazie.
– Ravioli.
– Grazie.


Cammino fino alla rsa. È sera inoltrata. Saluto Giorgio della sicurezza, Susanna all’accettazione. Le faccio cenno di salire. Abbassa gli occhiali con la catenella, strizza gli occhi e mi sorride. Arrivo al terzo piano, sulla grossa porta tagliafuoco c’è scritto “Unità accoglienza permanente”. Maria è in corsia che rassetta i carrelli. Le dico che è una di quelle notti, mi sento solo. Mi dà grandi pacche sulle spalle. Andiamo alla camera di Laura. È sempre lì, nella solita posizione, una statua di cera. Crollo sulla poltrona accanto al letto. Maria mi dà un cuscino, controlla i macchinari, augura la buonanotte ed esce. 
Non so neanche dove iniziare. Realizzo che non la vedo nuda da cinque anni. Quando sei in coma invecchi diversamente. Niente rughe d’espressione, occhiaie o macchie sulla pelle. Perdi volume, ti sgonfi come un vecchio divano. I capelli perdono la piega, cascano come appassiti. I peli… Dio mio, l’avranno mai depilata qua dentro? Dal giorno dell’encefalite fulminante, Lucio e Francesca si sono opposti in ogni modo allo stacco della spina. Si sono offerti di pagare di tasca propria l’assistenza sanitaria. Strani i religiosi – vogliono incontrare Dio, e poi. Vengono qui ogni domenica, portano dei fiori e le parlano. Io non ci riesco.
Mi alzo di scatto e tiro via la coperta. Magari mi faccio solamente una sega. Così, per vedere se mi funziona ancora l’uccello. Forse non mi si rizza nemmeno. Vediamo che succede se la spoglio, mi dico. Un piccolo esperimento, niente di più.

Attraverso la stanza e chiudo la porta a due mandate. Tiro le tende attorno al letto. Mesi fa ho letto questa notizia – un infermiere di Phoenix, Arizona, arrestato per violenza sessuale. Ha messo incinta una paziente in coma da quattordici anni. Dopo la gravidanza, questa ha partorito un figlio sano. A me è sembrato un miracolo. Com’è possibile che un vegetale nasca qualcosa? Da allora non riesco a pensare ad altro. Non riesco a non pensare alla nostra ultima cena.
Le tocco un piede. È freddo. Scorro la mano sulla gamba, sperando di trovare calore. M’infilo sotto al camice, arrivo all’inguine – è gelida come un cadavere. Ho un brivido, mi ritraggo. Torno a sedere in poltrona e mi metto le mani nei capelli. E se venissi fuori, poi gliela sparassi dentro con una siringa? Mi rispondo da solo – è l’idea più cretina mai sentita. Guardo comunque attorno in cerca di un cucchiaio, un ago, qualsiasi cosa che sia d’aiuto. Non c’è nulla, solamente io e la mia idiozia.

Monto sul letto, le vado sopra carponi. Le slaccio i fiocchi del camice ospedaliero. Glielo sfilo attento a non staccare cannule, flebo, ECG. Le scopro il seno, ancora sodo, il ventre pulito, l’inguine e con orrore mi rendo conto che ha il catetere. Estraggo il cellulare e cerco “rimozione catetere vagina”. Comincio a sudare copiosamente. I risultati dicono che basta tirare. Mi si appanna la vista, mi viene da piangere. Non ce la farò mai. Getto il cellulare a terra e comincio a soffiare per allontanare un attacco di panico. Ormai è fatta, penso, sono sopra mia moglie nuda in coma da cinque anni. Afferro il tubicino che le spunta tra le gambe. Trattengo il respiro, sérro gli occhi e tiro, lentamente. Il catetere sguscia dolce, come un wurstel. Salta fuori lasciandosi dietro un rigagnolo giallo. È fatta, non mi sembra vero.
Guardo Laura, immobile, serena, come una statua da cimitero. Il suo corpo è ancora sensuale. Ha i fianchi di una ragazzina, le areole del seno piccole e scure, un lieve solco addominale. Mi ero dimenticato quanto mi piacesse. L’orrore della malattia ha cancellato tutto. Sento un’erezione nei pantaloni. Mi libero malamente dai vestiti, sputo sulla mano, mi bagno e mi butto su di lei. Sento il suo respiro. Le annuso il collo. Il suo odore non è cambiato – ricordo serate passate sul divano, abbracci al riparo dall’inverno, sesso sudato. La bacio sulle labbra. Le dico, per la prima volta dopo anni, ti amo. Ed entro. Stringo il materasso, stringo lei, ripenso a quando lo facemmo in un camerino, in un garage sotterraneo, a quando lo facemmo la prima volta in cucina, in piedi, davanti ai fornelli. La sento bagnarsi a ogni spinta, ho l’illusione sia viva, che risponda, che goda. Vengo, mi svuoto completamente. Affondo il viso nel suo cuscino e scoppio a piangere.
Quando finisco di singhiozzare scivolo via. Adesso ho vergogna.
Mi rivesto frettolosamente. Cerco di rivestire anche lei, la ricopro, faccio un casino. L’accarezzo e corro via. Evito chiunque, esco da un’uscita d’emergenza. Corro fino a un parco, cerco la panchina più buia e mi accascio. Rimango attonito per ore. Passa qualcuno con un cane. Una coppia allegra. Nessuno fa caso a me. Vorrei che fosse così per sempre, vorrei sparire.
Alla fine vedo il cielo schiarirsi. Che la notte sia finita mi rincuora. Se anche questa notte è passata, tutto passerà. Mi alzo in piedi e sorrido.

Sarò padre.


A illustrare: nello snippet, ashley.adcox, She was waiting to fall (https://flic.kr/p/5MNW83); nella pagina, Sophia Louise, Comatose (https://flic.kr/p/dPxbVK)