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Napoli non muore mai

Autore
Giulio Iovine
Ciclo #11 - Spaghetty Dialetty
Narrativa generale
15/09/2022

All’inizio della guerra, Arianna aveva accompagnato all’aeroporto di Capodichino suo cugino Pierpaolo, deciso a rifarsi una vita in Canada prima che (parole sue) le bombe si mangiassero l’Europa e tutto il resto. Per i primi cinque anni di conflitto il suo calcolo sembrò avere senso: il Canada pareva tutto sommato illeso, mentre Arianna affrontò da sola i bombardamenti, i saccheggi, le ronde punitive, i litigi per le distribuzioni di viveri; andò sola in giro per il centro con la pistola in vista per non essere aggredita da vagabondi o disperati, sola a contare le pillole anti-radiazioni per la dose quotidiana. E, come tutti, perse molti amici sotto le macerie di un palazzo, o freddati da un mitra.

Ma arrivò il sesto anno e nessuno parve capirci più nulla. A marzo gli aggressori decisero di tirar fuori dall’armadio le bombe vere e cliccarono il pulsante. Non si videro altro che bagliori e aurore radioattive all’orizzonte – la Terra dimenticò l’esistenza della notte. A forza di radere al suolo obiettivi civili e militari, cominciarono a non funzionare le cose che davamo per scontate: Internet era saltata, nessuna emittente televisiva o radiofonica trasmetteva più, e sempre meno uffici governativi rispondevano al telefono. Un amico di Arianna era riuscito a intrufolarsi nel palazzo dell’INPS vicino a via Toledo, e lo aveva trovato abbandonato da anni. Notizie da fuori Napoli ne arrivavano sempre di meno – e nessuna dal Canada; Pierpaolo a un certo punto smise di rispondere a sua cugina, che passò un anno a mangiarsi le mani per l’angoscia. Un giorno di giugno, dopo una settimana di scirocco dalla Tunisia, cominciò a nevicare.

La mattina del 2 luglio Arianna si alzò presto e intabarrata nel suo cappotto che mai prima aveva usato, se non quando andava con Pierpaolo in Alto Adige, marciò fino a Sant’Agrippino a Forcella lungo Spaccanapoli, per la razione di pane e qualche cosuccia che il comune riusciva ancora a dare. Tirava un vento come una lama nella carne, ghiacciando la neve caduta; il cielo si era messo a dormire sotto un piumone grigio e vaporoso.

Si trattava – come ogni volta – di stare in piedi per un paio d’ore, magari distraendosi un po’ con un libro (quelli vecchi, di carta: richiestissimi, perché il digitale era rotto o costava troppo), prendere nella sporta quello che ti davano, voltare la capa al cavallo e tornarsene chiotti chiotti a casa, poco prima di San Gregorio Armeno. Arianna, avvilita dalle lunghe privazioni, sentiva di camminare sempre più lenta, attraversando ere geologiche in pochi metri, ridotta a un fantasma nella sua città sventrata.

Eppure, arrivata davanti alla porta di casa, non se la sentì di salire. Procedette dritta fino a piazzetta Nilo, per vedere se al mercato nero si trovavano un paio di cipolle per la frittata.
C’erano in giro poche decine di persone tra Nilo e Piazza del Gesù, in fila dietro bancarelle e negozi di fortuna ricavati negli scheletri degli edifici distrutti. Da Puok si era sistemato un suo conoscente che aveva l’orto su al Vomero. Liborio ci scherzava sempre, diceva che le sue galline erano galline di lusso. Per meno di duecento euro (e Liborio ne volle metà in oro) Arianna riuscì a prendere quattro cipolle rosse, due uova di quaglia e un bicchiere di vino caldo speziato, che si fermò a bere lì accanto al negozio per sentire che si diceva in giro.

Cominciarono a scendere pochi fiocchi di neve, sbatacchiati qua e là dal vento. Alzando gli occhi, si vedeva in cima al monte la carcassa dell’An-124 Ruslan schiantatosi sul Vomero tre anni prima, coi suoi trenta soldati a bordo. Arrivò un tizio dal rione Mercato.

– Ciao uagliu’.

– Ciao Ciro.

– Ma è vin brûlé quello?

Ne comprò un bicchiere da Liborio, e poi:

– È passato a casa mio fratello, giù dall’Eremo di Camaldoli. Dice che ormai sono due giorni che all’orizzonte non si vede niente. Né luci, né aerei, né mezzi.

– Nemmeno le autostrade…?

– Deserte.

– Avessero mica fatto pace?, domandò Arianna con un filo di voce.

– T piacess, ribatté lui.

– Ma foss a maronn, rincarò Carmela, con sulle spalle un trancio di cavallo crudo. – Pe mme chesta è stata la terza guerra mondiale, accussì, bbell e bbuon.

– Muri’ tu, è o ver. 

Arianna salutò e si incamminò verso casa, col bicchiere ancora fumante. Lo finì alla goccia. Fu fermata da Gianni, che guidava il camioncino dei viveri e ogni tanto aveva le mozzarelle. Le venne incontro da non so che vicolo, saltellando sulle stampelle – probabilmente la protesi alla gamba destra gli dava un po’ fastidio.

– Ari?

– Oi.

– Haje cecat addò sfaccimm sta a guagliona mea?

– Non vedo Luisa da ieri.

– Wanm. L’agg mannata roje or fa ngopp o museo pe cercà coccos ca se po accuncià.

– Ho avuto notizie da Ciro, uno del rione Mercato, poco fa a piazzetta Nilo. Dice che ultimamente è tutto tranquillo.

– Speriamo, rispose Gianni, passando all’italiano senza ragione, come un po’ tutti i napoletani di quegli anni. – Se la vedi, dille che sono andato a cercarla.

E proseguì verso il suo camioncino parcheggiato sul marciapiede, con la tanica di benzina incatenata alla ruota posteriore perché non se la rubassero. Ma prima di svitare il tappo e metterne un po’ nel serbatoio, si voltò e gridò ad Arianna:

– Statt accorta quann te ne vaj pe e vicariell a San Gregorio Armeno, chill c sta Guido che è asciuto pazzo.

– Don Guido? O prevt?

– Iss.

– E che ten e ricr?

– Va ricenn che è addiventat papa.

– Wa. Dio ossap e a Maronn o ver.

– Proprio. Ciao Aria’.

– Ciao.

Arianna buttò il bicchiere nel primo cestino che trovò e proseguì verso casa, la sporta che le pesava a tracolla sulla spalla destra. All’atto di aprire il portone, qualcuno la fermò da dietro e le tirò l’orlo della giacca. Era stato talmente silenzioso che non se ne era accorta, cosa strana per quei tempi. Si voltò in una frazione di secondo puntandogli la pistola alla tempia.

– Non voglio farti del male, disse lo sconosciuto.

– Ma chi t sap, rispose Arianna.

– Come chi t sap. Ti ho battezzata.

– Don Guido…? O prevt?

– Iss.

– Maro’. Ma che ti salta in mente di farmi l’agguato così?

– Aria’, non c’è tempo per le chiacchiere. Sto reclutando.

– …reclutando chi?

– Fedeli. Aria’, il momento storico è senza precedenti. Non ci sono notizie da Roma da tre mesi.

– Se è per questo, nemmeno da Caserta.

– Nun fa a scema pe nun ghi a guerra. Nun tenimm cchiù niente a che spartere c a cchiesa e Roma. E mo chi s o vvere che prievet aropp ca o vescovo schiattaje sott a sfravecatura stess e ll’Arcivescovado?

– …vuoi farti vescovo tu?

– No, che vescovo.

E le sussurrò all’orecchio:

Papa. Papa Gennaro I. Il Cristianesimo riparte da Napoli, Aria’. Vien cu mmic e ascimm afor a l’Apocalisse.

Arianna, che aveva ancora la pistola puntata, premette il grilletto. Bang! Il proiettile si piantò nella coscia di Don Guido, che mandò un urlo allucinante e si portò la mano sulla ferita.

– A FESS E MAMMT MA CHECCAZZO FAJE

– La prossima volta miro alla testa. Che fai, insisti o ti levi dai piedi?

Lasciando una scia di gocce di sangue, Don Guido zoppicò via. Arianna rinfoderò la pistola ed entrò nel portone di casa sua.

Bell e tiemp e na vota!, che casa sua era un appartamento in un antichissimo palazzo napoletano, con una corte interna, fontana con putti e anfitriti, e aiuola di rose in un angolo. Metà del palazzo era caduta giù con le bombe di due anni prima, portandosi via buona parte degli appartamenti sotto una tomba di pietre e metallo. L’altra metà aveva perso almeno una parete, tanto che Arianna, che viveva in uno di quegli appartamenti, si sentiva come un’acciuga sott’olio in una scatoletta lasciata aperta in frigo. In quell’ala rimasta in piedi restavano due famiglie oltre a lei. I muri erano sottili e i silenzi profondi – il cigolio della porta, pochi passi dal letto al bagno, un biscotto masticato facevano eco per tutto il quartiere. Arianna girò la chiave nella toppa ed entrò finalmente in casa.

Le cadde la borsa di mano per lo stupore, e non trattenne un grido. D’istinto puntò la pistola a due mani, urlando di tenere le mani in alto e bene in vista.

Lo sconosciuto sedeva di spalle sul pavimento di casa, proprio sul lato dove la parete era venuta giù. Dondolava le gambe nel vuoto, figurina nera sullo sfondo del cielo grigio e nevoso del centro di Napoli ridotto in pezzi, delle colline sul golfo bianche e nere. La visuale era talmente rettangolare che per un attimo le sembrò che fossero al cinema. Quando lo sconosciuto si voltò, ad Arianna cadde la pistola di mano.

– Pierpaolo, esclamò, e corse ad abbracciarlo.

Lui ricambiò l’abbraccio con la forza di un neonato. Arianna sentì le sue ossa tra le mani. Aveva graffi sulle braccia e sulle palme: si era arrampicato lungo la grondaia.

– Mi ero presa un colpo. Pensavo fossi morto.

– Quasi.

– Bisogna che mangi qualcosa. Poi mi dici tutto.

– Sì, ti prego. Non reggo più.

Arianna attizzò il fuoco nel caminetto dall’altro lato della parete. Tra Sant’Agrippino e il mercato di Liborio aveva mezzo chilo di pane, un etto di pollo, due patate, due uova di gallina, un cespo di insalata, due uova di quaglia e tre cipolle. Mise sul fuoco tutto quel che poteva e condì il resto; ne fece un mappazzone e lo divise con suo cugino, cui diede anche un piumone per scaldarsi un po’. Sedettero a tavola mangiando come disperati, in apnea; poi Pierpaolo raccontò.

– A gennaio hanno cominciato a piovere missili sul Canada. Abbiamo resistito due giorni, poi il black out. C’erano le bande per strada. Abbiamo chiesto aiuto alla polizia, ma metà si era unita alle bande e metà era morta. Ho preso i soldi e sono fuggito.

– In aereo?

– No, magari. Un tizio è passato sul San Lorenzo con una nave e ha raccolto i profughi, un milione di dollari a testa chillemuort. Siamo passati fino in Scandinavia da nord, e poi scesi a terra in Olanda. Da lì me la sono fatta un po’ a piedi, un po’ rubando macchine.

– Quindi qualcuno ancora c’è in giro.

– Pochissimi. Sono passato per Parigi, Lione, Torino, Roma. Tutte schiantate o abbandonate. C’è ancora qualcuno nelle campagne, quello sì. È per questo che ce l’ho fatta a venire fin qua. È stato tutto così improvviso che c’erano ancora macchine, benzina e cibo.

Finito di mangiare, andarono a mettersi col piumone accanto al fuoco che si spegneva. Pierpaolo non riusciva a smettere di tremare.

– Il peggio sono le piogge. Ora al nord sono quasi tutte acide. Non cresce niente e ti cadono i capelli se stai troppo senza ombrello.

– Qui ancora riusciamo a coltivare.

A Pierpaolo sfuggì suo malgrado una smorfia benevola.

– Già. A Napoli siete ancora un bel po’ di gente. Ho incontrato tanti vecchi amici. Non so perché, non me lo aspettavo.

– Ma non lo sai?

– Cosa?

Arianna inspirò.

– Napoli non muore mai. Napoli è eterna.

Pierpaolo guardò il fuoco come se volesse buttarcisi dentro.

– Non so, Aria’. Stavolta è proprio brutta. Forse non la scampa nemmeno Napoli.

– Ma sì che la scampa, mormorò Arianna. – Tu l’hai scampata.

– Sì, vabbè. Per puro culo.

– Ma no. È che sei napoletano e a Napoli conosciamo la formula.

– Quale?

– Nun t arricuord? A verevem a Vvittorio Emanuele, quann jevem a ce piglià a Cumana pe ji a vverè o Napule.

Pierpaolo fece uno sforzo; e quando ricordò, rise – rise male, come se avesse avuto un attacco d’asma, ma rise.

– We guaglio’ aro vaje, cumpuortate bbuon, disse.

– Dio ossape chell ca faje, completò Arianna. E poi:

– Vedi? Basta dar retta alla formula magica. E vedrai che ne usciremo.

E preso l’attizzatoio, mosse le braci per ravvivare la fiamma.


Il napoletano di questo racconto è stato verificato o direttamente fornito dall’amico Francesco Pelliccio, parlante nativo del quartiere Mercato. Grazie Skypell, sei eterno come Napoli.

A illustrare il racconto, due foto di Paul Keller. Il suo photostream è visibile su https://flic.kr/ps/h8RWo