Posada Mirador
Non conosco il nome della donna con cui divido il terrazzo alla Posada Mirador, ma so che prima del calare del sole diventeremo amiche. L’ho osservata a lungo nelle ultime ore, nel tragitto per Isla Holbox, e in lei ho visto la versione migliore di me. La verità è che, in Messico, per quanto uno si sforzi di guardare le cose per come appaiono, avrà sempre la sensazione di non averle viste per intero; questo posto è come un caleidoscopio, dove le forme si scompongono e ricompongono continuamente, in un gioco di riflessi e illusioni. È un Paese di morte, e i turisti se ne vanno a Holbox perché è un’eccezione. La morte, sull’isola, esiste solo nei murales in technicolor; oltre le pareti c’è gente che vuole riposare e che scatta foto in bikini con la didascalia pura vida, e stringe amicizia con altri viaggiatori che indossano i loro stessi raiban e le loro stesse hauaianas, certificato di garanzia dello status di vacanzieri. Nel resto del Paese, i morti non vestono grandi marche e il guardaroba dei vivi è fatto di tarme e speranza. Anche la donna della terrazza sa che questo Paese ti spoglia di ogni certezza, ti veste di colori vivaci e ti schiaffeggia con i suoi contrasti. In Messico, strade e cadaveri sono due concetti che camminano in coppia, tanto che qualcuno ha preso a dire che, il suo, è un popolo adagiato sopra una gigantesca fossa comune. Holbox è una parentesi luminosa che, con le sue sponde sinuose e pulite, taglia i ponti con le storture della terraferma.
La donna della Posada Mirador è diversa dagli altri, viaggia sola, e questo la rende attenta alle immagini che le sfilano davanti. L’ho vista guardare con disprezzo gli yankees che si facevano lustrare le scarpe da un ragazzino, mentre con una mano gli lanciavano monete e con l’altra davano briciole ai piccioni. Ho visto il sorriso con cui contemplava il vecchio barcaiolo dalle spalle curve e il profilo da gitano. Quel sorriso mi ha contagiata e ho deciso di farlo mio finché non andrò a parlarle. Ma non è ancora tempo, nel terrazzo del Mirador mi godo il panorama un’inquadratura alla volta: il mare bianco e l’ultima luce del giorno che si infila nei palmeti; le nuvole che scivolano via in fogli sottili; il pontile dell’imbarcadero che attende la sera, sicuro di poter godere del fresco abbraccio del Mar de Caribe per il resto dei propri giorni. Noi, che non abbiamo il lusso dell’eternità, allunghiamo le teste per accogliere la notte, masticando bocconi di tabacco, umidità e mosquitos. C’è uno di quei tramonti del colore dei frutti maturi: un rosso ciliegia e un arancio albicocca che ti illudono di vivere in uno stato di perpetua vacanza, di felice convalescenza. Mi accorgo che ha gli occhi lucidi, e potrebbe essere questo il momento di alzarmi e sfoggiare la filosofia spicciola imparata nei testi dei grandi esploratori, che si muovono sicuri per le vie del mondo con in tasca un haiku per ogni occasione. Ho letto anche di spiriti, maledizioni e brujerías, ma glielo farò presente più tardi. Ora le direi che finché ci saranno persone capaci di commuoversi per un tramonto varrà la pena guardare l’orizzonte, ma la citazione suonerebbe stonata e un poco sciocca, al punto che finirei col chiederle se ha visto l’uomo morto sopra al cavalcavia di Chiquilà. La bocca è carta vetrata e la voce non esce, non ho una vera conversazione da ore. Meglio non parlare, altrimenti mi dirà che sono pazza e quell’uomo l’ho sognato, che dovrei riposarmi, perché così fanno tutti, a Isla Holbox. Allora le risponderei che no, il morto c’era, te lo giuro, l’ho fotografato con la mia reflex, e io comunque non sono quei tutti, sono diversa, io ho i vestiti second hand e ho lavorato un’estate intera per potermi permettere una settimana di ferie. Però ho visto un uomo morto sul ciglio della strada, gettato con la noncuranza riservata ai sacchi dell’immondizia; un contenitore di carne e di ossa, lasciato a deformarsi attorno agli oggetti incontrati nell’urto: il bordo del marciapiede, le pieghe del guardrail, lo spigolo di un ferrovecchio. Gli ho fatto una foto, perché volevo il mio piccolo souvenir della tragedia e perché qua la morte non mi riguarda. Io sono di passaggio, e nell’andare ho preso tutto, anche quello che non mi appartiene. Le parole non-mi-appartiene sono uscite ad alta voce, con lo scoppiettio di un bicchiere crepato; la donna non ci fa caso, continua a ignorarmi. Temo che non diventeremo mai amiche e che non cammineremo mai assieme incontro all’orizzonte, con le nostre birchennstocc ai piedi.
Oltre la banchina, la sera scende a saracinesca. Dentro il perimetro dell’isola rimangono i neon di bar e ostelli; alcuni fari illuminano la nostra terrazza, che pare trasformarsi in palcoscenico dove lei è una marionetta e io sono la sua controfigura dai tratti grotteschi. Sotto i riflettori mi sento pallida, sono di tinta bianco turista, sono talmente trasparente che potrei scomparire. Ma pensa che buffo, se scomparissi non saprei dove andare, sono arrivata qui pensando di saperla lunga, e se le mie colleghe me lo chiedessero direi che il loro è stato il migliore dei consigli. Dovresti andarci anche tu a Isla Holbox, ti cambia la prospettiva, ti sentirai bene dopo, mi dicevano.
La donna è lì, con i suoi occhi lucidi e il suo silenzio. Mi somiglia, potrei essere io, noi pinche gringos in fondo ci assomigliamo. Starà pensando all’uomo morto sul cavalcavia? Forse il ricordo l’ha pietrificata, o forse non l’ha visto, o forse non esisteva. Me l’hanno detto in molti che vivo di fantasie.
È scesa la notte, e dall’entrata dei ristoranti si sparge il profumo del mariscos pregiato, mantecato nel lime e nelle salse gourmet. Dai cortili interni delle cucine, lontano dai nasi dei villeggianti, stagna l’odore di verdure cotte, pesce vecchio e olio esausto. Mi tappo le narici e immagino il puzzo dell’uomo di Chiquilà, fermentato per ore sotto il sole tropicale.
Le orecchie si abbuffano di musiche chiassose e di sinfonie scomposte, con Jack Johnson che fa a pugni con la cumbia, la marimba col reggaeton, e io non riesco a fare a meno di chiedermi: a quale patologia è associata la convinzione che il reggaeton sia una musica ascoltabile? Tra le voci in strada distinguo varie lingue straniere, qualcuno chiede del fumo in uno spagnolo ossidato, qualcun altro risponde go fuck yourself in un perfetto inglese. Le onde del mare fanno la ola, i flash dei cellulari raggiungono la battigia, e l’acqua brilla delle luci dei club. La gente cammina a piedi nudi, ride a bocca aperta, balla a occhi chiusi; io sono già altrove e loro sono qui, in questa oasi da sogno dove la morte ha dimora esclusiva nelle t-shirt con la calavera, vendute nelle botteghe dai nomi accattivanti di Viva Mexico e Artesania Tropical. La morte con la M maiuscola si è fermata sulla strada di Chiquilà, aggrappata a quel corpo grasso, seminudo e volgare, che ostenta il proprio decesso tra le bottiglie vuote e gli avanzi di un comedor, alla mercé degli sguardi di noi buone anime venute a far circolare l’economia in infradito e bermuda, col desiderio che il nostro denaro possa tenerci lontani dallo sporco e dalla miseria. Nelle sue cicatrici è impresso un alone premonitore di mala suerte, i suoi lividi sono macchie deformi e irregolari, che ricordano quelle dei test di Rorschach, tanto care ai terapeuti che frequento.
I miei pensieri non hanno né capo né coda, si manifestano in uno stato gassoso, li vedo unirsi alla condensa appiccicata alle finestre, chiuse per non far uscire l’aria condizionata. La donna della terrazza sospira e si porta sul bordo della ringhiera, stende le dita e le schiocca una per una. Hey, lo faccio sempre anch’io, mi verrebbe da dirle se avessi fiato. Mi scopro muta, è stato il morto: è lui che mi ha maledetta. Devo cancellare la sua foto. Cerco la reflex e non la trovo: è appesa al collo della mia compagna di viaggio. Non la sopporto più, non dovrebbe rubare dal mio zaino e non dovrebbe stare seduta con le gambe a penzoloni, sospesa sopra quattro piani di altezza. Mi affaccio accanto a lei, un ciuffo le cade dalla coda e vorrei sistemarglielo, noto che i suoi capelli sono scuri e ricci, uguali ai miei, e allungo il braccio per toccarglieli. Neanche i muscoli obbediscono. Si avvicina, mi guarda negli occhi, li riconosco: li ho già visti in tanti specchi. Mi passa attraverso, deglutisco una pallina di muco e la saliva striscia giù lenta, come un pezzo troppo grosso di torta Margherita.
Io non ci volevo venire in Messico, ma le mie colleghe mi hanno detto che era bello, che mi sarei calmata, che conoscere persone nuove mi avrebbe fatto sentire meno sola. Ed è stato magnifico finché non ho fotografato il morto e un ingranaggio dentro di me si è rotto; in quella lesione si è insinuata una puta maldición che mi sporca e mi infetta, mi tormenta e mi manda in cancrena.
«S-e-i m-a-l-a-t-a» scandiscono le labbra della donna, che si muovono ma non producono alcun suono. «L-o s-o» bisbiglio io.
I bar hanno chiuso e Isla Holbox galleggia in un buio senza contorni. Il silenzio è totale, mi viene il dubbio di essere diventata sorda. Mi mette a disagio la quiete, è per i depressi i paranoici e gli ansiosi: gli stessi aggettivi che compaiono nelle note del mio medico curante. Non voglio pensare a lui, gli ho promesso che avrei trovato distrazioni palliative, tra cocktail fluorescenti e sorsate di acquamarina. Invece ho trovato la versione migliore di me, e ci ho costruito attorno decine di universi possibili e fantastici; non sono benvenuta in nessuno di questi e allora la lascio camminare da sola verso l’orizzonte.
La donna della Posada Mirador porta il mio nome, balla per aria leggera e sorride mostrando i denti alla luna. Un giorno dirà alle sue colleghe che avevano ragione, che si sta bene qui, e che è tiepida la sabbia dopo il calare del sole.
A illustrare: foto di Nikolaos Gavrilakis