Spaghetti alla puttanesca pt.1
La telecamera inquadra lo schiaffo di chef Gaudì nell’esatto momento in cui si infrange sul tavolo dello studio. La conduttrice ha un sussulto.
«Borioso frocione a chi, mentecatto?!»
«A te, cojo’. A chi sennò?»
Le guance dello chef sono rosse di rabbia.
«In vent’anni che faccio questo mestiere non avevo mai conosciuto uno zotico, incivile, incompetente, ignorante…»
«A fracico’, accanna, s’è capito!»
La regia stringe su Diocleziano: lo chef resta composto nella sua camicia arrotolata fino ai gomiti, da cui spunta un mosaico di tatuaggi che ricopre entrambe le braccia.
«Er duro vallo a fa’ ar cesso, che te scoppia er core» aggiunge, «Statte zitto Gaudì, gli spaghetti alla puttanesca non so’ pe’ tutti.»
Gaudì sembra calmarsi, replica con voce controllata: «Se fai la puttanesca come la racconti, poveri i tuoi clienti.»
«Almeno io non racconto fregnacce.»
Ci sono talk show dove la gente si mena in diretta. Padelle in fiamme in teoria non è uno di quelli: si commentano ricette, si prepara cibo, si fa ciao alla nonna che guarda da Gallarate, tutto molto tranquillo. Conduce quel bravo animale domestico di Mariella Menchelli, nota al pubblico di casalinghe per I fatti sporchi. Il battibecco con schiaffo sul tavolo di Gaudì è decisamente un fuori programma che Mariella potrebbe essere impreparata a gestire. Nello studio sfigato della seconda rete nazionale, una luce neutra illumina tre sedie disposte a triangolo intorno allo stesso tavolo di cristallo che Gaudì ha quasi incrinato.
«Non credevo ci si potesse arrabbiare tanto per un sugo.»
Questa ovviamente era Mariella, che lascia scodinzolare di gioia lo chignon biondo al pensiero dell’audience che sarebbe schizzata alle stelle dopo quella sfuriata – senza contare le reaction su Youtube, i video su TikTok – una valanga di like e pubblicità gratuita per il suo programma. Lo avrebbe potuto trasformare in un trend: proporre un format di battaglie culinarie di cui lei sarebbe stata l’arbitro. Ma quale arbitro, giudice. Macché giudice, REGINA.
E già vedendosi su un carrozzone tutto per lei al prossimo Pride, struscia le cosce sulla poltrona.
«Un sugo non è da meno di un’opera d’arte» sentenzia Gaudì, che tenta di darsi un tono sistemandosi sul naso la montatura degli occhiali.
«La prima roba sensata che te sento di’.»
Primo piano sugli occhi glaciali di Diocleziano che si inchiodano sulla conduttrice.
«Dottore’, dietro ogni sugo c’è ‘na storia» prosegue lo chef romano.
«Solo che la tua è sbagliata!» sibila Gaudì, che non ne vuole sapere di mollare la presa.
«Aridaje! Sei tu che vendi zozzerie da segaioli pe’ cultura.»
«Signori vi prego, non obbligatemi a mandare i consigli per gli acquisti.»
Quali consigli per gli acquisti, scannatevi!, implora col pensiero la conduttrice, in pieno orgasmo da share.
«Queste zozzerie per segaioli, come dici tu, hanno fatto guadagnare al mio ristorante ben quattro stelle Michelin e un Gambero d’oro alla carriera. Senza contare che i miei spaghetti alla puttanesca sono rinomati anche a Singapore, mentre non mi risulta che i tuoi vermicelli sporchi vadano oltre Rebibbia.»
Diocleziano scoppia a ridere.
«E mica devono anna’ più in là. Ma lo vedi che tutto il giorno a pensa’ alle stellucce te ingolfi? Sei tutto gonfio, cor fiatone, c’hai er sudore che te cola pure dall’occhiali…Gaudì, devi scopa’, dai retta a me. A Rebibbia manco sanno ‘ndo sta Singapore ma se scopa ‘na cifra. Vero Dottore’?»
Chiamata in causa, Mariella, sperando che la cosa diventi virale, fa la gnorri: «Non saprei…»
Ma certo che lo sa. Tutti gli onorevoli la portavano lì o alla Garbatella ai tempi d’oro.
«…mi coglie davvero impreparata.»
E com’era buona la cacio e pepe alle quattro di mattina dopo una notte di sesso rubato alla signora onorevole.
Gli anni Ottanta erano Bengodi, altroché.
Gaudì non replica subito alla provocazione del collega. L’odio gli sfigura la faccia con i colori di Fantozzi dopo il pomodorino: rosso, rosso pompeiano, arancio aragosta, ma ecco sedimentarsi il rancore, legato stretto come un rollè di vitello al latte, da irrorare con una crema all’astio e al disprezzo.
Raggiunto un adeguato bilanciamento tra le più saporite pulsioni omicide, risponde: «Tutto il sesso che millanti non vale una forchettata della mia puttanesca. Tu scopi per strada, io faccio l’amore a tavola.»
Diocleziano si irrigidisce. Che sia stato finalmente toccato?
«Mi sa che sei rimasto ai tempi de Pappagone, a coso. Come se fa’ a scopa’ senza fa l’amore?»
La camera coglie un sorriso sulla bocca di Gaudì.
«Vedi? Tutti quei tatuaggi, quell’aria da uomo vissuto, e poi basta una battuta e viene fuori il piagnone. Sei un tenerone, un orsacchiotto coatto. Per questo la tua puttanesca è poca cosa: perché è moscia, come te.»
L’inquadratura si allarga su Diocleziano che stringe i pugni sulle ginocchia.
«A Diocleziano moscio non lo dici.»
La conduttrice, che si accerterebbe volentieri di cosa sia moscio o meno, corre ai ripari: «Sia chiaro che mi dissocio da queste insinuazioni.»
«Dilla ‘mpo’ sta stronzata sulla puttanesca, fenomeno.»
Gaudì incrocia le braccia.
«Mi ritengo un gentiluomo al contrario tuo: non mi piace parlare di sconcezze davanti a una signora.»
«No, la prego, lo faccia.»
Ecco la signora.
«Il pubblico del nostro programma ama conoscere i segreti di voi chef.»
Lo chignon sta tutto in sollucchero, mentre col tacco dodici scandisce il tempo, picchiandolo a terra.
Gaudì ha la faccia di uno scacchista che si vede muovere davanti la mossa prevista con quattro turni di anticipo. Lascia correre i secondi, si guarda le unghie, finge un colpetto di tosse, dopodiché – sornione – comincia con: «Considerata la soglia di attenzione della betoniera qui presente, farei meglio a farla breve. Ma poiché so che il pubblico merita tutta la verità – e d’altronde la storia della pasta alla puttanesca la so io e non la betoniera – ecco la veramente vera, viziosa, porcina storia della pasta medesima.»
La puttanesca l’ha inventata un romano de Roma. Ma non lo fece in Italia. All’epoca, se poco poco inventavi un nuovo modo di fare la pasta, o lo facevi tra le mignotte al porto o in qualche palazzo. Il nostro – l’inventore intendo – si chiamava Fernando Almiraghi. Era un cuoco e conosceva molti tipi di pasta e altrettanti condimenti; ma voleva farla in un palazzo e non tra le mignotte. Siccome a Roma non ti perdonano mai le ambizioni, lo picchiavano spesso, e quando s’imbarcò per l’America nel 1730 aveva il naso rotto in tre punti, zoppicava e gli facevano malissimo le coste a inspirare. Finì nella Nuova Francia, al séguito di non so più che battaglione che andava a malmenare gli irochesi al Nord, e spesso le prendeva. Nel 1748 ebbe la fortuna di sbattere il naso in Gilbert Guillouet D’Orvilliers, un soldato francese poco più giovane di lui, in visita a New Orleans, che assaggiò un piatto della sua pasta e lo volle con sé nella Guyana Francese, dove era stato promosso quell’anno a governatore. I due approdarono a Caienna il 27 novembre 1749.
A Caienna, Almiraghi fu avvisato da D’Orvilliers che palazzi non ne avrebbe trovati: la colonia era piccola, solo quattrocento bianchi e settemila schiavi di colore. Almiraghi, per parte sua, rispose che dopo tanti anni a prendere calci in culo dagli Irochesi si era disamorato dell’aristocrazia e ora aveva solo una cosa in testa: le mignotte.
Gratis, se possibile.
Ne trovò tantissime: le bianche venivano dai migliori bordelli di Parigi, irretite dalla prospettiva di sposare un colono, le mulatte e le guianesi, più disilluse, avevano imparato a organizzare festini e orge proprie anziché aspettare che li organizzassero i coloni, mantenute da generali, ammiragli e governatori, vivevano in villette riccamente arredate, ricevevano una clientela selezionata – tra le prime a imporre il profilattico in pelle di maiale, che assestò un duro colpo alla sifilide. C’era in centro a Caienna una casa per i più ricchi e per i visitatori illustri, finanziata da D’Orvilliers in persona, a cui però mancava il cuoco. D’Orvilliers vedeva il futuro: intuiva che la cucina francese era un orribile scherzo e che solo gli italiani sapessero stare ai fornelli. Per meglio mantenere il suo potere e gestire i rapporti con Parigi, aveva da tempo capito che la passera rendeva tutti più disponibili. Voleva un italiano per nutrire i suoi pagliacci e le sue puttane e, poiché pagava bene, lo ebbe fedele ed efficiente per tutti i tre anni del suo governatorato.
Almiraghi, che all’epoca vantava un bel personale e a differenza di molti cuochi non era sovrappeso, si trovò quindi letteralmente con il naso nella gnocca per un buon terzo della sua giornata. Non fu solo il fisico a premiarlo, ma anche il talento: le ragazze erano contente di mangiare i suoi piatti e lui, sdraiato gnudo accanto a tre creole che fumavano tabacco e rollavano le foglie sui suoi addominali, non poté non diventare una persona meravigliosa e a modo, ed essere ancor più benvoluto. Il mondo gli appariva bellissimo, sdraiato lì. Conosceva tutte le ragazze per nome e per ciascuna aveva un nomignolo cuciniero: cipollina, limoncello, grano di pepe, cucchiaio di panna, fiocco di crema, pomodorino, bonbon. Anche loro avevano cominciato a dare soprannomi a ogni parte del suo corpo e, dopo tre anni di permanenza, avevano chiuso nelle loro delizie ogni centimetro quadrato del cuoco.
Giunse in visita un plenipotenziario di Luigi XIII (il cui nome taccio a motivo dello scandalo), con al séguito un fitto entourage di nobili di toga e di spada, marescialli e persino quel Luigi di Borbone, secondo duca di Vendôme, che al ritorno dal viaggio a Caienna sarebbe stato ordinato cardinale. Il plenipotenziario, prima di iniziare le trattative con D’Orvilliers, pretese almeno una settimana di riposo per lui e per il suo séguito, stremato da una pessima traversata dell’Atlantico. D’Orvilliers si sentì sotto esame e passò la pratica ad Almiraghi, chiedendogli di nutrirli bene e, se poteva, fare gli onori di casa con le demoiselles (le chiamava così).
Con meno un’ora a disposizione, Almiraghi pensò a una pasta che potesse arrapare un francese. Il piatto doveva sapere di carne di femmina, irretire con il suo profumo, lo stesso profumo del clitoride ciccioso di una mulatta coi capelli corti. Ci voleva il pomodoro, che rende aggressivi, e in più era un figlio di quell’America umida e popputa. Ma ci voleva anche il sale, e quindi dai con acciughe capperi e olive, perché sono pur sempre italiano (pensava). Aglio e olio, ça va sans dire. E il peperoncino, così gli sarebbe venuto duro come il marmo. E la pasta? Spaghetti ovviamente, ché la pasta normale cade ovunque su un piano inclinato, gli spaghetti, specie se ben cotti, rimangono dove li metti. Preparò una decina di chili di questa pasta, che battezzò seduta stante alla puttanesca. Fece portare le pentole in sala da pranzo e servire a tavola dalle migliori ragazze della casa, vestite di tutto punto ma con le tette di fuori. I commensali furono contentissimi, solo Luigi di Borbone continuava a farsi il segno della croce. Poi un maresciallo di Francia osservò che le porzioni erano veramente misere. Era tutto lì?
«Questo dipende» rispose Almiraghi «dalle loro eccellenze.»
«Spiegati» ordinò un conestabile.
«Sono le loro eccellenze pronte a difendere l’onore della Francia?»
«Non c’è nemmeno da chiederlo.»
«Credono le loro eccellenze che, in materia di cibo, i francesi siano superiori agli italiani?»
Ruggito dei commensali.
«E credono le loro eccellenze» proseguì Almiraghi «che questa superiorità sia tale anche in faccende d’amore?»
«Cerchi una sfida, petit italien?» chiese un visdomino.
«Oh no. La sfida io l’ho già in mano e, come tale, la rendo a voi.»
Batté le mani. Le ragazze che avevano servito ai tavoli persero tutti i loro vestiti e si sedettero sul tavolo, a gambe aperte, ciascuna davanti ad un commensale. Almiraghi nel frattempo aveva fatto portare il pentolone con gli altri nove chili e mezzo della sua pasta. Afferrato un mestolo, si avvicinò ad una ragazza, versando delicatamente gli spaghetti sul suo seno, sul ventre, sulle cosce.
«E allora dimostratemi che siete superiori in entrambe le arti, contemporaneamente» sibilò Almiraghi, «Dimostratemi che sapete giuocare sapientemente con il cibo e con l’amore, con la lingua e con la verga. Guardate quanto ben di Dio, quanto tiepido umidore per ravvivare le vostre candele indurite e disseccate dal lungo viaggio.»
«Specie quella di questo qui» commentò Claudine, una mignotta di Rennes, indicando Luigi di Borbone che mormorava il rosario, «Ha ancora i pantaloni, ma Dio lo benedica, si vede tutto, è dritto come una spada. Che arnese. Peggio di un cavallo. Con questo ci vuole una ficona come si deve o sono dolori.»
«Mon Dieu, speriamo che non voglia il culo» rispose ingolosita Séverine, che era di Marsiglia e di pesce ne capiva.
Fu, per la comitiva, lo sciogliersi di un’improvvisa tensione, la fine dell’incredulità, l’inizio dell’accettazione della fregola. Avidamente, ciascun commensale abbrancò le tette, le chiappe, le cosce, la pancia della mignotta davanti a lui, schiaffando la faccia sugli spaghetti alla puttanesca sparsi sui corpi, le quali poi, fattesi titillare da quelle lingue e quelle mandibole, ebbero la felice iniziativa di spargere spaghetti sui corpi dei commensali e farne buon uso esse stesse. Un gruppo di tre trascinò in un angolo Luigi di Borbone, rincoglionito dal rosario e dalla spaventosa erezione, e mentre veniva tenuto fermo, piangendo e contorcendosi debolmente, venne fottuto undici volte, finché non restò stremato e svuotato, disteso a stella marina, in uno stato comatoso.
Non c’è bisogno di insistere sui dettagli di quella felice settimana. Le fatiche del viaggio si sciolsero in un grumo di pasta al sugo. La passera, come suole fare da milioni di anni, risolse buona parte dei problemi del plenipotenziario francese e del suo séguito, che poté così trattare con D’Orvilliers, farsi convincere delle potenzialità della colonia e accordarsi per future spedizioni di denaro, coloni e infrastrutture. Ma prima di ripartire, il plenipotenziario fu irremovibile: desiderava la ricetta degli spaghetti alla puttanesca del petit italien – o di tutti gli aiuti promessi, nemmeno uno sarebbe giunto a Caienna. D’Orvilliers si consultò con Almiraghi. Lo trovò bendato mentre veniva chiavato da due creole con un fallo di cuoio. Credette di ottenere comunque una risposta intelligibile e affermativa – purché a cucinare fossero sempre italiani e non francesi – e così fu che gli spaghetti alla puttanesca entrarono in Europa e nella storia.
Leggi la seconda parte qui.
Foto di Enrica Panariello.