Quartetto Alchemico – La leggerezza

Autore
Giulio Iovine
Quartetto Alchemico
Narrativa Generale
17 febbraio 2022

Libera me Domine de morte aeterna in die illa tremenda quando coeli mouendi sunt et terra dum ueneris iudicare saeculum per ignem.

Anonimo, Officium defunctorum

Segue da Episodi 1, 2

* * *

Una notte, dopo avere finito di leggere Anna Karenina (che nervi la protagonista! Quanto è scema!), mi è venuta la curiosità di vedere il panorama dalla finestra della camera da letto di Enrico. Lo faccio di rado perché mi dà una certa inquietudine. Va bene, è sempre la solita città, ma le notti in cui Enrico viaggia c’è qualcosa di strano. Se Enrico è nei paraggi si vedono intere aree illuminate a giorno, e percorse da Spettri volanti come gibigiana in un cono di luce, o mosche attorno a una carcassa. Se non c’è, tutto sembra normale, a parte strane creature molto alte che camminano molto in fretta per strada, ed edifici che non c’erano la notte prima, e sussurri in lingue che non conosco.
Ma stasera, sa dio perché, mi manca l’aria. C’è un’angoscia elettrica in questa stanza. Accorro alla finestra, apro le ante, inspiro. È lì che mi accorgo che qualcosa è andato orribilmente storto.
Non mi risultava che questo attico si reggesse da solo a mezz’aria. Fino a poche ore fa, quando sono entrato, c’era un intero condominio sotto l’attico, e intorno un parco, e le strade, i negozi eccetera. Adesso non c’è più niente. C’è solo l’appartamento. Sopra, sotto, a destra e a sinistra c’è il cielo stellato. Mi par di sentire proprio sul muso un vento sottilissimo e tiepido, come nelle notti estive. Quasi a darmi un contentino, dritto davanti a me c’è luna piena.
Questo non va bene per niente. Che io stia dormendo – e sognando – è escluso. Dunque questa è la realtà. Dico di peggio: è l’Antimondo. E i patti che Enrico ha con le autorità cittadine sono molto chiari. Lui che ci è nato, può viaggiare quando e come crede nell’Antimondo; ma nessun mondano ci può finire dentro. È il motivo per cui m’incazzo sempre quando per strada, o nei bar, o all’università mi vengono a dire che sono amico di un mostro. A parte che non siamo amici – purtroppo – ma un mostro proprio non lo è. Se lui non facesse i giri che fa di notte, sai che razza di flusso migratorio ci ritroveremmo in casa? Certo, a me gli Spettri non hanno (finora) mai fatto del male, ma solo per mancanza d’interesse, non perché non possano.
Mi siedo sul letto dove il cadavere di Enrico, immerso nel suo sonno alchemico, giace sotto il piumone. L’istinto mi suggerisce di far passare del tempo e vedere che succede. Può ancora trattarsi di un fenomeno temporaneo. Sono quasi le quattro e mezza di notte. Fra poco sarà l’alba, Enrico tornerà e tutto andrà a posto.
Arrivate le sei e mezza, e la situazione fuori dalla finestra è rimasta invariata, mi pare quindi chiaro che no, il fenomeno non è necessariamente temporaneo, anzi per i miei gusti sta durando un po’ troppo. Cammino nervosamente in tondo per la camera da letto. Enrico è in ritardo. In quasi un anno che lo veglio nel suo sonno alchemico non ha mai tardato una volta. Mi torna in mente una cosa che mi disse una delle nostre prime notti:
«…Puoi pure prendere quell’impegno alle otto, tanto io tornerò prima dell’alba. Tornerò sempre prima dell’alba, stanne certo.»
Non mi disse perché. Né io l’ho mai chiesto. Col senno di poi vorrei averlo fatto.
Se Enrico fosse nei guai? Il pensiero mi terrorizza. Enrico è il titano dei due mondi. Il figlio dell’inferno. L’equilibrista sulla linea del nulla. A noi mondani possono capitare dei guai, a lui no, non ha senso, non è previsto. Pure, non ricordo chi ha detto che tutto ciò che accade è possibile – o che l’impossibile è tale solo finché non succede. D’altronde Enrico ed io non abbiamo mai discusso di un eventuale mezzo di comunicazione durante i suoi viaggi. Se avesse qualcosa da dirmi, potrebbe farlo anche a distanza?
Sono ormai le sette passate quando mi viene la folle idea di andarlo a cercare.
Mi riaffaccio alla finestra. Sopra, sotto, a destra e a sinistra si estende come acquerello una notte stellata e tiepida. La luna è ancora piena e davanti al mio naso. E tuttavia non è tutto cielo ciò che mi circonda: sotto l’appartamento, a distanza di centinaia di chilometri, mi pare di intravedere una massa scura in movimento, come una specie di balena in forma di nuvola.
Enrico mi racconta sempre che per un mondano, l’Antimondo può somigliare incredibilmente al mondo dei sogni. Che molti fatti fisici e psicologici sono identici a come di solito li sogniamo. Ora io sogno spesso di volare. Siccome non è nella mia natura farlo, e il sogno non fa che pescare dalle nostre esperienze vigili, i miei voli onirici non sono altro che nuotate a mezz’aria; e l’aria dei sogni si comporta come l’acqua, cioè se riempio i polmoni ci galleggio, se li svuoto vado verso il basso.
Scavalco la finestra, mi siedo sul parapetto, poi lascio cadere il corpo, i polmoni ben pieni. Faccio qualche metro verso il basso, lentamente, poi mi fermo e torno su. Funziona. Basta tenere i polmoni sempre pieni. Provo a pensare di andare in avanti, ed eccomi come trascinato in avanti da una corrente d’aria. Ma un pensiero mi paralizza, e mi attacco allo stipite della finestra.
Non posso lasciare da solo il cadavere di Enrico. Se uno spettro lo trovasse incustodito, lo mangerebbe. Chi mi dice che quest’assenza di Enrico non sia una trappola degli spettri per farmi allontanare dal cadavere? Rientro in stanza, sollevo il piumone e il cadavere di Enrico e me lo trascino di nuovo verso la finestra. Vediamo se con i polmoni pieni lo riesco a reggere.
Pesa poco e non sembra ostacolarmi nei movimenti. Tenendolo tra le braccia mi spingo con un piede fuori dalla finestra, e galleggiando sfreccio in avanti nel cielo sterminato dell’Antimondo. Svuoto un po’ i polmoni e inizio a scendere verso quella specie di balena in forma di nuvola. Man mano che mi avvicino realizzo che è una specie di continente a forma di nastro, che scorre in avanti come scivolando sull’acqua. La luce della luna illumina una striscia di terra verde lago, brulla e montagnosa, piena di chiaroscuri violenti e falciformi. Scendo ancora, cercando di farlo lentamente, finché – in vista della prima vegetazione, forse a cento metri sopra il suolo – riesco a stabilizzarmi, e a scorrere in avanti.
Mi perdo per non so quanto ad osservare il paesaggio che ho sotto di me. A tutta prima mi ricorda un campo di erba medica, alternata a macchie di bosco fitto ed uniforme, i tronchi degli alberi lisci come liquirizie. Qualche albero svetta isolato in mezzo alla cavedagna, e non sta fermo un attimo – la chioma si muove in su e in giù in un inchino demente, orribilmente irregolare. Ho una fitta di mal di testa e il cadavere di Enrico suda copiosamente, tanto da farmi quasi scappare la presa. Che mi stia avvicinando al suo corpo astrale?
Come nei sogni, quando vedo il boschetto al centro esatto di quella sterminata pianura celeste, so – anche senza vederlo – che Enrico è la dentro.
Il vento si è fatto insistente, il silenzio quasi lattifero, liquoroso. Gli alberelli che si inchinavano forse non erano alberelli. Riconosco uno, due, trecento spettri, impalati ciascuno in mezzo all’erba alta, disposti a cerchi concentrici attorno al boschetto dove giace Enrico. La luna li illumina quasi a giorno. Senza pensarci, soffoco un grido e tento malamente di atterrare nell’erba soffice, profumata, lasciando dolcemente andare il cadavere quando tocco terra di pancia, la faccia affondata nella terra.
È quando mi rialzo in piedi che capisco la stronzata che ho fatto.

L’assurdo biologico che mi vedo davanti, in piedi in mezzo all’erba alta e che piantona il boschetto dove si nasconde Enrico, è indefinibile. Dico ‘mostro’ per intenderci. Se dicessi quello che mi sento in cuore, direi – come un saggio ha detto di più o meno tutti i mostri dei film americani, insensati e implausibili: ‘schifosoide merdoide’*. Il dettaglio più rivoltante sono quelle antenne da blatta che non fa altro che agitare convulsamente. Il fatto che sia alto sei metri mi turba, ma non tanto quanto il cranio a forma di dildo, o quegli occhi ellittici e la bocca curvata all’insù, col sorriso involontario e cretino dello squalo vacca**. Sulle braccia da therizinosauro, ciascuna con le sue tre estremità e tre artigli lunghi come batacchi da campana, sorvolerò – idem sulle quattro gambe, di cui due orribilmente angolari e lunghe, come se di punto in bianco si potesse mettere a fare la cavalletta.
Incidentalmente, lo schifosoide sta guardando verso di me.
«Tu sei lo stronzo con l’insonnia,» dice, non so con quali organi fonatori perché non gli vedo muoversi la bocca.
«Ssssssì,» rispondo con poca prontezza. «Credo di… Ci sarebbe un amico, cioè più un conoscente, proprio dentro quel boschetto. Se per cortesia lei mi lasciasse passare.»
«No,» risponde lui, stridulando con le zampe da cavalletta per qualche secondo. «Tu lì non ci entri.» Bisogna che prima Enrico muoia.
Deglutisco.
Lo tiene prigioniero lì dentro?
«Mi è scappato là dentro, e non riesco a stanarlo. È ancora abbastanza potente da impedirmi l’accesso» e indica il boschetto con un artiglio. «Ma è questione di tempo e prima o poi ne uscirà. O morirà di sfinimento. L’attesa ci titilla. Siamo tutti qui con coltello forchetta e tovagliolo, per dirla come la direste voi mondani.»
Mi guardo intorno. Gli spettri, nel loro corpo tremolante, si chinano e drizzano e chinano con quello che solo ora riconosco come arrapamento culinario.
«Del resto,» riprende lo schifosoide merdoide «posso giocare d’anticipo e mangiarmi il suo cadavere, visto che me l’hai portato.»
«Frena,» esclamo. «Non puoi. Non finché io sono vicino al cadavere, e vigile. In mia presenza non potete fare nulla.»
Vedo un guizzo dei suoi occhi ellittici e sento un orribile raspio di gola.
«Contro di lui, no. Contro di te, sì. E con te fuori dai piedi…»
«Se poteste togliermi di mezzo tanto facilmente, lo avreste già fatto, rispondo provando a bluffare.»
«Finché sei nel Mondo, ammetto che è praticamente impossibile nuocerti. La povera Libliblim ha dovuto scoparti per renderti inoffensivo, anziché mozzarti la testa con le chele come avrebbe preferito. Ma questa è casa nostra. Qui nell’Antimondo sei vulnerabile.»
Ho finito le argomentazioni. Il cadavere di Enrico giace nell’erba ai miei piedi, sereno nel suo sonno alchemico. Ho fatto un pasticcio e l’ho messo in pericolo. Di nuovo. Il minimo che possa fare è mostrare un po’ di palle. Incrocio le braccia, cerco di tener dritta la schiena, e:
«Fatti sotto.»
Lo schifosoide merdoide, eccitato come uno scarabeo in un cesso chimico, fa un passo verso di me, ma ecco improvvisamente le grida di dolore degli Spettri attorno a noi: non avevo mai sentito gridare con tanta forza, con tanta intensità e con tanto eco, il mio povero piccolo nome di battesimo.
Ci voltiamo verso il boschetto, intriso di luce bianca. Il corpo astrale di Enrico ne esce, un titano circondato da fulmini e vapori di fiamma, carbonizzando l’erba dove cammina.
«Non questa notte, Cruciger.»
Lo schifosoide merdoide, sentendosi chiamare in causa, alza le braccia e mostra ad Enrico i sei artigli a falcetto. Enrico non pare impressionato. L’aria comincia a tremare. Gli Spettri si danno alla fuga, spiccando uno dietro l’altro il volo nell’aria notturna. Enrico fa risuonare due voci dal profondo di una gola più interna nel suo più intimo recesso. Ogni parola pesa come un pianeta:
«Libera me signore dalla morte eterna…»
«No,» grida lo schifosoide. «Quello no.»
«…in quel giorno tremendo quando dovranno scuotersi i cieli e la terra…»
Mi tappo le orecchie, ne sento uscire sangue, crollo in ginocchio
«…mentre verrai a giudicare il mondo…»
«Aspetta! No, fermo, parliamone.»
«…con…»
«No, il nulla no! Ti prego, ho il terrore del nulla.»
«…il… »
«NO NO NO NON VOGLIO MORIRE»
«…fuoco!»
L’ultima cosa che sento dallo schifosoide merdoide è un grido. Il resto è fuoco, un vortice di fuoco che inghiotte lui e lo scioglie centimetro per centimetro, e brucia il bosco, il prato e la notte estiva. Resto in ginocchio, le mani sugli occhi, per un’eternità.
Poco dopo sento una voce che mi consiglia dolcemente di riaprirli.
«È tutto tranquillo.» Aggiunge.
In effetti mi ritrovo seduto sul pavimento, nella camera da letto di Enrico. Fuori dalla finestra il sole è alto, il parco è gonfio di luce e di acqua, la città è esattamente dove l’ho lasciata, e non ricordavo che maggio fosse un mese tanto bello. Enrico, ancora in pigiama, è seduto in cucina e sta aprendo i biscotti al cioccolato.
«Vieni. Direi che ti meriti una colazione come si deve, stamattina.»
Lo raggiungo e mi siedo davanti a lui.
«Se pensi che possa saperlo senza impazzire o vomitare, mi spiegheresti che è successo?»
Mi passa la confezione di biscotti e la tazza con il latte. Poi mi risponde.
«Niente di grave, in realtà. Cruciger mi ha colto di sorpresa. Avrei dovuto aspettarmelo, era ovvio che fosse più forte di quanto lasciava intendere. Per evitare il peggio mi sono chiuso dentro quel boschetto in attesa di recuperare le forze. Poi sono uscito e hai visto da solo com’è finita.»
«Come mai la casa è finita nell’Antimondo?»
«Stress.»
«…Della casa?»
«No, mio. L’attacco di Cruciger mi ha fatto perdere per un attimo il controllo del mio corpo astrale. Devo avere istintivamente desiderato di tornare a casa. E così la casa si è mossa verso di me. Cose che capitano.»
Mi guarda divertito.
«Tu, piuttosto. Credo tu mi debba una spiegazione.»
Gli racconto tutto, contrito e umiliato.
«Ma sei stato gentilissimo,» risponde alla fine, lasciando cadere un biscotto nel latte. «Non solo sei venuto in mio soccorso, ma ti sei anche premurato di non lasciare solo il mio cadavere e hai pure bluffato con Cruciger per difendermi. Non avrei potuto chiederti di più.»
«Se fossi rimasto in camera non sarebbe successo niente. Tu non hai mai avuto veramente bisogno d’aiuto.»
«No, vero. Ma tu non potevi saperlo. Parte della responsabilità, se non tutta, è mia. Se avessi pensato ad avvisarti, non ti avrei fatto preoccupare e non ti saresti sentito in dovere di venirmi a salvare. Cosa che comunque ho apprezzato.»
Malinconicamente, tiro fuori anche io un biscotto dalla confezione e lo metto sotto i denti. No, in effetti è meglio nel latte. Diligentemente lo inzuppo.

*Prendo questa descrizione in prestito dall’amico Alessandro Magnani, che ringrazio.
**Senza offesa per Hexanchus griseus, da cui prelevo il paragone.


Sogni, tu sogni nel mare dei sogni

A illustrare l’episodio Moonspots in the Forest, Winter, di Arkhip Kuindzhi.