Quartetto Alchemico – Il disagio

Autore
Giulio Iovine
Quartetto Alchemico
Narrativa Generale
12 febbraio 2022

«I really am a dirty fucking whore, my pussy’s wet right now.»
«That’th becauthe thomething’th thcrewing you. Thee, all thith ith a dream.»

A. Moore – J. Barrow, Neonomicon

Segue da Episodio 1.

* * *

Le notti in cui Enrico non viaggia e dorme tranquillo a casa sua, io mi devo inventare qualcosa da fare, perché la mia insonnia, richiesta o meno, sta sempre là. Di solito vado in giro per bar e locali, quei pochi che trovo aperti anche di notte. Ordino un tè, mi siedo, apro il portatile e provo a lavorare con le cuffie nelle orecchie. E così passa il tempo. Gli avventori vanno e vengono, arriva il momento in cui ci siamo solo io e il barista. Finisco per bere una decina di tè e andare in bagno altrettante volte. I faretti mi incastrano in un cono di luce e attorno a me c’è solo la tenebra.
A volte non mi permettono di entrare nel locale.
«Tu sei l’amico del mostro.» mi fa qualcuno di là dal bancone.
«Si chiama Enrico» ribatto io, e mi siedo.
«Un tè, grazie.»
«Non serviamo quelli come te» insiste lui, e mi si avvicinano improvvisamente cinque o sei dei suoi amichetti a braccia conserte. Mi arrendo ed esco.
Ogni tanto, più o meno tra le tre e le quattro di notte, nel silenzio del locale in attesa dei cornetti e delle brioche del fornaio, mi deconcentro. Ho davanti la foto di un manoscritto, coi colori e i contrasti falsati per leggere meglio l’inchiostro sulla fibra di papiro e sarebbe il contesto perfetto per lavorare, se non che proprio non ho la testa. Chiudo gli occhi, annuso il fumo odoroso dell’infuso allo zenzero e limone, e inevitabilmente comincio a riflettere sulla mia vita. Notte dopo notte, prima o poi farò anch’io i trenta. Le domande si affollano nella mia testa. Cosa me ne faccio di questo dottorato…? Va bene, ora mi pagano, ma poi? Ho i numeri per continuare? Esattamente quale mondo del lavoro avrebbe interesse alle mie inutili competenze, a parte quello delle fiabe? Aveva senso andar via dalla mia città e sistemarmi qui, dove la persona più vicina che ho è il mostr-pardon, Enrico? Da quanti anni non ho un appuntamento decente? Se vendo il pene sul mercato dei trapianti, mi ci pago l’assegno di ricerca? Tanto per quel che lo uso ora mi basterebbe un catetere. Sorseggio l’infuso e mi scopro a desiderare che sia crystal meth.
La novità è che due giorni fa, riaprendo gli occhi, non vedo la solita sedia vuota dall’altra parte del tavolo, ma una sedia occupata dalle chiappe di una ragazza. Che ha in mano due birre.
«Mi sembri giù di corda. Posso consolarti?»
La mia risposta istintiva sarebbe non bevo birra, poi la guardo bene e annuisco. Accosto il bicchiere alle labbra, sento quel vomitevole gusto di polvere e fingo di bere.
«Tu sei amico di Enrico, giusto?»
Metto giù il bicchiere.
«Non siamo amici, ma sì. Lo conosco.»
«Passi le notti da lui, vero?»
«Sì. Quando ha bisogno.»
Si alza dalla sua sedia e si mette su quella accanto alla mia. Ho agio di annusare il suo profumo delicato ma evidente, la pelle liscia e le guance appena un po’ color pesca, la scollatura, la camicetta gonfia di tette e la dentatura lucidissima.
«Mi chiamo Liliana. Vengo spesso qui, come te. È da un po’ che ti osservo.»
Salta fuori che è timida e ci ha messo un po’ a farsi avanti. Ma che la acchiappo tantissimo. Dice di essere al primo anno di antropologia e che la faccenda di Enrico e del suo corpo astrale che passeggia tra Mondo e Antimondo la manda in corto circuito. Dice anche che avrebbe una gran voglia di fare cosacce con me in un posto speciale. Qui intuisco dove stiamo andando a parare e provo a formulare un’obiezione, ma mi ha messo la mano sul pacco e sta strizzando, delicatamente ma insistentemente, come se stesse cercando di sciogliere un blocco di pongo col calore del suo pugno. Le faccio sapere che chiederò ad Enrico. Limoniamo al tavolo per dieci minuti, poi mi dà il suo numero ed esce dal bar proprio quando stanno arrivando le brioche ancora calde dal fornaio.
Mentre ne mangio una alla crema di pistacchio, realizzo che non ho assolutamente le palle per chiedere a Enrico se mentre lui viaggia posso portarmi a letto una tipa rimorchiata in un bar. Decido che non se ne fa nulla. Poi la bramosia mi assale. La reprimo. Mi assale di nuovo, sciogliendomi come glassa. Quella notte, entrando nell’attico di Enrico, gli chiedo:
«So che non ne abbiamo mai parlato, ma mentre tu sei fuori casa, intendo il tuo corpo astrale, io posso anche ricevere ospiti?»
Enrico mi guarda. Immediatamente mi pento di aver parlato.
«Ti annoi molto, quando sono in viaggio?»
«No,» mi affretto a correggere, annaspando «è solo che ormai sono qui da un po’, comincio a conoscere persone, e le notti sono lunghe. Così, per cambiare un po’.»
Corruga la fronte. Per non sapere che altro fare, fisso le losanghe del suo pigiama.
«Mah, purché non sia troppa gente. Due o tre va bene. Potete stare in salotto o in cucina. Valgono le stesse restrizioni che per te, ovviamente: non aprire mai neanche per sbaglio i libri in camera mia.»
«Grazie.» balbetto commosso. «Non mi aspettavo che tu… che fossi…»
Enrico mi guarda in silenzio.
«Non è poi chissà quale concessione,» conclude infine infilandosi sotto il piumone azzurro oceano. «Sono mesi ormai che lavori per me, e ti sei sempre comportato benissimo. Sono sicuro che gestirai la vicenda responsabilmente.»
Poi entra nel suo sonno alchemico, lasciandomi diviso in due tra il senso di colpa – non gli ho detto esattamente tutto – e la bramosia per Liliana. È una lotta che dura una buona mezz’ora, col senso di colpa che mi descrive come una mezza sega e l’arnese nei pantaloni che si gonfia, ricordandomi che, nel vuoto immenso dell’universo senza né destino né provvidenza, l’unica cosa vera è scopare. Alla fine avviso via whatsapp Liliana che l’aspetto a casa di Enrico.
Quando bussa alla porta e vado ad aprirle, scopro che è già nuda. Mi si attacca alle labbra, mi spinge dentro casa, roteando finiamo in camera di Enrico e sul mio lettino a una piazza. Dopo i primi entusiasmi si stende sulle coperte e mi ordina di spogliarmi. Io, in piedi, obbedisco rapidamente. Mi impedisce di avvicinarmi, tenendomi fermo con un piede, e corre con lo sguardo lungo tutto il mio corpo, dalla testa ai piedi.
«È lungo,» commenta.
«Pensavo di venderlo,» rispondo, innocentemente.
Mi butto, voglioso, sul banchetto: ma realizzo che è un bel po’ che non si praticava, e attraverso le pieghe del mio cervello si fanno largo una serie di vocine gelate che mi ricordano che va messo il condom, che ci vuole manualità, destrezza, abitudine (tutto quello che al momento non ho). Goffamente cerco di afferrare la scatolina accanto al comodino, provo ad aprire la plastica, non ci riesco, la prendo a morsi e sfondo la scatolina, mi resta in mano un condom ancora nella confezione, lo apro e provo a infilarlo, è al contrario, ci riprovo, no prima era giusto adesso è al contrario, lo rigiro di nuovo e realizzo che mi tremano le mani e che c’è molto abbattimento al piano di sotto. Liliana mi strappa di mano il condom, lo butta via, mi monta e si infila dentro il mio coso. Protesterei, ma, ehi, ora ricordo com’erano i fuochi d’artificio e quant’altro.
Non ho idea di quanto tempo passi. Fuori da questo attico la notte è sempre uguale, Enrico è come morto sotto il suo piumone, e io sono impegnatissimo ad ansimare e montare Liliana. Ormai ci dovremmo essere.
«Dopo questa dormirai per ore, tigre» ansima lei.
«Magari,» ansimo io in risposta. «Soffro d’insonnia.»
Lei spalanca gli occhi, mi afferra le spalle con le mani e le caviglie con le piante dei piedi, e ruggendo grida:
«Soffri d’insonnia…?»
Mi fermo. Qualcosa – un ago? – mi ha punto l’arnese mentre sono dentro di lei. A disagio, tento di uscire dalla sua vagina. Mio malgrado non solo l’arnese resta duro, ma non riesco a tirarlo fuori. Sento sulle spalle e sulle caviglie una presa appuntita, come se fossero tenaglie e non mani e piedi.
«Sì,» mormoro «è un mio problema, da molti anni. Non dormo praticamente mai. È per questo che con Enrico ci siamo accordati che mentre lui dorme, io…»
«Soffri d’insonnia, pisciasotto!» urla Liliana: e nella sua bocca mi pare improvvisamente di notare una terza fila di denti, e gli occhi sono ovali e alti e verdi, e i capelli le cadono sul cuscino. Qualcosa mi sta sollevando verso l’alto. Sotto di me non c’è che verde, un verde scanalato e chitinoso, lucido. Strane, lunghe braccia a forma di ramo stanno sfondando il corpo di Liliana dall’interno, e si puntellano sul pavimento. Istintivamente mi aggrappo a una specie di favo sodo e fibroso, stringendo le ginocchia e le braccia, finché la mutazione cessa, e ho finalmente modo di guardarmi intorno.
Sto abbracciando un addome ovale, scanalato e lungo. Mi ci tengo aggrappato con mani e piedi. Il mio arnese non solo è ancora duro, ma è ancora all’interno di quell’addome: lo percepisco all’interno di una guaina umida e appiccicosa che gli trasmette tante piccole scariche elettriche, impedendogli di ammosciarsi. L’addome è sostenuto da due zampe posteriori, due zampe mediante, e via via che il mio sguardo procede, ecco un cefalotorace verde smagliante, in cima al quale sta una piccola testa con cinque occhi che finalmente si volta a guardarmi.
La mantide mi fissa per non so quanti secondi, lisciandosi le zampe raptatorie.
«Tu guarda la fregatura che ho preso,» dice. «Contavo che dopo averlo trombato a dovere si sarebbe addormentato, ed Enrico sarebbe stato la mia cena. Ma chi lo immaginava che questo stronzo floscio soffrisse d’insonnia.»
(Credo parli di me.)
«Posso scendere?» chiedo.
«No,» risponde lei. «Scusa ma gli istinti sono cose serie. Abbiamo iniziato la copula e ora devi fare il tuo dovere.»
Sento una scarica elettrica più forte delle altre corrermi lungo il cazzo. Dopodiché, la guaina nella quale è infilato comincia a stringersi ritmicamente, come mungendolo. A ogni strizzata il mio cervello produce un mini-orgasmo e schizzo sbobba nella cloaca di Liliana. Uno-due, uno-due, uno-due, strizzo-schizzo, strizzo-schizzo, strizzo-schizzo. Non si finisce più. Il mini-orgasmo mi rincoglionisce per due secondi netti, dopodiché sento indolenzimento e (al sedicesimo schizzo), un dolore acutissimo.
Alla fine della fiera scopare non è divertente come mi ricordavo.
«Basta, per favore,» la imploro. «Ti ho già fecondata.»
«Ho cinquemila uova nella mia tasca ventrale,» ribatte lei. «Bisogna che ti svuoti per bene le palle. Poi mi serviranno proteine per gli embrioni. Non ho bisogno di spiegarti cosa significa.»
Comincio a piangere.
«Perché ce l’hai con Enrico? Perché vuoi mangiarlo?»
«Tutti nell’Antimondo vogliono mangiarlo,» esclama Liliana sfregandosi vorticosamente le raptatorie fino a farle sfrigolare. «Quel disgustoso piccolo gnomo appartiene a due mondi e li tiene a distanza. Se non fosse per lui noi saremmo già qui da tempo. L’Antimondo non ha mai avuto sovrani e non comincerà certo ora.»
«Fossi in te ci ripenserei.»
Questo non ero io. Era il corpo astrale di Enrico, apparso improvvisamente alla finestra della sua camera. Tutt’intorno al condominio la notte si è fatta giorno. La mantide apre le raptatorie come a volerlo abbracciare.
«Vieni, Chicco. Vieni dalla tua mamma. Fatti mangiare, da bravo. Comincio dalla testa, soffrirai meno.»
«Fanatica.» risponde Enrico mentre alza una mano bianca ed incandescente. La mantide, invasa dalla luce, si paralizza lì dov’è. La cloaca sgancia il mio pene dall’allaccio mortale e sono finalmente libero di tirarlo fuori, per poi cadere di culo per terra e ritirarmi a quattro zampe in un angolo, rannicchiato in posizione fetale, con le mani sulle mie povere gonadi. Enrico non pareva attendere altro: appena sono a debita distanza, la mantide comincia a sciogliersi, finché non è ridotta a un grumo di liquido bianco. Il corpo astrale di Enrico allora vola sopra il cadavere che lo ospitava, e ci rientra dentro, rianimando il suo cuore e il suo respiro. Sento Enrico uscire dal suo sonno alchemico, e fuori dalla finestra i primi cinguettii dell’alba. Ho smesso di piangere, ma non riesco a smettere di tremare.
Quando Enrico si sveglia definitivamente sono già le otto e mezza del mattino. Esce dal piumone, infila le ciabatte e mi guarda sorridendo. Io sono ancora nudo e rannicchiato contro un angolo della camera, col pacco tra le mani.
«Mi dispiace,» sussurro con la voce rasposa di chi è stato zitto per ore. Enrico intanto apre la finestra, e sento il vento del mattino scorrermi sulle guance umide di lacrime. Poi viene a sedersi sul pavimento accanto a me.
«E di che?»
«Ti ho portato il nemico in casa,» rispondo, e subito singhiozzo.
«Mi racconti per bene cos’è successo?»
Gli faccio un resoconto completo. Concludo dicendo che l’ho messo in pericolo e mi sento una merda. Enrico fa spallucce.
«Finché non ti addormenti, non c’è nessun vero pericolo per me. E tu non avevi alcuna intenzione di tradire il nostro accordo. Se avessi pensato di addormentarti dopo l’orgasmo, avresti accettato di ricevere Liliana in camera mia?»
«No.»
«Ecco. Vedi? Eri in perfetta buona fede.»
«Mi sento comunque un coglione.»
«Quello forse un po’ sì. Ma pazienza, l’hai scampata senza un graffio, e d’ora in poi starai più attento.»
Rimaniamo in silenzio per un po’. Poi Enrico, guardando fuori dalla finestra, sussurra:
«Mi ha colpito, prima, quando mi hai detto che avresti voluto un po’ di compagnia durante le tue veglie. Alla fine io non so nulla di te e non ti ho mai chiesto nulla. Non avevo idea che potessi sentirti solo.»
Mi siedo anche io appoggiando la schiena alla parete.
«Quello è un problema generale,» rispondo «non per forza legato al fatto che passo le notti sveglio. Sono qui da meno di un anno, non conosco nessuno. Non so perché ma mi sembra di non riuscire nemmeno a conoscere nessuno. Non so se mi spiego.»
Non so nemmeno perché mi è uscita di bocca questa cosa. Che gliene frega ad Enrico?
«Anche io ho sempre fatto fatica a fare amicizia,» mi dice. «E non parliamo della questione sentimentale. Brutte storie che ti annoierebbero. Diciamo che non mi stupisco che tu ti sia lasciato rimorchiare da Liliana. Sesso a parte, è ammaliante quando qualcuno sembra volerci.»
Poi si alza, e uscendo dalla stanza:
«Ti lascio l’assegno sul tavolo della cucina ed esco, che oggi ho un impegno in mattinata. Tu fai come fossi a casa tua. Suggerisco una doccia.»
Inghiotto muco e provo ad alzarmi.


I’m overstimulated, and I’m sad
I don’t expect you to understand
It’s nothing less than true romance
Or am I just making a mess?

A illustrare l’episodio Head of a girl, di John William Godward