Chedda p’cinn
Mio nonno aveva gli occhi dello stesso azzurro della bottiglia di vodka all’anice. Avevano il nistagmo, saettavano da destra a sinistra da sinistra a destra, alla velocità di un nibbio incazzato. Di ritorno dalla guerra, tra una battaglia e l’altra, ingravidò mia nonna e al ritorno si ritrovò mia madre. Deve essere successo in una sera in cui dallo spiazzo si vedeva il tramonto, uno di quelli infuocati che accende di passione anche il demonio. Da lì mi piaceva guardare la campagna, il boschetto in fondo a sinistra e il paese in lontananza. Di sera mi faceva paura il buio totale, interrotto solo dalle luci nei trulli sparpagliati tra le vigne, come macchie di vino sulla camicia di un ubriaco.
Di nonno, ricordo una frase in particolare, qualcosa che da lui né da nessun altro parente mi sarei aspettata, ma da lui meno che mai. Eravamo nel soggiorno dei miei genitori, seduti sul divano costato rate, rinunce e sacrifici, di stoffa verde coccodrillo infido, e non so di cosa stessimo parlando, finché il discorso virò su di me, che cantavo nel coro della scuola, nel coro della chiesa e avevo una bella voce, e lui ad un certo punto se ne uscì dicendo:
«Chedda p’cinn, c’er net n’da nota famije putev deventà qualcon.»
E la ricordo così come la disse, non tradotta in italiano come faccio di solito. Che io, se fossi nata in un’altra famiglia, sarei potuta diventare qualcuno, nessuno lo aveva mai detto, a parte lui, e nessuno lo disse mai più. A ripensarci oggi, so che aveva ragione. Tantissimi, se fossero nati in altre famiglie, sarebbero diventati qualcuno. Forse no, ma di certo se tuo padre e tua madre lottano anche solo per portare i pasti in tavola giorno per giorno, e tu indossi abiti dismessi dai figli delle signore dove tua madre va a fare le pulizie, non è che ti può venire in mente di metterti a dipingere o diventare astronauta, o che ne so, cose così. Resta il fatto che nonno Oronzo, comparso tardi, come si vedrà più avanti, e in buona sostanza persona che poco ha inciso sulla mia vita, è stato comunque epocale per quella frase.
Tra mio nonno e mio padre non correva buon sangue, spesso diceva:
«Va’ d’attant ie nan ce veng.»
Che era pura cattiveria da dire a mamma, vai da tuo padre, io non ci vengo, perché lei non guidava, né auto né moto né bicicletta, dipendeva da lui per gli spostamenti. Vecchia ruggine di sgarbi da parte di nonno, papà aveva anche ragione, ma le schifezze intercorse le lasciamo fuori dal trullo, non ne parleremo, come non se ne parlava a casa. Era il modo di risolvere:
«Scettem tutt cos riet i spadd e trem nnant.»
Non è proprio che buttassero tutto dietro le spalle e tirassero avanti, ma il nostro era un clan di apparenze, una tribù di tante belle facciate ripassate a calce immacolata ogni estate e si sa, la calce, viva o morta, sterilizza nasconde modifica.
Mio nonno abitava in una casa fra Locorotondo e Martina Franca, due paesini sperduti nel nulla di una Puglia che è bella in cartolina, ma prova a viverci. Perché vivere in un posto, e visitarlo soltanto, è come indossare un abito, o guardarlo in vetrina. Nessuna vetrina ti darà i giorni, i palpiti, gli amori, le paure, le angosce, di ogni giorno in cui lo hai indossato. Al limite, ti rimane il profumo del negozio, l’intensità delle luci, la grandezza del camerino.
Le orecchiette e le cime di rapa certo che sono buone, ma impastale dopo una giornata sfiancante, mettiti alla spianatoia a fare la fontana nella farina, e fallo senza telecamera, senza essere a Master Chef, dopo aver lavorato nei campi, con tua figlia che non sopporta niente di niente.
Quella alla spianatoia è mia madre, quella che le gira intorno svogliata e scocciata sono io. Prova tu a essere ignorato e paragonato sempre a qualcuno più bravo di te, poi vedi se hai voglia di aiutare in cucina. Ma questa era casa mia, torniamo alla Madonn da Santet, Madonna della Sanità, la frazione di Locorotondo dove abitava nonno. Si chiamava Oronzo, come il patrono di Ostuni, altro paese bianco rotondo, pare esserci passato Giotto per quanti paesi tondi abbiamo.
Mio padre il nonno lo chiamava, sprezzante, papàronz, con un’unica parola proprio.
La casa di papàronz era fatta di due trulli grandi e una casupola piccola. Il trullo principale per me ha ancora l’odore del pan di Spagna di nonna, anche detto ‘a tort, due dischi inzuppati di liquore, farciti di crema al cacao, ricoperti di crema gialla con codette di zucchero colorato, le famose anesin, che si trovavano anche nella versione monocromatica argento, ma nonna usava quelle variopinte.
Nella casupola c’erano i sacchi di mangime per le galline, per i conigli, e anche i sacchi di grano da portare al mulino per farci la farina. I profumi si sommavano impregnando l’aria. D’estate, in quella casupola con mio cugino, ci riparavamo dal caldo e sciucaven, giocavamo, a capire i giornali che aveva nonno. Una volta spuntò pure un porno. Ridevamo come due scemi senza capirci molto. Quei corpi erano così diversi dai nostri di bambini. Però mi piaceva l’odore della carta stampata. C’era anche una cucina esterna col forno a legna e il camino, per brevità definita u furn, dove mia nonna faceva formaggio, ricotta e pane. Tutto ciò che cucinava lei profumava di amore e dedizione, e per quanto in seguito diventarono concetti odiosi, la sua era ancora una generazione di donne che lottavano per una vita decente senza più guerra. Di quel tempo, mia madre ricordava spesso che la carne era un lusso, che si nutrivano con fef, purea di fave, past e cicer, pasta e ceci, pen tust, pane raffermo, e poche altre cose. Lei diceva in sintesi pen e mazzet, pane e botte. Perché mio nonno era forte, pareva piacerti e poi ti stendeva. Era violento e ha trasmesso la violenza anche a lei, che poi l’ha trasmessa a me. Mio padre era violento uguale, non so se lo fosse di suo, però di solito funziona come in quel gioco in cui gridi “tua!” e passi l’incomodo a qualcun altro. Io ho deciso di chiudere con la tradizione, niente matrimonio niente figli niente rotture, diventando con vergogna e disonore quella che da noi è vacandije, che sarebbe di per sé solo nubile o celibe, ma è come la lettera scarlatta, la prima cosa e forse l’unica che tutti vedono. Di nuovo la vergogna, ma pazienza, altra famiglia fatta di farina, mazzate, bestemmie e lavoro nei campi, case popolari, muffa, candeggina e tristezza a barili. Alla fine sono rimasta più o meno proprio lì, a chilometri di distanza, ma in fondo con le radici ancora in quella terra spaccata dal secco dell’estate, fangosa per la troppa acqua invernale.
Per arrivare da mio nonno si dove superare un passaggio a livello e avevo sempre paura che arrivasse il treno, mica lo sapevo che si chiude se passa il treno. Dandomi della scema, mi spiegarono che non c’era pericolo, ma intanto con l’immaginazione la barra del passaggio a livello era caduta sulla mia testa.
Dopo questo attraversamento pauroso, finita la parte asfaltata, si percorreva un tratturo e dietro la piccola cinquecento si alzava un nuvolone di polvere. In parte si attaccava alla carrozzeria, agli pneumatici, al portabagagli, e quando si rientrava in paese mi vergognavo perché si capiva che avevamo a che fare con la campagna. E anche quando parlavamo a scuola, mi vergognavo perché il dialetto di Locorotondo non è lo stesso di Martina, per esempio loro dicono am sciot for e noi diciamo m sciut fuor, che poi è sempre “siamo andati in campagna”, ma può bastare una vocale in più o in meno, aperta o chiusa, per fare di te uno sfigato o uno che conta. Quelli di Martina contavano e si sentivano superiori a quelli di Locorotondo. Mica lo so perché, Locorotondo è bello tondo bianco, con grande fantasia per il nome, e pure sopraelevato, Martina Franca è più grande, è in collina, ha un centro bianco e l’esterno di palazzi multicolore. Deve essere tutto qui: la differenza di dimensioni e di altezza.
Una volta arrivati, baci di qua, baci di là, quanto mi seccava questa parte, accomodiamoci, sedie, tavolo, offerta di biscotti e liquori e:
«Appicce u geradisc.»
e immancabile, ogni volta che si accendeva il giradischi, che era anche radio, come quella dei vecchi film dei tempi di guerra, partiva il solito 45 giri che elencava una serie di località fino a: bast bast ca m’hai ntruvuliat tutt lu cervieddu. Era la parte che piaceva a nonno, la ripeteva due, tre, quattro volte, finché non lo ntruvuliava lui a noi il cervello, ingarbugliandoci le meningi.
Nonno Oronzo l’ho conosciuto che ero già adolescente, per via di quelle litigate epocali come solo tra gente rurale si fa. Quella gente così povera di tutto da essere ricca solo di alterchi e sfuriate.
Come tutte le piante sopravvissute a tornado tempeste e tsunami, può succedere che il ricordo più vivo sia quello più strano. Il mio è quello di nonno che mi dice chedda p’cinn, perché nella nostra lingua aveva un valore affettivo, protettivo, tenero, incoraggiante, che nessuno degli altri che avevo intorno mi aveva mai trasmesso. Fu il primo a darmi una vaga idea che chedda p’cinn potesse valere qualcosa. Anche se è morto da tanto, quella sua frase rimarrà sempre con me, verrà a galla chissà quando. Ma quando lo farà, sarà una zattera di salvataggio.
Ad accompagnare il racconto, le fotografie di Deborah D’Addetta.