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El formentòn

Autrice
Nicole Trevisan
Ciclo #11 - Spaghetty Dialetty
Narrativa generale
30 giugno 2022

Stavamo verso Tribano, saranno state le nove, nove e dieci. I raggi delle bici ronzavano sopra i grilli, lungo i fossi. Scivolavamo sulla strada bagnata da getti d’irrigazione. Era un’estate caldissima. El formentòn xe seco incarognìo, no te cavi zo gnanca na panocia – il nonno coltivava dietro casa amarezza e mais. Una pianta che veniva dall’altro mondo, quei lunghi peli stesi sui chicchi emergevano dall’incarto di foglie intorno e mi ricordavano capelli femminili, la stregoneria vudù, magie nere.
A go i to zenòci sol coeo. Càvate.
E come fàssoi?
Stíven era installato in piedi sul portapacchi della bici. Nuova, un regalo per la pagella di terza – non a lui.  Lui faceva da scroccone e da periscopio a Giammi, che se l’era meritata a colpi di distinto meno.
Domàn, ciàpa ea Grasiea de to mare,brontolava, pedalando per due; cominciava a non poterne più. Sudava. In lui la fatica tracimava in forma d’acqua senza sublimare in resistenza. Mi ricordava un uovo, per compattezza. Era pieno, completo, il primo di noi a sbocciare verso l’adolescenza, senza avere fretta. A differenza di Stiven, che non era cresciuto granché in altezza e si era inventato una tecnica per guadagnare un paio di centimetri. Te pari on istrice, gli dicevamo: ogni sera si pizzicava le punte dei capelli invischiate di gel, tirandole verso l’alto. Te i perdi, te finissi peà come to pare. Ma gli importava solo della Sofi e la Sofi era cresciuta alla grande.
Non ghe vago al Pin Panter co la Grasiea. Senti, àssame guidare.
Stiven tentò di saltare giù, lasciando l’appiglio alle spalle di Giammi nell’arco stretto di una curva. Si dovette aggrappare di nuovo, avvolgendogli le braccia al collo.
Insemenìo!
– Ebete.
– Non state zitti mai, eh.
Ture non era del posto, ma ci era nato. Era il figlio del carabiniere. Veniva con noi e preferiva sentire l’asfalto strusciare sotto le gomme della bici alle nostre chiacchiere. In diaèto non disea mai gnente, ma lo capiva. Dall’asilo alla terza media, al casoìn, dal prete e al bar, non aveva avuto scelta. Ma aveva scelto di rispondere solo in italiano, un atto di coraggio, perché la lingua era uno status. In italiano parlavano i carabinieri e i professori; se non eri un carabiniere o un professore, eri uno spocchioso, uno che se la tirava. O uno straniero.
Passammo davanti a un grappolo di case decrepite. Dei vecchi sedevano sotto un gelso. Il cortile era smerdato di more e immagino lo fossero anche loro. Ci fissarono, aspettando che scorressimo via.
– Buonasera!
Sventolai un braccio, imitato dagli altri tre. Ci rivolsero un cenno e non una parola: andavamo troppo forte. Attraversavamo orizzonti livellati dal formentòn, che si alzava ai lati della strada, un muro verde di fusti scossi dal verso degli insetti e dal precipitare rado di una pioggia artificiale. Era buio, era già agosto e le sere si accorciavano una dopo l’altra.
‘Scolta, no te pare…
– Che?
Il sibilo dell’irrigatore era scomparso. Sentii dei fari incollarcisi addosso, un’onda salire alle caviglie e rallentarle. Aspettammo l’auto sul ciglio e Ture restò indietro, rivolto alla scia d’asfalto che rimaneva deserta, senza che la scuotessero sussulti di motori o cigolii di altre biciclette in avvicinamento. Eravamo soli. Noi guardammo lui e la sua ombra schiacciata a terra da un fascio verde–azzurro che scendeva da un punto incalcolabile del cielo. E lo separava da noi.
Mona, vien qua!, gridai mollando la bici.
Non mi avvicinai. Mi cacavo sotto. Anche Giammi si fermò, ma non capiva, strizzava gli occhi e dalla bocca gli uscivano solo inizi di parole che non finiva. Fu Stiven il periscopio a vedere la luce che ci stava seguendo. Una sfera, disse, un bagliore compresso, freddo. Parea la gavesse i oci, la me vardàva: l’avrebbe ripetuto un migliaio di volte. Se tentò di ricambiarne lo sguardo e sostenere l’apparizione, non saprei dirlo: lanciò uno strillo e cadde.
L’è un fantasma? I meo gavèva dito, dei fantasmi.
Si agitava, piangeva, si era strappato i jeans e Giammi gli diceva di non fare l’ebete. Ture stringeva le mani al manubrio e balbettava. Io volevo andarmene. Ma ero il più grande, erano i miei amici, dovevo tentare qualcosa. Mi ricordai del telefonino, un Motorola col credito quasi esaurito per colpa di Stiven e dei suoi messaggi alla Sofi: potevo chiedere aiuto!
Lo tirai fuori e scoprii che sullo schermo ogni traccia di ricezione si era dissolta.
No ghe xe pi segnae!
Mi crepitava in mano, mandando una vibrazione malevola dal centro del palmo. Lo cacciai nel marsupio, premendo forte sul tasto di spegnimento. Giuro, lo sentivo ancora, non erano le mie budella.
I xe i fantasmi. I ne còpa!
Dai, alsate. I capita i… sbalsi de segnae. El teefonin de Marco l’è desfà.
Te sarè ti, desfà.
Cominciai a tremare. Sapevo di essere un pauroso, ma avevo mantenuto il mio segreto. I ragazzi non lo sapevano. E mi domandai cosa potessi fare, io che dormivo con la luce accesa, tra due amici che si punzecchiavano e un altro, un napoletano imbambolato sotto la chiazza proiettata da una sfera anomala. Mi costrinsi ad alzare la testa, a guardarla in te i oci. Capii.
I xe… I Aglieni, esalai.
Stiven saltò in piedi e annuì, spolverandosi i vestiti. Valutava l’alternativa agli spettri, gli piaceva perché detestava pensare che la morte fosse reale.
Ndemo verso Tribàn. Al Pin Panter… Qualcuno eo sa. Qualcuno ea gavarà vista, sta roba. Non – no saremo i unici, no?
La sfera si animò di una scintilla inquieta e prese a muoversi, galleggiando a una decina di metri da noi. Scalava brevi correnti di vento, cullandosi come polvere. Aveva contorni sfocati contro il buio, sembrava un grosso pallone. Cosciente. Ture tornò in sé, riuscì ad agganciare i piedi ai pedali e ci raggiunse. Era pallidissimo. La sua faccia non gli si abbinava: lo conoscevamo calmo, posato, straniero, spocchioso. E quella voce non gliela avevamo sentita mai.
‘A Maronn’. Agg vist ‘a Maronn’.
– Che?
I Aglieni, i xe i Aglieni.
No i iera fantasmi?
Corèmo. Via!
– E dove?
Al Pin Panter?
Nel formentòn!
No i ne cata pì, nel formentòn. Ea xente se perde, la gira intorno…
– Marco, corri!
La sfera declinò verso un lato della strada, immergendosi tra le spighe. Ci gettammo su quello opposto, addentrandoci nel campo. Avanzare era sbracciarsi, sporcarsi, prendere di rimbalzo pugni di pannocchia allo sterno. La nostra cultura in rapimenti e avventure aliene era Spielberg, è per lui che abbiamo pensato ad una Nave Aliena, poi. Erano cose da pellicola e il nostro immaginario non si era mai levato così tanto da terra da pensarci protagonisti di qualcosa.
Ci ritrovammo a correre, a ferirci la faccia tra foglie che erano lame, cercandoci a suon di urla, perdendoci. Le radici del mais sono vene di sangue acido, che sgorgano per farti inciampare. E mi parve aliena, l’America col suo mais e Spielberg, almeno quanto quella Nave che ci dava la caccia.
– Sei tu?
Ture mi strisciò dietro la schiena, muovendosi a quattro zampe, e mi gelò il sangue.
I ne còpa, i ne rapisse!
Impugnavo i fusti di due piante morte, tenendoli incrociati a scudo.
– Marco, che cazzo ti prende?
Tasi, pareva che te gavessi visto San Genaro.
– A Maronn’.
E che casso cambia tra ea Madonna, San Genaro e i Aglieni?
– Niente. Credi che un Alieno, la Madonna o San Gennaro si sarebbero fatti fregare da quattro ragazzini? Se avessero voluto, ci avrebbero preso. Sono cose grandi, sai.
Eora? Cossa femo?
– Non so. Se serve che stiamo nascosti, dico. Usciamo, cerchiamo di capire.

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Rientrammo dopo mezzanotte e ci fecero un discreto culo. Stiven raccontò di essere caduto, Ture subì l’insistenza del padre convinto che ci avessero aggredito; Giammi il mattino dopo ci telefonò giurando di aver tenuto il segreto. Io ai i miei dissi degli alieni, di come eravamo fuggiti, del cellulare che non prendeva e vibrava da spento. Pensarono fossi ubriaco e mi misero in punizione. Mia sorella si limitò a indagare se Stiven fosse coinvolto. Il nonno restò zitto. Gli eventi li lasciava scorrere, perché i vecchi lasciano che le cose scorrano. Come quelli che sotto una pioggia di more non videro l’UFO. O pensarono, passerà anche questo.
Io ci credo negli alieni.
Prima mi spaventavano perché pensavo a Spielberg. Alla loro solitudine sulla Terra, così vasta che neanche l’universo. Ma quando uscii dalla giungla del formentòn con Ture, lo guardai scrutare il cielo vuoto come l’avrebbe guardato il pilota della Nave Aliena. Anche lui doveva essere sembrato solo su questa terra, coperta di crepe e piante dell’altro mondo. Una solitudine vasta che neanche l’universo.
E desso?
– Senti, è capitato. A noi e basta. Non ce lo scorderemo mai. Dobbiamo trovare quei due. Li sento insultarsi e non li vedo.
– Ebeti. I se ga perso.
– Si, chei do mona.
Ma… Eora te o parli, el diaèto.
Sorrise, come per scusarsi e chiedermi di non tradirlo. Teneva ai suoi misteri. La sua risata volò sopra ai grilli e ai fossi.
– Parlo ai Santi e alle Madonne. E agli alieni.
Te si strànio, obiettai.
Lui lanciò un’altra occhiata verso l’alto, dove non c’era più nulla. Le stelle se l’erano prese gli alieni, per quella sera. Accettò la mia indelicatezza, ispida erbaccia. Salì in sella. Era riapparsa la Luna.
– Lo so.

A illustrare il racconto: Brecht Bug, *2014 Blue and Purple lit up Christmas Colored Orbs 1122*, visibile su https://www.flickr.com/photos/93779577@N00/15870437761 / A. Seaman, *Cornfields*, visibile su https://www.flickr.com/photos/inthe-arena/15076918709/