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Ketchup suicide

Autrice
Deborah D'Addetta
Ciclo #17 - Spaghetto meccanico
Narrativa generale
15 febbraio 2024

OHAMA
Qualche giorno fa ho morso il cazzo a un cliente. Ho pensato, vaffanculo, prendo una pedata in faccia ma almeno non torna più. Invece quello è tornato, mi ha detto: “Di nuovo”, e ha tirato fuori due banconote da diecimila yen. Per quei soldi gliel’avrei pure masticato e ingoiato. Questa città è cattiva, ti fa fare cose cattive. O forse è solo il quartiere dove viviamo noi, Kabukichō. Mentre sono seduta qui da Tobei, pensando a dove nascondere i ventimila yen, ricordo un articolo di giornale che faceva più o meno: “Top things to do in Kabukichō, the red light district of Tōkyō!”.
Turisti di merda. “Top” per loro significa scoparci a morte nei love hotel o farsi lavare le palle in qualche soapland. Non mi piace questa parola, fa sembrare le cose più decenti di quelle che sono. Io li chiamo nella nostra lingua, sōpurando. Beh, comunque è in uno di questi posti che ho morso il cliente, era straniero – inglese o tedesco, che mi frega – si è spogliato, si è arrapato mentre lo strigliavo col “sapone ai fiori di ciliegio” fornito dalla proprietaria e poi mi ha ficcato il pollice nella fica. Hentai. Il resto non mi va di raccontarlo e comunque non importa a nessuno.
«Tobei, dammi dei cetrioli all’aceto! E un piatto di riso fritto!».
Cazzo, almeno due cetrioli di merda me li posso permettere.

TOBEI
Prima o poi Ohama finirà per farsi ammazzare. Ve lo garantisco. Tutte le ragazze di Lady Wakasa si faranno ammazzare. Vengono qui dopo il turno di notte, siedono tutte e tre al bancone, col cerone sfatto che a malapena copre i lividi, e inventano modi per non scialacquare i due yen che tirano su. Sono puttane, ma io non faccio distinzioni tra i miei clienti: ho una piccola izakaya e il mio compito è sfamare, quindi sfamo anche loro. Quando mi chiedono del riso o del pollo ci aggiungo sempre qualcos’altro, gratis – che ne so, del kimchi o qualche aringa al pepe o un bicchierino di sakè caldo – perché mi fanno pena. Ohama non è la più bella. Ohama è la più arrabbiata. Una volta mi ha lanciato una ciotola di brodo perché era bollente e lei era distratta a pensare chissà cosa e si è bruciata la lingua. Stupida ragazza. La più bella è Miyagi-chan. Purtroppo per lei, è anche gentile. In questo quartiere la gentilezza non serve a niente, le persone la fiutano e se ne approfittano. Una volta, quasi all’alba, me l’hanno portata con la faccia e la schiena distrutte dalle botte. Povera farfalla, quel viso così delicato, rovinato da un bastardo. Lo posso dire solo qui perché se mi dovessero sentire finirei a fette nel brodo del ramen.

MIYAGI
Ci chiamano “le farfalle di Lady Wakasa”, a me, Ohama e Fumiko. Mi piace, è dolce. Ohama dice che sono una ritardata. Fumiko invece non è così crudele. Assomiglia a mia sorella, la maggiore – perché ne ho anche una minore – con quei capelli così neri e lucenti e le labbra appuntite. Per me è lei la più bella tra noi. Lo dice anche Lady Wakasa, che poi non è una lady ma il nostro pappone, un tizio di Hokkaidō di nome Genjurō. Lo dice a tutte, in realtà, a turno e a seconda di come gli gira l’umore. Ci scopa tutte e tre almeno una volta a settimana, per “controllare la merce”. Non è così male, sapete? Quando sono arrivata in città mi ha portata a cena in un locale di Ginza, uno di quelli eleganti. Pensavo fosse un uomo a modo che cercava solo di corteggiarmi, invece poi siamo finiti in un love hotel, mi ha violentata e ha detto: “Da oggi sei roba mia e obbedisci”. Ha fatto lo stesso con Ohama e Fumiko. C’è di peggio comunque, altre ragazze di Kabukichō raccontano che dormono coi cani e sono costrette a succhiare uccelli a tutti senza prendere uno yen. Genjurō almeno non ci separa, a noi tre, e ci lascia dei soldi, anche se prende quasi tutto lui. Certe volte penso che vorrei suicidarmi. Poi però mangio un po’ di fritto col ketchup e mi passa.

OHAMA
I cetrioli di Tobei sono buoni. E anche il riso. Me la cavo con pochi yen. Mi ha anche offerto un piatto di patate al prosciutto. Genjurō non deve sapere del cliente che mi ha dato i ventimila, altrimenti mi ammazza perché non gli ho detto niente e me li sono tenuti tutti per me. Non ho detto niente neanche a Miyagi e Fumiko. Parlano troppo, quelle due. Prima o poi finiranno come cadaveri gettati dal molo Shibaura.

FUMIKO
Ohama si crede tanto furba. Quel cliente tedesco l’ho avuto pure io. Lo so che ha delle strane voglie, lo sappiamo tutte. Che poi non è nemmeno un turista, ma solo uno che ogni tanto viene a Tokyo per lavoro. Me l’ha detto lui. L’ho incontrato in una soapland, aveva chiesto una chōchō che gli pisciasse in bocca. A me non piacciono queste porcherie, ma era un compito facile e pagava bene e quindi ho accettato. La soapland era pure graziosa, un piccolo cubo con l’insegna al neon a forma di saponetta e un tendone rosa mochi. Era anche comoda perché a mezzo chilometro c’era l’izakaya di Tobei. Insomma si è spogliato e si è steso su un lettino cosparso di petali di ciliegio e mentre bevevo un litro di tè si toccava. Esperienza nipponica al completo, signori e signore – sakura, geisha, matcha, hentai! Alla fine sono salita in piedi sul lettino, ma avevo paura di cadere, perché lui era già grasso e pesante e io non sono un fuscello, così mi ha messo le mani sotto la gonna, ha stretto le natiche e mi ha fatto inginocchiare sulla sua faccia. Piscia, ha detto in una lingua incomprensibile, ma comunque io ho capito lo stesso perché sono la più intelligente di noi tre. Ho spostato la mutanda, lui mi ha bloccato la mano. Voleva che restasse al suo posto. Ve l’ho detto, strane voglie. Ha aperto la bocca e ha bevuto tutto il mio tè e nel frattempo l’uccello gli è andato in tiro ed è venuto senza che nemmeno lo toccassi. Mi ha pagata trentamila yen. Li ho nascosti nel bagno dell’izakaya di Tobei perché è il posto più sicuro che mi è venuto in mente.
Chōchō vuol dire “farfalla” in giapponese.

TOBEI
Io voglio bene a queste ragazze, però devo pensare anche ai miei affari. Fin quando si tratta di offrire una birra o una crocchetta fritta allora va bene, ma se ci sono di mezzo soldi è un altro paio di maniche. Quella stupida di Fumiko non poteva trovare un altro posto dove nasconderli? Tokyo è grande, e invece ha scelto proprio la cassetta dello sciacquone del mio bagno. E scommetto che ci stava pensando anche Ohama, a fottermi. Se Genjurō veniva a saperlo mi sparava in fronte e gettava il mio cadavere dal molo Shibaura. Fanno così, quelli là. Così, prima che fosse troppo tardi, sono andato io da lui e gli ho detto: “Lady Wakasa, io vi rispetto, la mia izakaya è casa vostra, perciò eccomi qui umilmente a portare questo denaro che è vostro e che, per una sfortunata coincidenza, è capitato a me”.
Ovviamente non si è accontentato di quella spiegazione. Ha voluto sapere chi. Io gli ho detto la verità e in cambio l’ho pregato di risparmiare Miyagi-chan, che è la mia preferita e pure la sua. Lui ha risposto: “Non ti preoccupare, yūjin – amico mio – me ne occupo io”.

MIYAGI
Tobei-san è gentile invece. Non è come Genjurō. Mi guarda come se fossi una bambola okame, forse pensa che gli porti fortuna. Lui non mi tradirebbe mai, me l’ha detto quella notte che gli uomini di Genjurō mi hanno pestata a sangue. Ero stata al tempio, volevo essere una ragazza normale per una volta. È vero, avevo speso tutti i soldi di un cliente per prendere il treno e andare nella prefettura di Kanagawa – avevo sentito dire che c’era un bellissimo tempio dove le persone pregavano e venivano ascoltate – e quando sono tornata a Tokyo lui e i suoi mi stavano aspettando con una mazza di ferro in mano. Mentre me la picchiavano dietro la schiena, pensavo al tempio di Tōkei-ji, alla sua scalinata infinita, al suo albero di acero dalle foglie rosse come il sangue, al rumore delle canne di bambù mosse dal vento, e pensavo che io venivo da un posto così, che ero nata in un posto così, ma avevo voluto la metropoli, le luci sfavillanti, il caos. Ohama e Fumiko mi hanno poi portata da Tobei-san, chissà perché. Beh, forse perché era l’unica persona di cui ci fidavamo. Mi ha curata, mi ha fatta visitare da un medico e ospitata per la notte. Per ringraziarlo sono andata da lui, mi sono stesa sul suo futon e gli ho permesso di toccarmi le tette. Gli è venuto duro, “Sei bellissima Miyagi-chan” ha detto, “perché non mi sposi? Io non ti tratterei mai così, non ti tradirei mai”. Non ho risposto, ma gliel’ho succhiato e poi lui mi ha preparato una ciotola di tofu e funghi shitake.

Genjurō spalanca il fusuma della taverna. È seguito da tre dei suoi, tutti vestiti di nero, i capelli tagliati cortissimi e i baffetti sottili. Nell’izakaya ci sono le sue tre puttane e Tobei, nascosto da una tendina e dai vapori delle pentole. Nell’aria c’è odore di pollo fritto e aceto di riso. Quando si richiude la porticina di carta alle spalle, tutti sanno quello che sta per succedere. Ohama urla: “Tobei, figlio di troia, ci hai tradite!” e lancia il piatto di riso in faccia a Genjurō. Uno dei suoi la raggiunge, lei prova a scappare, ma la taverna è piccola, si ripara il viso con le braccia e si appallottola a terra, la calza a rete si apre sul ginocchio, Fumiko e Miyagi si stringono l’una all’altra. L’uomo tira fuori un coltello e comincia ad affettarla, sulle braccia, le gambe, il viso, schizzi di sangue dipingono la carta di riso delle pareti, Ohama non urla, dal reggiseno le cadono due banconote da diecimila yen. L’uomo le raccoglie, le passa a Genjurō e poi la pugnala allo stomaco, una, due, dieci volte. Ohama si accascia a terra come una bambola okame rotta.
Tobei continua a friggere pollo. Fumiko si alza, indietreggia, lo sa che sono lì anche per lei, perché ha nascosto i soldi del trippone tedesco nel bagno di Tobei, ma non vuole morire così. Il secondo uomo di Genjurō le punta una pistola contro, poi le indica il bagno con la canna. Fumiko obbedisce, mentre cammina all’indietro come un gambero afferra di nascosto una bacchetta di legno. Miyagi la vede, comincia a tremare. Sa che alla fine toccherà anche a lei. Il secondo uomo si chiude con Fumiko in bagno, lei urla, rumori di cose che cascano e si rompono, di schiaffi sulla carne, poi un’imprecazione, è lui che viene infilzato al collo dalla bacchetta. Non basta, l’uomo spara. Miyagi non può vederlo, e nemmeno vuole, ma il bagno è un groviglio di sangue, merda e pezzi di cervello sparsi sul soffitto. Quando torna nella sala, l’uomo si preme una mano sul collo.
«Tobei, amico mio» dice Genjurō, sedendosi sullo sgabello che era stato di Fumiko, «fammi una porzione di beni shōga in tempura. Anzi due, la mia farfalla preferita qui ha fame, non è vero?».
Miyagi annuisce, si stringe le mani tra le gambe. Quando Tobei appoggia sul bancone due piatti colmi di zenzero rosso fritto, lei lo guarda. Con gli occhi gli dice: “Avevi detto che non mi avresti mai tradita”; lui, allo stesso modo, le risponde: “Non l’ho fatto”.
«Posso avere del ketchup?» finisce per dire.
Tobei glielo porta. Genjurō infila la mano tra le cosce di Miyagi. Ha le dita congelate.
«Lo sai che sei la mia farfalla preferita, vero? Tu non mi hai nascosto dei soldi, vero?».
Il terzo uomo si piazza davanti alla porticina d’ingresso, gli altri due si siedono a destra e sinistra del bancone – subito Tobei serve loro due birre ghiacciate. Miyagi scuote la testa. Tutti cominciano a mangiare e bere in un silenzio funereo. Solo da fuori arrivano i rumori della metropoli, clacson, risate, musichette dei karaoke bar, le voci sensuali delle donne sui pannelli pubblicitari che invitano a comprare quel profumo o quel cellulare. La città si muove, dilata i suoi polmoni di cemento e neon, corre. Miyagi pensa di nuovo al tempio di Tōkei-ji, al suo albero di acero rosso. Guarda nel suo piatto: zenzero rosso. Guarda le pareti di carta di riso: il sangue di Ohama. Guarda la bottiglia di ketchup: rosso anche quello. Manca solo il suo, di sangue.
All’improvviso, il terzo uomo scatta in avanti. Miyagi chiude gli occhi, è finita. Sente lo spostamento dell’aria, si conficca le unghie nella carne delle cosce, poi sente il bancone tremare e il rumore di un paio di scarpe che sbatte sul pavimento di legno. Tobei urla. Miyagi apre gli occhi. L’uomo è saltato dall’altra parte e sta strangolando Tobei con la corda della tenda.
«Non mi piacciono i ruffiani» dice Genjurō, ficcandosi in bocca un pezzo enorme di beni shōga, «soprattutto quelli che si scopano le mie farfalle».
Miyagi osserva la faccia di Tobei diventare blu. Un pensiero curioso le attraversa la mente: sembra una maschera del teatro kabuki.
«Tu non sei una ruffiana, vero, chōchō?» aggiunge.
Poi afferra la bottiglia di ketchup e ne versa un po’ nel piatto di Miyagi.
«Mangia, più tardi andiamo a bere qualcosa a Ginza, eh? Solo il mio meglio per la mia farfalla preferita. Prima però, andiamo a buttare questi sacchi di merda dal molo Shibaura».
Miyagi guarda la pozza di ketchup allargarsi sulla ceramica bianca. Un altro pensiero curioso: forse il piatto è una izakaya in miniatura e la salsa non è altro che il sangue di Ohama e Fumiko.
“Sì”, pensa infine, “prima o poi vorrei proprio suicidarmi”.

A illustrare: Sofia Novosel “The Waiting girl”; Simon Quadrat “Woman in the bath”; Barbara Kroll painting.