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La strada per il mare

Autore
Filippo Avigo
A scelta dello Chef
Narrativa generale
4 marzo 2023

Forse è per la luce che filtra sotto la porta – o per il caldo, non so – fatto sta che non riesco a prendere sonno nemmeno ficcando la testa sotto il cuscino. La mamma mi ha costretto ad andare a letto molto presto, come sempre la sera prima di partire per le vacanze, e io cerco di dormire ma non è per niente semplice.
La TV è ancora accesa, chissà cosa stanno guardando lei e il babbo. Per distrarmi provo a ripetere la formazione della Virtus, come se contassi le pecore. 00 Cordinier, 1 Mannion, 3 Belinelli, 6 Pajola…Ricordo tutti i giocatori senza doverci pensare, anche se pronunciare i loro nomi mi fa venire il magone. Quest’anno il babbo non mi ha mai portato a vedere una partita e abbiamo pure perso la finale dei play-off.
Meglio passare ai gusti di gelato della cremeria di via Santo Stefano – li devo dire di seguito, come sono scritti sopra la cassa – e poi alle macchinine della mia collezione, bene in ordine sullo scaffale della libreria
Passo un sacco di tempo a scorrere elenchi senza che mi venga sonno, in compenso non riesco quasi più a trattenere la pipì. Non vado in bagno solo perché ho paura di farmi sentire: immagino il babbo che grida: Pietro, che fai ancora sveglio? Quindi aspetto che vadano a letto anche loro.
Le lenzuola cadono per metà sul pavimento e a me viene di nuovo da pensare alle vacanze. Oggi pomeriggio ho aiutato la mamma a preparare le valigie e mi pare siano a posto. Solo che succede così ogni anno: prima di partire è tutto pronto, ma quando arriviamo al mare ci accorgiamo di aver dimenticato i costumi da bagno, oppure gli occhiali da sole. Talvolta anche le mutande. E al babbo queste cose non piacciono per niente.
Prenotiamo sempre lo stesso monolocale in un residence. È comodo, quando non c’è traffico si arriva in poco più di un’ora. Ma a fine luglio di traffico ce n’è sempre e il viaggio dura almeno il doppio.
Un po’ di mare ce lo siamo meritato. Ci farà bene. Questa cosa la dicono ogni giorno, più o meno a partire da marzo. E l’appartamento lo prenotano per l’estate successiva quando riconsegnano le chiavi all’agenzia, alla fine della vacanza. Sono molto convinti, i litigi che accompagnano i quindici giorni a Cesenatico a loro non danno fastidio.
«Non sarebbe meglio rimanere a casa, quest’anno?» ho chiesto una volta, un’estate in cui stavo ancora male per una tonsillite e dovevamo partire il giorno dopo. La mamma mi ha sorriso e ha aperto il trolley sul letto sfatto. Poi mi ha spettinato i capelli con una carezza e ha risposto con una domanda.
«Che senso avrebbe stare a casa, se possiamo andare al mare?»
È così che ho capito che alla loro villeggiatura non rinunceranno mai. E adesso non chiedo più niente, nemmeno quando l’ansia mi fa venire mal di pancia.
Questo pomeriggio ero abbastanza calmo e ho preparato tutto per bene, seguendo uno dopo l’altro i movimenti che faceva la mamma. Li ho ripetuti uguali uguali e in poco più di un’ora i bagagli erano pronti. Poi ho controllato due volte la mia valigia e pure quelle che ha preparato lei. Sono sicuro che non ha dimenticato niente, erano talmente piene che quasi non riuscivo a richiuderle.
Adesso, con il buio, mi viene di nuovo da preoccuparmi, ma forse è normale. Sarebbe un peccato arrivare a Cesenatico e accorgersi che qualcosa è rimasto a casa. Quando la vacanza inizia con urla, insulti e musi lunghi mi viene sempre un gran mal di pancia. E di solito va a finire che la mamma non mi lascia neppure fare il bagno.
Forse anche per questo non riesco a dormire, non solo per il caldo. Le lenzuola sono finite a terra, ma non mi va di raccoglierle. Piuttosto provo a ripassare di nuovo tutti i modellini di auto della mia collezione, che cerco di immaginare appoggiati in ordine sulla libreria. Già che ci sono ripeto i giocatori della Virtus e faccio l’appello dei compagni di classe, dalla A di Accorsi alla Z di Zanetti.
Ora la pipì è quasi insopportabile, manca poco che me la faccia addosso. Proprio un bell’inizio per la nostra vacanza.
Il babbo ciabatta in corridoio, poi il cigolio del frigorifero – sono anni che fa quel rumore, chissà perché non si può aggiustare – annuncia l’ultima birra della serata. Dopo qualche minuto la mamma dice una parolaccia – forse per le pantofole che il babbo trascina di nuovo fino al bagno – e fa capire che è davvero tardissimo. La luce sotto la porta si trasforma in un riflesso azzurrino e presto mi arriva solo il grugnito del babbo che russa.
Non credo di resistere, finisce che faccio davvero la pipì a letto. Però ora lui non può sentire e forse la mamma si è addormentata. Lei dorme sempre sul divano, davanti alla TV. Può essere il momento giusto per rischiare. Mi alzo senza fare rumore, raggiungo il corridoio a piedi scalzi e in pochi passi arrivo in bagno.
Il cuore mi batte forte, trattengo il fiato, allungo le braccia nel buio. Faccio scorrere una mano sul bordo della vasca mentre muovo, adagio, un passo dopo l’altro.  Alla fine della vasca c’è la tazza del water, ormai è fatta. Mi pare già di sentire il sollievo della pancia che si svuota. Però non devo fare rumore. E non devo neppure far cadere gocce di pipì sul pavimento. Nemmeno una. Accosto la tavoletta al muro, abbasso piano le mutande e mi siedo come le femmine. Tanto non mi vede nessuno.
Che sollievo. Faccio un respiro profondo e chiudo gli occhi.
«Sei ancora sveglio?» La voce della mamma è un sussurro, mi fa salire un brivido al collo.
«Mi scappava la pipì, scusa. E mi sono seduto per non farla fuori» provo a spiegare.
«Bravo, hai fatto bene.»
Lei chiude la porta alle sue spalle e si siede sul bordo della vasca. Non sembra voglia sgridarmi.
«Però adesso è meglio se vai a dormire» dice dopo un silenzio molto lungo.
«Va bene, ora torno a letto.»
«Bravo. E fai la nanna.»
«Secondo me abbiamo preso tutto» dico, tirando su le mutande e infilandoci dentro la canottiera. «Vedrai che quest’anno non dimentichiamo niente» aggiungo, avviandomi verso il corridoio.
La mamma sposta di lato le ginocchia per lasciarmi passare.
«Certo, non dimentichiamo niente.»
Esco dal bagno e torno in camera, mentre lei mi segue fin sulla soglia. Aspetta che mi metta a letto e rimane in piedi, con la schiena appoggiata al muro. Poi si muove adagio verso di me, ma dopo due passi si ferma e torna indietro. Si appoggia ancora al muro e fa un respiro profondo. Anch’io faccio un respiro e chiudo gli occhi. Ma li riapro quasi subito, appena si avvicina di nuovo per sistemare le lenzuola e passarmi una mano tra i capelli sudati.
«È molto tardi e fa caldo, ma tu cerca di dormire» dice ancora, prima di appoggiarmi un bacio sulla fronte e allontanarsi, lasciando la porta socchiusa.
Quando la luce del mattino inizia a filtrare tra le persiane ho gli occhi spalancati e un po’ mal di testa. Credo di non aver dormito nemmeno un minuto. La mamma verrà a chiamarmi tra poco, rimane giusto il tempo di controllare ancora la valigia. Le magliette e i pantaloni ci sono;  pure una felpa, nel caso dovesse rinfrescare. Costumi, pinne e bocce sono sicuro di averli visti…Anche se a bocce non giocherò, alla mamma e al babbo non piace e a me non verrà di certo voglia di fare amicizia con il primo sconosciuto che incontrerò in spiaggia. Le scarpe sono nella tasca interna del trolley, le ho viste, ma le ciabatte? Sono la prima cosa che ho preso. O no? Forse è meglio controllare ancora.
Adesso la testa inizia a darmi fastidio davvero. Per forza, mi dico, non ho dormito. Mi alzo dal letto e tiro su le tapparelle pianissimo,  che non è proprio il caso di fare baccano a quest’ora. Poi frugo di nuovo nella valigia – accidenti, metterò tutto in disordine – ma non trovo le ciabatte. Ah no, eccole, non ricordavo di averle sistemate in una busta, accanto ai costumi.
Mi sento uno straccio, eppure mi viene una gran fame. Vorrei andare in cucina e sgranocchiare qualcosa prima della colazione. Che poi dire colazione è esagerato. Di solito la mamma mi fa mangiare una brioche confezionata e scalda, troppo, una tazza di latte che mi brucia la lingua. È questa, la colazione. Niente di goloso, ma basterebbe, così potrei prendere una pastiglia e questo fastidioso dolore magari passerebbe.
Sulla scrivania sono appoggiati i bermuda e la maglietta che la mamma mi ha fatto preparare ieri sera. Qualche lacrima mi scende sulle guance, non riesco a trattenerla neppure piantandomi le unghie nelle mani. Mentre mi vesto cerco nelle tasche un fazzoletto. Niente, non lo trovo; anzi, mi sa che anche nel trolley non ce ne sono, né di stoffa, né di carta. Alle lacrime si aggiunge un singhiozzo che riesco a soffocare. Per non fare rumore. Poi recupero i fazzoletti dal primo cassetto e li infilo in valigia.
Torno vicino al letto e tiro su dal pavimento le lenzuola. Poi le stendo bene e le rimbocco sotto il materasso. Sto già meglio. Prendo in mano le scarpe e mi avvicino alla porta trattenendo il respiro. Vado in cucina con la stessa cautela con cui sono andato in bagno poche ore fa.
Una fitta mi prende allo stomaco: stanno già facendo colazione tutti e due, seduti in silenzio al tavolo apparecchiato.
«Ti scaldo il latte» dice la mamma con un sospiro. Quando è pronto lo versa in una tazza e me lo porta insieme alla brioche confezionata.
«Io ci sono, quando volete possiamo partire» dico, appena finisco di bere un bicchierone d’acqua che mi aiuta a buttare giù la pastiglia per il mal di testa e ad alleviare l’ustione alla lingua.
La mamma posa nell’acquaio le tazze sporche, il babbo si alza e va in bagno. Poco dopo scendiamo in garage con tutti i trolley e le borse che abbiamo preparato. Li carichiamo nel bagagliaio e la mamma siede sul sedile accanto al posto di guida, mentre il babbo apre il portone.
«Abbiamo chiuso tutto? Sicuri?» chiede poi lui mentre torna verso l’auto, con una voce stridula che non sembra la sua. «Le luci sono spente?» aggiunge, e mi tornano in mente tutte le volte in cui quella voce aveva anticipato una sfuriata.
Ha ragione, forse ci siamo dimenticati di chiudere la porta che dall’appartamento scende in garage. Non ci sarebbe da stupirsi, con la quantità di bagagli che ci portavamo dietro. Oppure abbiamo lasciato accesa la luce delle scale. Meglio tornare indietro a controllare, ci vuole un attimo. Faccio un cenno al babbo e corro verso le scale. Le luci sono spente e, in cima, la porta è chiusa. Meglio, i miei capiranno che di me si possono fidare. Ridiscendo i gradini a saltelli, mi sento più leggero.
Solo quando arrivo in garage una voragine mi si apre nella pancia: sento il motore che accelera, ma l’auto non c’è più. Corro fuori e la vedo che già svolta in fondo alla via, verso l’autostrada. Intuisco un movimento delle labbra della mamma, sta dicendo qualcosa al babbo ma non capisco cosa. Sono troppo lontani.
Rimango in piedi a guardare il traffico. Conto le auto una dopo l’altra, non so fino a quando. Poi inizio a camminare avanti e indietro sul marciapiede, sbirciando ogni tanto l’angolo in fondo alla via. Ma il babbo e la mamma non si vedono, forse non si sono ancora accorti di nulla.
Adesso fa davvero caldo, sono costretto a rifugiarmi nell’angolo che la nostra casa forma con quella dei vicini, dove arriva un po’ di ombra. Però mi viene da sudare lo stesso.
Mi siedo per terra, con le ginocchia strette al petto tra le braccia. Anche da qui si vede un pezzo di strada. Ma il sole ormai è molto alto, di macchine non ne passano più.


A illustrare il racconto: Pierre Auguste Renoir, “Coucher de soleil à Douarnenez” , 1883, 53,7 x 64,4 cm, olio su tela, Albertina, Vienna, Austria.