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La taverna dei gabbiani

Autore
Iago Menichetti
Fuori menù
Narrativa Generale
24 febbraio 2022

«È la terza briscola che gli fai fare, bischero!»
«Mi confondo con i segni, lo sapete.»
«Possibile tu non abbia ancora imparato le regole? Sono vent’anni che giochiamo.»
«E da vent’anni ti ripeto che a briscola in tre non so giocarci.»
«Babbo con chi stai parlando?»
Le carte si dileguarono, come i suoi compagni seduti intorno al tavolo. Rimase solo il vecchio padre insieme al figlio.
«Babbo, ci sei?»
Il vecchio si guardò intorno: nonostante fosse stato abbandonato da anni, il lungomare di Marina restava uno spettacolo. Il più bello del mondo, ripeteva sempre Filippo, mentre Roberto di solito scuoteva la testa o si prendeva con il regio di picche la sua regina.
Da una decina di anni il bar aveva chiuso per avvenuto decesso dei proprietari, ma nessuno si era preso la briga di buttarlo giù o forse era lui che non aveva voglia di decedere a sua volta. Così era rimasto lì, insieme ai tavolini logori della Sammontana.
«Scusa, vecchi amici. Molto rumorosi.»
«Tutti i tuoi amici lo sono.»
«Lo erano.»
Il figlio sorrise. Rivolse la testa verso il mare: una leggera coltre di nebbia lasciava intravedere poche onde placide. Si tiravano dietro un venticello insidioso che lo colse alla sprovvista, così si strinse bene nel cappotto nero, battendo i piedi.
«Mi sarei dovuto portare almeno un cappello.»
«Lo sai che Marina è infestata da fantasmi?»
«Babbo non ho più tredici anni.»
«Quando senti il vento soffiare col mare calmo è perché ci sono i fantasmi intorno che parlottano. Arrivano anche col giorno, perché si annoiano e cercano compagnia. Tu sei troppo giovane per vederli. Per noi vecchi è diverso.»
«Non sei così vecchio.»
Il padre guardò suo figlio: era decisamente più bello di quanto lui fosse stato, chiaramente aveva preso dalla madre, del resto lui alla sua età aveva già perso tutti i capelli.
L’altro si accorse di essere squadrato.
«È da tanto che non passiamo un po’ di tempo insieme noi due.»
«Quando torni vai sempre da tua madre.»
«Non lo faccio apposta, mi viene spontaneo.»
«Non devi giustificarti. Come sta?»
«Mamma? Bene. Giulio l’ha portata alla casa sul lago questo fine settimana, voleva staccare un po’ dalla città.»
Il padre abbassò lo sguardo.
«Potresti chiamarla ogni tanto, anche solo per sapere come sta. Le farebbe piacere.»
«E se mi risponde lui?»
«Gli parli. Non mangia mica, sai. È un uomo amabile.»
Come può il lago essere preferito a un universo così vasto come il mare? pensò il vecchio.
Nonostante Marina fosse un poco più che un’appendice del paese, a un quarto d’ora dal centro storico, ai tempi poteva vantare un certo affollamento: nelle belle giornate, torme di coppiette andavano a mangiare il gelato o portavano a spasso il cane, mano nella mano, mentre fuori dai ristoranti avvenenti camerieri gareggiavano a convincere più clienti possibili della bontà dei loro menù. Le cose cambiarono quando il paese stesso cominciò a spopolarsi. Non ci volle molto: più la paura del futuro è grande, più i cambiamenti sono repentini. I giovani avevano lasciato il borgo nativo in favore delle promesse urbane e Marina, una morte degli autoctoni dopo l’altra, si era trasformata in un album di edifici senza vita.
«Babbo, ti ho chiesto di vederci perché devo dirti una cosa.»
Lo sguardo del vecchio si era smarrito dietro la scia di un ricordo: «Non lì, rincoglionito», sentì dire a Filippo, «Girati che la Taverna è sempre stata dall’altra parte. Guarda, lì, vicino al porto».
L’uomo indicò al figlio i resti di un edificio in fondo alla passeggiata.
«Lo vedi laggiù? Quel rudere tutto scalcinato?»
«Babbo hai sentito cosa ti ho detto?»
«Ci crederesti che una volta quello era un ristorante gestito da due fratelli? Due figuri che non ti puoi nemmeno immaginare. Questa te la devo raccontare.»
«Io e Alice aspettiamo un figlio. È al quinto mese. Non era programmato ma non abbiamo fatto nemmeno niente per evitarlo ed eccoci qua. Fatto, te l’ho detto.»
Nel confessare il figlio si fece piccolo piccolo dentro al cappotto. La voce gli si era incrinata, ma proseguì.
«Lo so, forse sono un po’ troppo grande per avere il primo figlio, o forse è Alice che è troppo giovane. Magari tutte e due. Però lei è così felice e convinta di tenerlo che non riesco a dirle di no. Non riesco a dirle proprio nulla a dire il vero. Le sto andando dietro passivamente come un automa.» La parole gli si facevano sempre più pesanti in bocca. «Non so davvero cosa fare. Ho paura di non esserne in grado. Ho pensato anche a scappare, prendere tutto e puf! sparire.» Si concesse un grande respiro: «Senti, come si fa a crescere un figlio?»
La risposta ci mise un po’ di tempo ad arrivare.
«Tua madre cosa ha detto?»
«Non lo sa.»
«Che?!»
«Lo sai che su queste cose si agita, e quando si agita diventa intrattabile, per questo volevo prima parlarne con te.»
Il vecchio sospirò. Si guardò prima a destra, poi a sinistra. Niente. Filippo e Roberto stavolta tacevano. I soliti infami, pensò, sempre a pontificare, ma quando c’è bisogno davvero di un consiglio mai che tu riesca a trovarli. Così mise una mano sulla spalla del figlio e con l’altra tornò a indicare il rudere in fondo alla passeggiata.
«Quella sera non si trovava più un ristorante con la cucina aperta…»
Il figlio spalancò le braccia così tanto che per poco non finì all’indietro con la sedia.
«Ti dico che aspetto un figlio e tu continui con i tuoi deliri!»
Il padre strinse la stretta sulla spalla.
«Ascoltami, per favore. Quello fu il primo appuntamento con tua madre.»
Silenzio. Il vecchio lo prese come assenso e proseguì.
«Come ti dicevo, tutti i ristoranti ci stavano rimbalzando. Non avevo prenotato, pensavo fosse più carino portarla qui sul mare e fare scegliere lei, il problema è che sono arrivato in ritardo all’appuntamento. Discretamente in ritardo.»
Il figlio ridacchiò.
«L’hanno sempre mandata in bestia i tuoi ritardi.»
«Sì, sono parte del mio fascino. Comunque, passeggiavamo sul lungomare alla disperata ricerca di qualcosa di aperto. Lei mi aveva messo il muso, sai com’è quando ha fame, e questo giocava drammaticamente a sfavore del mio brillante piano.»
«Fammi indovinare: avevi progettato una cenetta a lume di candela sul mare, una camminata passata a leggere le parole del Poeta incise sulle lastre del porto e infine un bacio romantico al chiaro di luna, circordati dalle barche.»
«Come fai saperlo?»
«Ho appena descritto l’appuntamento medio del novanta per cento delle coppie di queste parti. Inoltre anche io feci lo stesso con Alice la prima volta che è venuta a trovarmi.»
«Hai preso qualcosa anche da me allora.»
Le risate del figlio si tramutarono in un sorriso complice.
«Insomma, stavo per perdere le speranze, quando tua madre mi indica un’insegna che non avevo mai notato: tutta in legno, sembrava il rimasuglio di scena di qualche vecchio film in costume sui pirati, e anche i tavoli e le sedie, sotto la tettoia interna, erano poco più di un’accozzaglia di legno e paglia. La taverna dei gabbiani si chiamava. Entriamo qui, disse lei. Io le feci notare che non c’era nessuno seduto dentro e di solito non è un buon segno, ma non sono mai stato bravo a farle cambiare idea, così alla fine ci sedemmo. Sul momento non ci accolse nessuno e la situazione si stava facendo davvero critica visto che avevo già dato fondo a tutto il repertorio di aneddoti e bischerate, nel disperato tentativo di scucirle un sorriso. Non sapevo più dove sbattere la testa, quando…»
«Arrivarono i due fratelli.»
Il padre, come ringalluzzito, saltò su dalla sedia per dare corpo alla scena.
«Pincopanco e Pancopinco. Uguali! Uguali ti dico. Giusto un filo più secchi, però alti uguali, gambe lunghe uguali, stessa giacca di lana verde, stesso fiocco rosso al collo. Ci vennero incontro a balzelli, presentandosi ritmicamente, come se l’uno fosse stato pensato per finire le parole dell’altro. Non so che dio li abbia progettati a quei due, ma mi devo complimentare perché non avrei saputo fare di meglio. Comunque arrivarono con quattro piatti di tonno alla griglia, con contorno di patate al forno, pomodorini e un filo d’olio a impreziosire. Li servirono prima a tua madre poi a me, infine presero altre due sedie, si servirono a vicenda e iniziarono a mangiare, non senza averci dato il buon appetito.»
Il figlio sollevò un sopracciglio.
«Ma quindi avevate ordinato.»
Il vecchio si rimise a sedere.
«No. Questo è il bello.»
«Non capisco.»
«Nemmeno tua madre, infatti disse a Pincopanco, o forse a Pancopinco, che doveva esserci uno sbaglio: pensavamo il ristorante fosse aperto e non volevamo disturbare una cena privata. Loro ci risposero che non c’era stato nessuno sbaglio, solo odiavano cenare da soli, perché si conoscevano dalla nascita e ormai si erano detti tutto quello che potevano dirsi, così avevano aperto un ristorante per intavolare conversazioni interessanti.»
«Mi stupisco che mamma non sia scappata di corsa. È quel che avrei fatto io.»
«Te lo ripeto: aveva fame. Poi non ce ne dettero nemmeno il tempo perché Pancopinco, o forse era Pincopanco, senza troppi preamboli, fissò tua madre negli occhi e le domandò: cosa vorresti avere dalla vita?»
«Alla fine nemmeno tanto una domanda invadente.»
«Lei ebbe un singulto. Non rispose. Più che spaventata capii che era imbarazzata, allora chiesi il perché della domanda e per tutta risposta l’altro fratello si alzò, corse dentro al ristorante e se ne ritornò poco dopo con una cesta colma di bottiglie vuote con dentro dei fogli. Dei veri messaggi in bottiglia, proprio quelli classici che si leggono nei romanzi. Ci raccontarono che ogni giorno, su quella tettoia, un gabbiano recapitava un messaggio. Non avevano mai scoperto da dove venissero le bottiglie, avevano tutte forme diverse come anche i fogli dentro, ma non se ne perdevano di leggere una. Era il loro rito del risveglio, da consumare a colazione insieme a brioche e cappuccino. Le lettere contenevano un’umanità vasta e, a loro dire, sempre incompiuta: c’era l’impiegato di Milano che sognava il mare e voleva risparmiare abbastanza da comprare una casa lungomare con cui invecchiare insieme alla sua bella, la futura sposa innamorata in realtà dell’amica che vorrebbe non avere così tanto terrore di provare a baciarla o la donna anziana che desiderava mangiare, solo un’altra volta, la zuppa del marito, ché da quando lui è morto non smette di provare a cucinarla ma non ha mai lo stesso sapore di quella che le cucinava lui.»
«A proposito, il tonno com’era?»
«Non male. Un pelo troppo cotto per i miei gusti.»
«Tu lo mangi praticamente vivo.»
Il padre non seppe ribattere, era ancora così. Certe abitudini non cambiano mai.
«Ci parlarono di tante altre lettere. Per loro era un modo di conoscere l’umanità, come del resto il mangiare insieme agli altri. A noi non serve spostarci in città, disse Pincopanco, da questa taverna sul lungomare possiamo conoscere il mondo, almeno finché abbiamo il nostro pescino sulla griglia e i nostri gabbiani, concluse Pancopinco. E in fondo era difficile dar loro torto: possono abitare nella più grande metropoli come in un paesino di poche anime, ma alla fine le persone desiderano e temono sempre le solite cose: amore, successo, non sentirsi soli, stabilità e figli.»
Sull’ultima parola, il padre riconobbe un suo riflesso dentro gli occhi del figlio.
«Mamma rispose mai alla domanda?»
Il vecchio rise.
«Si prese il suo tempo. È a lunga decantazione quella donna. Intanto, mentre ascoltava in silenzio i due fratelli, mangiò tutto il suo tonno, compreso il contorno.»
«Ma lasciò un poco di patate.»
«Come sempre. Poi approfittò di una raro momento di silenzio al tavolo e disse: “La leggerezza. Vorrei la leggerezza. Non sentirmi addosso le cose sempre così pesanti”. Rispose solo questo. Niente altro.»
«E tu allora che hai fatto?»
«Mi sono innamorato. Che altro potevo fare!»
Il figlio scosse la testa.
«Eri già senza speranza prima che nascessi.»
«Ci fu anche un dolce dopo il tonno. Una roba cioccolatosa, non ricordo bene, sai che i dolci non li amo, però visto che mangiarono insieme a noi anche quello, pensai che Pincopanco e Pancopinco ci avrebbero offerto la cena. Col cavolo! Fu un salasso, infatti non ci tornai mai più. Però tuttora gli voglio bene a quei due, visto che senza di loro il brillante piano non avrebbe certo funzionato.»
Il vecchio sollevò un braccio e chiuse lentamente il pugno, per stringere una mano così nitida nel suo ricordo.
«Ci facemmo insieme tutto il resto della passeggiata, leggevamo un verso del Poeta a testa e a me pareva che d’intorno non ci fossimo che noi, il mare, il cielo e le stelle. Poi, arrivati in fondo, provai a baciarla. Lei ricambiò, ma subito dopo mi si strinse forte al petto, dove nascose la faccia. Me la sentivo tremare addosso, così l’abbracciai con tutta la tenerezza che avevo, nell’attesa di rincontrare i suoi occhi. Sai, solo un’altra volta nella mia vita ho sentito così forte il desiderio di proteggere qualcuno: è stato quando ti hanno messo nelle mie braccia.
Prima ti avevo visto solo attraverso un vetro, nella culla vicino agli altri neonati. Eri lontano, mi sembravi un cosetto così alieno, non capivo bene com’eri fatto, ma quando ti ho tenuto e ho potuto vederti bene, ho provato la stessa emozione che mi regalò tua madre al chiaro di luna: sentii che quel momento era tutto ciò che volevo e che non l’avrei mai voluto scambiare con nient’altro al mondo.»
La mano si aprì, lasciando andare via il ricordo. Il figlio si spostò con la sedia vicino al padre.
I due rimasero un poco in silenzio ad ascoltare il mare.
«A volte capita che mi imbamboli a fissare Alice. Mi fermo a guardarla mentre è seduta a casa a lavorare o a guardare qualcosa al pc. Lei non se ne accorge, almeno spero, sto attento a non farmi beccare. Per me ogni volta è come tornare al museo a vedere quel quadro che adori: non importa quante volte tu l’abbia già visto, ogni volta ci scopri qualcosa di nuovo o ti fa sentire un’emozione diversa. Anche se i giorni passano, e ci sono quelli sì e quelli no, che sono sempre tanti, troppi, quel quadro continuerà comunque a comunicarti qualcosa. Ti parlerà in un modo suo, tutto speciale.»
«E allora non smettere di guardarla.»
«Che vuol dire?»
Il vecchio padre si girò verso suo figlio.
«Prima mi hai chiesto come si fa a crescere un figlio e io ti rispondo: non smettere di guardarla. Nessuno ha idea di come si faccia a tirare su un figlio, nemmeno quelli che l’hanno già fatto. Si prova a fare meno cazzate possibili e a essere delle persone un po’ meno orribili, ma tanto prima o poi qualcosa si sbaglia. Allora arriverà la paura, il senso di impotenza, la rabbia e infine la stanchezza. In ognuno di questi momenti tu non smettere di guardarla. Stringi forte quel quadro e ti ricorderai del perché lo stai facendo.»
Un piccola onda si ruppe sugli scogli vicino al lungomare. La spuma colpita dai raggi del sole risplendette un poco nell’aria prima di riunirsi al mare.
Il figlio si alzò dalla sedia e andò ad abbracciare suo padre: «Grazie, babbo.»
L’abbracciò per un tempo che poteva essere un attimo come per sempre, quindi lo salutò con una pacca sulla spalla e se ne andò, sparendo dopo pochi passi, inghiottito dalla coltre di nebbia.
Il vecchio si voltò verso il tavolo del bar e ritrovò Filippo che si apprestava ad andare via insieme a Roberto, col mazzo di carte in mano.
«Ora risbucate fuori, infamacci. Quando c’è bisogno di voi invece… Mio figlio aspetta un bambino sapete, è venuto a dirmelo. Lui e la sua ragazza sono al quinto mese. Sono due bravi ragazzi, una bella coppia. Lo cresceranno per bene. Ne sono convinto.»
«Ma senti.» replicò Filippo.
«Vorrà dire che domani c’hai la spuma pagata.» aggiunse Roberto.
«Però magari prima ripassati due regole della briscola.»
Appena finito di parlare, Filippo si confuse nella nebbia, seguito poco dopo da Roberto. La coltre crebbe, si addensò così tanto da nascondere ciò che restava del bar, i tavoli logori della Sammontana, poi passò agli edifici intorno, compreso il vecchio rudere che una volta era stato la taverna dei gabbiani. Alla fine tutto il lungomare sparì nella nebbia.
Restò solo il vecchio a ricordare ciò che non riusciva più a vedere, mentre farfugliava disperso in una cortina grigia di ricordi: «Lo sai che Marina è infestata da fantasmi?»


Ti sento, si ferma la macchina del tempo
E non sei più mia

A illustrare il racconto, Blue painting di Mark Rothko.