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L’intenzione

Autore
Thomas Lehn
Ciclo #12 - Spaghetti Montecristo
Narrativa generale
24 novembre 2022

Enzo doveva grattarsi la schiena in un punto che non riusciva a raggiungere. Di fronte a lui, due giovani ragazzi esploravano un’intimità calda e appagante attraverso un bisbiglio discreto. Era mai stato così con sua moglie?
All’inizio, forse, quando il bagliore freddo dello schermo proiettava le reciproche aspettative oltre la distanza, virtualmente. Lui sedeva nella camera spartana di un dormitorio studentesco, il cestino della spazzatura pieno di scatolette di tonno e confezioni di pasta del discount. Lei lo proiettava in una cameretta decorata con dettagli saturi di colore, di una freschezza quasi primaverile. Lui evadeva da una realtà universitaria di esami rimandati. Lei sognava le glorie della vita occidentale, inclusa l’acqua potabile dal rubinetto della cucina. Usando una lingua straniera che nessuno dei due padroneggiava, avevano costruito su fraintendimenti e soggettive interpretazioni una storia d’amore moderna. Avevano scansato la protesta delle rispettive famiglie, restie per diffidenza nei confronti delle nuove modalità di corteggiamento, o forse per un atavico timore dello straniero. Avevano ignorato la scomodità della distanza, che non aveva concesso loro molte occasioni di comprendere il significato di una condivisione quotidiana. Infine avevano celebrato un matrimonio di uno sfarzo eccessivo e scadente.
Ora, sposati, non avevano fatto grandi progressi. La loro intimità si consumava esclusivamente nella carne, senza mai elevarsi oltre. La comunicazione avveniva ancora in una lingua straniera, arricchitasi di distorsioni su cui entrambi tacitamente concordavano, intuendo con una rassegnazione appagante che quel non capirsi del tutto potesse essere un bene. Quando Bian chiudeva gli occhi e poggiava la testa sulla clavicola di Enzo, si illudeva di aver sposato un uomo capace di parcheggiare un’auto con traino in retromarcia. Enzo si raccontava che le proiezioni di sua moglie fossero vere, che la presenza costante di una donna avesse cancellato le ombre di solitudine nelle quali si era addormentato con rabbia.
Quella notte, sul treno, Enzo non prendeva sonno. Guardava la giovane coppia seduta di fronte, che dormiva con le dita intrecciate. Dovevano essere all’inizio, pensò scostando la testa di sua moglie, le cui forcine gli graffiavano il collo. Solo amore, zero problemi. Li detestava. Non aveva avuto quella fase con Bian, bruciata dall’ansia di averla trovata e minacciata dalla crudeltà della distanza. Ora che lei dormiva al suo fianco, sapeva che non doveva più invidiare niente a nessuno, perché il mondo vedeva anche loro due come giovani innamorati in viaggio. Eppure, se guardava nel riflesso del finestrino, non vedeva la soddisfazione posarsi allo stesso modo su entrambe le coppie.
Enzo voleva essere felice. Non sembrarlo secondo le aspettative altrui, ma esserlo davvero. Non si rassegnava al fatto che alcuni ottenessero tutto con facilità. Il lavoro a tempo indeterminato, il matrimonio fastoso, l’appartamento di proprietà, due figli e un cane. Enzo aveva dovuto lavorare per mantenersi all’università: un lavoro in nero e pagato male. Si era sposato in terra straniera, in un tempio, in una lingua sconosciuta, solo la madre e il fratello a rappresentare la propria famiglia. Viveva in un monolocale ed era in ritardo con l’affitto. Era furioso. Tutti dovevano avere la possibilità di essere felici. Di avere i mezzi per diventare padre quando se la sentivano, di fare quanti figli volevano. 
Una figlia. Non l’aveva voluta, ma stava arrivando. La gente aveva accolto quella notizia con sorrisi generici e domande di circostanza, che non oltrepassavano mai la soglia dell’invasione. Non Vittorio. Erano cresciuti insieme, dalle gite in slitta dell’asilo alle battaglie di pallacanestro delle medie, fino a quelle di filosofia del liceo. All’università avevano optato per facoltà diverse e anche gli interessi avevano cominciato a divergere. Enzo aveva mollato economia, mentre Vittorio era stato assunto in un ufficio di architettura all’estero.

Il giorno prima si erano incontrati per strada. Vittorio era in città per una conferenza e, come suo solito, non aveva avvertito. Si erano abbracciati e aggiornati sulle rispettive esistenze. Vittorio aveva appena vinto un appalto per disegnare una nuova isola ecologica a Dubai.
– Mia moglie è incinta – aveva replicato Enzo, spalancando una coda di pavone di cui non si sentiva proprietario. 
Vittorio non aveva sorriso né espresso felicitazioni: lo aveva guardato in silenzio, poi aveva socchiuso gli occhi e le sopracciglia si erano arcuate. Solo leggermente, a quel modo tutto suo che indicava che stava riflettendo, come al liceo. 
– Perché? – gli aveva chiesto. 

Enzo guardò la notte oltre il finestrino e non vide nulla. Stavano andando a trovare sua madre, che voleva tastare con mano la pancia di sua moglie. Enzo non se l’era sentita di toccarla quando aveva saputo del  bambino. Aveva immaginato un grumo di veleno, un tumore, un oggetto estraneo non richiesto, ma non un figlio. Una bambina, aveva specificato il dottore. L’argomento figli non era mai stato un tema cardine delle loro conversazioni stentate. Enzo era un lavoratore precario: non aveva ferie, né assicurazioni; non aveva viaggiato, provato le droghe o l’alpinismo. Aveva campato, e l’idea di diventare padre gli dava la nausea. Ma la creatura era lì.
Perché?

– In che senso? – aveva balbettato alla domanda di Vittorio.
– Perché fai un figlio?
– Che domande fai?
– Non devi rispondere se non ti va.
– Tu non ne vuoi?
– Ci sono tante cose che vorremmo. Non possiamo averle tutte. E per alcune forse non siamo neanche portati.
– Mi stai dando dell’incapace? – Enzo aveva deciso di arrabbiarsi.
– Ti sto solo dando la mia opinione. 
– Un figlio è una bella cosa.
– Anche guardare un cielo stellato in mezzo alla campagna è una bella cosa. Fare un figlio è una responsabilità. Ti conosco da un po’, e mi chiedo solo perché lo fai.
–  Non lo so. Per avere una famiglia, per lasciare un pezzo di me nel mondo.
– Egoismo, dunque. 
– Tutti fanno figli e si improvvisano genitori, perché te la prendi con me?
– Al liceo eri più bravo a filosofeggiare. Non me la prendo con te, mi chiedo soltanto che bisogno ci sia di mettere al mondo altri bambini.

Non era un bisogno. Bian era più grande e l’orologio biologico ticchettava assordante, per cui aveva smesso di prendere la pillola. Non aveva reputato essenziale che suo marito acconsentisse. Ecco perché Enzo stava per avere un bambino. Di certo non sentiva il bisogno di un’altra bocca da sfamare, di un corpo da vestire e a cui dare un tetto. Da settimane lavorava doppi turni in albergo per mettere più soldi da parte. E poi ci sarebbero stati i giocattoli, i libri di scuola, le pretese adolescenziali, l’università. No, quella di sicuro non sarebbe riuscito a pagarla, la bambina avrebbe dovuto arrangiarsi da sola. 
Sbuffò. Piegò la testa per osservare la moglie addormentata. Neanche mentre dormiva era particolarmente bella. Sua madre glielo aveva fatto notare subito, appena vista in foto: la fronte alta, gli occhi distanti, il mento pronunciato. Però Bian era lì, gli stava attaccata, e questo lo faceva stare bene. Scese con gli occhi lungo la pancia. La bambina era in quella palla avvolta in un maglione color piombo. Le avrebbe detto, un giorno, che era nata per un sotterfugio di sua madre? Si chiese se l’avrebbe amata comunque.
Spostò sua moglie, spingendola verso il finestrino, la spalla cominciava a dolergli. Rimase con lo sguardo sul vetro, cercando la propria immagine. Si vedevano a stento i contorni del viso, i capelli radi, cespetti sparsi di barba. Niente in comune con Vittorio, che era la copia di uno dei fotomodelli appesi dal parrucchiere unisex di sua moglie. Ci andava anche lui perché faceva uno sconto famiglia. Un giorno ci sarebbero andati tutti e tre. Il suono di quel numero lo urtò come un insulto. Sentì il bisogno di sputare e in quel momento il treno frenò inaspettatamente. Enzo strinse gli occhi e immaginò un incidente: la carrozza si rivoltava, schiacciando tutto – anche quella pancia rigonfia – in una carcassa di ferro.
Riaprì gli occhi quando si accorse che si stavano muovendo di nuovo. Nessuno aveva notato niente. I ragazzi dormivano, tenendosi per mano. Sua moglie pure, accasciata contro la finestra.

Enzo guardò il ventre di Bian. Quanto forte avrebbe dovuto essere l’urto per sgonfiarlo?