Miss him
Da bambino una volta mi dissero che se suonavi certi dischi al contrario, specie musica anni ‘60, potevi sentire voci spaventose, evocazioni di Satana che ti entravano nel cervello e potevano farti impazzire anche se ascoltavi il disco nel senso normale. Quando lo zio mi parla dal suo letto mi viene da pensare a quei dischi – sembrano i soliti discorsi da vecchi, ricordi, critiche, lamentele, ma certe frasi che ripete hanno qualcosa di inquietante che non riesco a precisare, anche la voce pare differente, come se quel che resta del suo cervello per un attimo girasse all’incontrario.
Come oggi, che ripete ogni tanto:
Mi manca.
Zio, cos’hai? Che ti manca?
Mi manca tanto Luca.
E poi di nuovo qualcosa che non riesco a capire bene.
Povero zio, ci casco sempre – dovrei lasciarlo stare. Ci mette sempre più tempo a ricordarsi chi sono, quando lo vengo a trovare a casa. Luca, l’altro suo nipote maschio, non viene mai, e lo capisco – ha tanto da fare col ristorante. A dire il vero della cucina non si occupa più da tempo, ha assunto un cuoco, uno giovane: nessuno se lo aspettava perché una volta era il tipo che come le faceva le cose lui nessuno, e tirava le fettuccine a mano, e tritava la carne del ragù a coltello, insomma un rompipalle. C’era stato un periodo che nessuno voleva lavorare per lui, e litigava con le sorelle, e stava per mandare il ristorante a gambe all’aria. Meno male che poi è cambiato e ha fatto pace col cervello e col mondo. Meno che con Rossana, sua moglie, che si era già stufata da un pezzo per altri motivi (o forse per gli stessi) e si era trasferita a Firenze.
Provo a farlo contento:
Zio, lo sai che lavora tanto. Magari quando lo rivedo gli ricordo di passare anche lui a trovarti ogni tanto.
A chi?
(Che pazienza che ci vuole.)
A Luca.
E come fai?
Passo da lui domani all’ora di pranzo.
Lo zio mi guarda come fossi pazzo, con un filo di lacrime inerti negli occhi che una volta erano azzurri.
Ma non te l’hanno detto? Luca è morto.
Zio, cosa dici? L’ho visto domenica scorsa.
Ma quello mica è Luca.
Come non è Luca.
È solo uno che gli somiglia… lo hanno messo al suo posto quando è morto, si sono messi tutti d’accordo.
Ma perché lo avrebbero fatto?
Perché… non lo so. Serviva qualcuno che prendesse il suo posto.
Scuoto la testa – lo so che non dovrei, che lo mortifico. Lui, costernato:
Ecco, lo sapevo che non te lo dovevo dire. Ma ti pare che mi porto questo peso all’altro mondo?
Ma perché dici così, zio? Tu stai bene.
Io sto bene come chi sta per morire.
Ma dai, non dire così.
Cerco di non guardare l’orologio che pesta tutti i secondi nella camera dello zio. Tra poco tornerà Marta e potrò andare a casa. È la sua ora di respiro, gliela devo. È l’unica cugina che non ha da fare al ristorante, come me, del resto, che pur di non farmi cucinare mi hanno mandato ad Arezzo a studiare da geometra.
Marta, ciao. Ma che gli succede allo zio? Che dicono i medici? No perché dice delle cose strane.
Strane come?
Tipo che Luca non è lui ma uno che gli somiglia.
Mi dispiace, Sergio, dovevo dirtelo.
Dirmi cosa?
Di queste fissazioni che gli vengono. Io non pensavo che c’entrasse l’Alzheimer perché questa faccenda di Luca me la racconta da tanto, da quella sera che ha fatto il botto con la macchina. Allora gli ho detto di non dirlo a nessuno, che è un segreto.
Per non mortificarlo.
Sì. Però magari lui l’ha presa in un altro modo, che è un segreto di famiglia e si era tutti d’accordo.
Eh, però tutti tranne me. Io non ne sapevo niente e son caduto dal pero, adesso pensa che vi ha tradito. Perché non me l’hai detto prima?
Marta fa una specie di verso, un maaaaah lunghissimo e stanco. Posso immaginare come si senta, a occuparsi dello zio da sola.
Non lo so, Sergio. Ho fatto così, almeno per un po’ si è sfogato con me e ha smesso di agitarsi. Guarda, pensavo che se n’era dimenticato.
Si vede che no.
Ennò.
Ma dici che gliene posso parlare, o si agita?
Come vuoi. Mo’ però torna a casa, ci penso io a zio. Se passi al ristorante di’ all’Elisa che la visita ce l’ha venerdì quell’altro, non questo.
Passo al ristorante e riferisco a Elisa. Luca sta alla cassa a fare i conti.
Serve aiuto?, gli chiedo, e forse i discorsi di zio mi hanno suggestionato, perché me lo guardo bene in faccia, come se finora non lo avessi studiato abbastanza e mi fossi perso dei dettagli.
Ma no, grazie. C’erano delle cose da controllare, pensavo di aver pagato un ordine e invece no, guarda, aveva ragione Gino, ora lo chiamo.
E scuote il testone bonario, sorridendo, come se avere torto fosse una bella cosa, ed essere in debito, per giunta. Il Luca di qualche anno fa avrebbe fatto fuoco e fiamme per dimostrare di aver ragione, anche contro l’evidenza, e avrebbe mandato Gino a scopare il mare, perdendosi affari e amicizia. Ma che idee che mi vengono. Luca è lo stesso Luca. Magari la separazione, un periodo di stanchezza, troppo lavoro, ci sta che gli fosse uscito un carattere di merda. Anche le sue sorelle, non è che siano delle sante.
Però è strano che non cucini più, no? Era bravo, aveva tanta passione. Di punto in bianco si è stufato e nessuno ha detto nulla, nemmeno le sorelle. Certo, pure loro sono due ossessionate che vogliono avere il controllo di tutto: magari non gli è parso vero che Luca si mettesse da parte, almeno per la cucina, e venisse uno che se non fa le cose come dicono loro gli possono urlare contro in pace.
Ma via, ho da fare a casa, Teresa mi aspetta.
È successo la sera che Luca incontrò quel tizio, mi dice lo zio di punto in bianco, un paio di giorni dopo.
Che tizio, zio?
Uno che era passato per il ristorante, una sera con un tempo da cani, alle nove e mezza, che stavamo per chiudere la cucina perché non c’era proprio nessuno. Questo tizio era identico a Luca, ma proprio sputato. Ci hanno riso tanto su, persino Luca per un attimo non aveva più la solita faccia storta. Si sono messi a parlare, seduti a un tavolo, quello mangiava le fettuccine, ti ricordi, no, che fettuccine faceva Luca, col sugo di lepre tirate a mano… che buone che erano!
Faccio sì con la testa, a me il sugo di lepre fa senso, non l’ho mai mangiato. Le fettuccine erano buone, comunque. Più buone di quelle che fa il cuoco adesso, niente da dire.
E il tizio identico a Luca, oddio come si chiamava, Roberto forse?, quello intanto che parlavano gli versava un bicchiere di vino dopo l’altro. Non so se si sono messi d’accordo quella sera, però si sono scambiati i telefoni…
Ah.
Stavolta cerco di non scuotere la testa, di non fare facce. Vorrei sapere di più, ma chissà se posso fargli altre domande.
Era un periodo tremendo, lo sai, continua zio senza bisogno che lo incoraggi. – Te lo ricordi meglio di me, magari, che ormai non ci sto più con la testa. La figlia della Rossana, che Luca ci era tanto affezionato, quando Rossana se n’è andata a Firenze non l’ha più potuta vedere, almeno credo. E ci sta, non era figlia sua, non è che poteva protestare col giudice.
Me lo ricordo.
Il ristorante andava così e così e in cucina si urlava tutti i giorni, da svegliare i morti. E magari quel tizio lì, Roberto, aveva altri problemi di suo, aveva debiti, o gente che lo cercava… chissà. E allora si sono messi d’accordo.
Lo zio resta in silenzio, oscillando la testa e facendo un po’ di saliva dalle labbra strette. Forse si sta agitando troppo e dovrei farlo parlare d’altro.
Dici che il tizio voleva sparire?, mi esce fuori, invece.
Sì, e rifarsi una vita altrove. Luca invece, non lo so. Certo benissimo non stava. Era proprio stanco, stanco. Tornava a notte fonda su quella brutta strada, arrivava e la casa era vuota.
Dovrei farlo parlare d’altro, davvero. Questa storia che si è inventato gli fa male. Apre e chiude la bocca come se stesse cercando di non piangere.
Non fare così, zio, sicuro adesso Luca sta bene, è contento.
E no, questo non lo posso dire, a meno che non s’intenda altro, tipo che Luca sta in un posto migliore eccetera.
Lui alza una mano per zittirmi. Aspetto che riprenda fiato.
Io li capisco, quelli che vogliono morire, dice con un filo di voce. – All’epoca no, adesso sì. Meno male che a me manca poco, guarda…
Zio, ma non è vero.
È vero, su.
Non so cosa ribattere, forzo un sorriso. Forse se Luca venisse, se gli parlasse un po’ lo riconoscerebbe, gli passerebbe questa ossessione. Oppure no, troverebbe un pretesto per dirsi che non è Luca. Certo, se non fosse Luca, avrebbe tutte le ragioni per non vederlo.
Ma lui lo ha ammesso mai? Dico, di essere un altro. L’ha ammesso mai, con te?
No, non gli ho chiesto mai niente. Non lo so, non mi fido. Sembra tanto buono, ma magari… non lo so. Sono gli occhi, che mi fanno paura.
Sento Marta che schiava ed entra, gettando la borsa sul tavolo.
Sergio, sono tornata!
E appena la raggiungo mi fissa e dice piano:
Te ne ha parlato ancora, vero?
E sì. Mi ha raccontato di un tizio venuto al ristorante.
Ti ha fatto vedere pure il foglietto?
No, quale foglietto?
Un foglietto di Luca, dice, un pezzo di busta. Me l’ha fatto vedere e da allora lo cerco per portarglielo via, magari se non lo vede più gli passa.
E che c’era scritto?
C’era un numero di cellulare col nome del tizio, forse Roberto, o Alberto, e poi ‘Prendi la mia vita’.
Come la canzone?
Sì, quella canzone di chiesa.
Esito. All’ingresso c’è un altro orologio che sgranocchia tutti i secondi di questa casa, se quello del tempo di zio non bastasse.
Be’, allora ci vediamo domani. Devo dire qualcosa al ristorante? Tanto ci passo davanti.
No, niente. Grazie, eh?
Esco e riprendo la macchina. C’è tempo cattivo e la strada è brutta. ‘Prendi la mia vita’. Come Luca se avesse deciso di farla finita, magari proprio in quel momento e in quel luogo, e lasciare il suo posto a quel tizio che invece voleva sparire. A pensarci bene, Luca non ha solo smesso di cucinare – più o meno nello stesso periodo ha cambiato macchina. Ha detto che l’ha venduta per farsene una più grande. Rallento e respiro. Devo smettere di pensarci e stare attento alla strada. Casa mia non è vuota, Teresa mi aspetta, domani torna Stefano dalla Francia e facciamo il Natale tutti insieme. Invece Luca era solo.
A mezzanotte suona il telefono di casa. È Marta.
Sergio, mi dispiace. Lo zio se n’è andato. – Non sta piangendo, lo sapeva anche lei che era questione di poco. – Non ha sofferto. Poco dopo che sei andato via si è addormentato, e non si è più svegliato.
Dico le solite cose che si dicono quando muore un anziano ammalato. Che è triste, ma che è meglio così. Che magari finire così anch’io, guarda, da metterci la firma, come si dice. Ma la puntina del cervello gira ancora nel solco di tutte le sue storie, il foglietto, le fettuccine, la macchina, il sorriso, gli occhi, Luca in un tavolo all’angolo e il sosia che gli versa un bicchiere di vino, e poi un altro.
Vado da Luca.
Ma è tardi, dice Teresa, fagli una telefonata.
No, non posso, dai. Il tempo di parlare un attimo del funerale, di decidere che fare.
Prendo le chiavi ed esco in fretta, ha smesso di piovere. C’è un silenzio come fosse già campagna, e un freddo pulito. Saranno tutti al piano di sopra, Luca, Elisa, Giovanna. Anche giù al ristorante c’è luce, a una finestra della cucina. Mi accosto piano con la macchina.
Vedo Luca al piano di lavoro, con un pezzo di pasta, la mano sinistra che sparge semola con uno scatto brusco, il mattarello che va avanti e indietro, di mala grazia, e la pasta fa buchi e si attacca, e la sua faccia scontenta. Riprova, riammassa la pasta con altra farina, la lavora, poi di nuovo la semola, di nuovo il mattarello, fa avanti e indietro come un disco che gira al contrario e parla di un uomo cui ho voluto bene che non voleva più la sua vita, e al suo posto un inetto ai fornelli che invece ne aveva bisogno e se l’è presa tutta, tutta tranne le fettuccine, ma forse per quello c’è rimedio.
Scuote la testa e sbuffa. Poi con un moto di sorpresa alza gli occhi e mi fissa dentro la macchina buia. Possibile che mi riconosca lo stesso?
Sorride. Guarda la pasta ammosciata sul piano, mi guarda di nuovo e alza un dito sul labbro.
Aveva ragione lo zio, quegli occhi fanno paura.
Ad illustrare: Mask di Mike (su Flickr: https://flic.kr/p/5GM87T), nonché Meco, Il doppio (su Flickr: https://flic.kr/p/cTfrY)