Categories

Prima che tu esca al sole

Autrice
Francesca Casella
Ciclo #16 - Lo spaghetto dimezzato
Narrativa generale
21 dicembre 2023

Avevamo appena finito di cenare quando nostra madre accese la radio, I get along without you very well di Chet Baker era partita da poco. Lei la sapeva a memoria, l’avrebbe ripresa in qualunque momento. Luca era talmente ipnotizzato dalla televisione da non essersene nemmeno reso conto, assuefatto dalla cronista che minacciava 59° per il giorno dopo, con l’avvertimento di non lasciare la città che li proteggeva nelle ore più calde. Livia si era avvicinata al lavandino, aveva strisciato la sua piccola sediolina gialla sul pavimento per salirci con la tipica sfacciataggine di cui solo i bambini sono capaci quando si sentono autorizzati a fingersi adulti. Avevo recuperato tutti i piatti dalla tavola e, quando mi avvicinai a nostra madre, le chiesi quando sarebbe tornato papà. Presto, disse lei per poi raccontarci che, prima che il sole iniziasse a bruciare troppo, non solo esisteva la luna ma c’erano anche le stelle e addirittura la gente passava il tempo a contarle. Luca disse di non crederci, Livia di volerne una, io guardai fuori dalla finestra. La luce rendeva il mio riflesso un’ombra, in assenza di cielo potevo essere qualsiasi cosa. 

Il giorno dopo, Luca fu il primo ad accorgersi che nostra madre non era più nel suo letto: da quando il sole scotta, il materasso non è più lo stesso, ci aveva ripetuto. Ci infilammo uno alla volta sul lato dove dormiva con l’illusione di lasciarci abbracciare dalla forma che aveva impresso tra lenzuola e cuscino, rassicurandoci un po’ per uno che il calore che sentivamo non era il nostro ma ancora il suo. 

Vivevamo a Desiaria, la città sotterranea, le pareti a scaglie di ossidiana la facevano sembrare la pancia di un grande serpente di vetro. Sul vetro spesso, la luce malata dei neon disegnava spettri danzanti, i bambini più piccoli se ne tenevano a distanza perché non eravamo mai certi fossimo solo noi. L’eco lontana di vecchie canzoni cantate da chissà chi risuonava tra quelle pareti e sulle nostre lingue – immaginavamo fosse così il cielo.  

Nessuno sapeva quando fosse stata edificata Desiaria. Con Luca e Livia eravamo nati con uno scarto di tre anni ciascuno e ognuno di noi misi era sentito talmente solo da costruirsi  la propria realtà. Tutti e tre, però, eravamo arrivati alla conclusione che la città era un grande serpente così tanto affamato da essersi preso tutti i bambini lasciando fuori i genitori. Era per tenerci al sicuro, fino al momento in cui sarebbero tornati. Così continuavamo a dormire nel suo grembo, raccontandoci che nostra madre era il sole e che ci saremmo svegliati ogni mattina cinque minuti prima per sentire i suoi baci sulla fronte.

Quando andavamo a scuola imparavamo quello che era stato guardando vecchi film. Con quelle immagini spettrali alle pareti, vedevamo gli adulti esaurire la loro vita aspettando l’ora del tè e nel frattempo a noi sembrava di riconoscere i nostri papà. Capitava spesso qualcuno pronto a giurare di aver sentito il proprio padre chiedergli ti fidi di me nonostante il giorno prima quel padre non fosse nemmeno un ricordo. Altri erano preda dell’epifania del solletico che faceva quello specifico paio di baffi visto in fotografie incorniciate. Livia un giorno ci disse che aveva scoperto l’esistenza di parole che servivano a dire tutte le cose di cui sentiamo la mancanza anche se non le abbiamo avute mai. Nostro padre sarebbe tornato quando le avrebbe sapute tutte quante.

A Desiaria tutti i bambini avevano gli occhi neri degli insetti, evitavano la luce dei neon, rilucevano delle stelle che avevano spento, profumavano dei fiori tra le pagine dei libri, vivevano dei ricordi che erano sogni fatti già. Era risaputo che fosse la città a decidere quando i bambini diventano adulti e solo da adulti avrebbero visto il sole. Io non aspettai quel giorno, uscii soltanto da quelle pareti, con l’illusione di poter riempire un’assenza. Il rumore assordante del sole non posso dire di averlo visto veramente. Le labbra di nostra madre sulla mia fronte, l’ombra pulsante nelle mie tempie, il sussurro di baci attesi, un semitono nel cuore e quella canzone che avrebbe ripreso in qualunque momento. La memoria delle cose passate sempre lì dove avevano detto sempre di averle lasciate.