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Based on a True Stronza

Autore
Federico Dilirio
Ciclo #15 - Spaghetty Scorretty
Narrativa generale
28 settembre 2023

Ai posteri e ai turisti lascio questa sentenza: le fregne più succose stanno tra Pescara e Piacenza.
Del Nord salvo solo le venete, perché sono alcolizzate e hanno una mona che ti sbronza. 
Nel triangolo industriale le fighe (con la g) sono acide e marce, degne dei loro maschi impotenti. Del Sud salvo la Puglia, dove si trova qualche fessa a forma di cozza che vale la pena leccare.
Ah, che imbecille, dimenticavo Brescia: patria di grandi porcelle, come le venete di cui sono prime cugine, sempre così brille che gliela riesci a lappare anche quando hanno fiumi di ciclo, che ti pare di sorseggiare un Bloody Mary. 
D’altronde, se non hai mai leccato una sorca ricolma di sangue, non sei degno di respirare.

Mi chiamo Lea e sono quella che molti di voi definirebbero una vecchia lella.
Tra meno di sei mesi compirò settant’anni.
Non mi offende che pensino sia vecchia o mi diano della baffa: dell’opinione altrui me ne fotto. Solo che non trovo la definizione corretta. Amo leccare la sorca più del cazzo perché ne preferisco gusto e odore, tutto qui. 
Mi chiamo Lea e mi sono laureata in farmacia cent’anni fa, ma non ho mai esercitato. Vivo di rendita: sono nata stronza e ricca.
Sono Lea. Mi piace fare gargarismi con il piscio della gnocca e tra meno di sei mesi compirò settant’anni, ma ho intenzione di ammazzarmi prima. 

Se dovessi dire tre fiche che vorrei rileccare prima di morire sarei in difficoltà, perché penserei alle donne che ho amato. Erano davvero le fiche più sugose?
In ogni caso vorrei rimestarla a Clotilde, la mia ex tettona e mezza cieca di Pistoia. Le toscane hanno le zizze più grosse d’Italia. Peccato che Pistoia fosse più provinciale dello sfintere di un babbuino. Mi mancano il suo umorismo e la sua vulva grondante. Parlo della Clo di allora (anni Ottanta) non la vecchia ciabatta che sarà diventata.
Isotta e i suoi vent’anni. Ci siamo frequentate senza stare insieme (lei poi ha sposato il fidanzato ipodotato che l’ha ingallata: si sa, i cazzi piccoli sborrano più broda). Un po’ pigmea, ma con una fregna gigante. Ci entravo con mezza faccia. Se ci penso mi masturbo qui e ora, alla cassa della Pam di via dei Gracchi. 
E infine Agnese, il mio ultimo amore: io cinquantenne sul viale del tramonto, lei zoccoletta di Borgo Panigale qui a Roma a far finta di studiare. Che cliché, lo so. Passava i pomeriggi a farsi leccare. Veniva a moto perpetuo. Mi inondava la gola. Rivedo la nostra estate a Favignana, pagata da me: le mangiavo la fica che sapeva di triglia, le limonavo buco di culo e ascelle. E più leccavo io, meno si lavava lei, la zozza, lo faceva apposta per mandarmi in orbita, sapeva che anche la sua merda mi inebriava. Mi ha mollato per un proctologo, che ironia. Avrei voluto ammazzarla di botte, affettarla e mangiarla cruda come un carpaccio di ricciola in salsa d’avocado. Le avrei fatto un favore, visto che dopo l’incidente a Santorini è rimasta paralizzata. Adesso il culo glielo pulisce l’infermiera. Beata lei.
Dopo la Clo, mi hanno lasciato tutte. Quella troia ipovedente mi ha appioppato il malocchio.

Mi chiamo Lea e venerdì mi hanno diagnosticato un tumore in bocca. 
L’oncologo pelato mi ha chiesto se fossi fumatrice o ex fumatrice. Ho risposto la verità: no. 
Non ricordo cosa ha detto dopo. Ho pensato che avesse un alito diarroico e che forse il tumore in bocca ce l’aveva lui.
La verità è che quello che mi è venuto lo devo alla dipendenza dal leccaggio. Ne ho lappate più di mille, di tutti i tipi e gusti. L’ho leccata a chiunque; da giovane anche alle vecchie, giusto per farmi le ossa.
È qualcosa che ho sicuramente preso da una lurida. Anni fa lessi dal parrucchiere che un attore di Hollywood aveva preso il cancro in gola per lo stesso vizio di leccarla a cagne e porche.
Sono certa che è per quello.

Preferisco leccare, non mi piace se lo fanno a me. Molte donne credono di saperlo fare, si sbagliano. Non parliamo degli uomini, completi ritardati. Ti sbattono dentro la lingua, che spesso hanno più grossa e dura del cazzo, e vanno avanti e indietro o fanno i mulinelli. Ridicoli, patetici. 
In ogni caso alla mia età è difficile trovare qualcuno che abbia il coraggio di leccarmela. Convengo che la mia sia orrenda da vedere. Sembra una maschera di Halloween comprata dai cinesi. E l’odore al naturale sa di straccio da pavimenti.
Quindi ve la lecco e mi masturbo. Non chiedo altro.

Mi chiamo Lea, ma ciò non vi faccia pensare che sia schierata a favore dei diritti delle lelle, degli uteri in affitto, delle famiglie arcobaleno o di altre cagate del genere. Non me ne frega un cazzo, soprattutto di carnevalate come il gay pride. Non me ne frega un cazzo di nessuno, capito? Odio le masse e le manifestazioni. Tutte, di tutti i colori. Odio il puzzo di uomini e donne mescolato, mi fa vomitare.

Sono Lea. Perché preferisco le donne? Trovo che i maschi sappiano di vomito di vitello in allevamento intensivo. Così è più chiaro?
Sono Lea e la puzza dei turisti di Roma mi stupra come la scoreggia di un barbone. Ascelle, marce e maledette, di froci e megere: donna bianca, da vecchia puzzerai di piada con lo squacquerone sotto il sole porco di quel cesso che è Riccione.

C’è una commessa alla Feltrinelli che mi turba. 
È una piccoletta rossa, col nasone, odora di gambero, mi fa grondare le pareti. In estate quando suda vado in estasi, sento la sua ascella entrarmi in bocca al ritmo di Because the Night, e una volta che sono a casa mi sbatto il clito col caviale.
Sogno l’odore del suo buco di culo in bocca. Sogno di farmi pisciare sui denti, che la sua urina benedetta mi guarisca dal male. Sogno di infilarle le unghie nelle chiappe mentre gliela mangio, di frantumarle le costole mentre con la lingua sbatacchio il colon.
Quando vengo, resto nel letto e guardo il tramonto dalla finestra del mio appartamento. C’è una bella vista su Roma e piango come la vecchia che sono, consapevole di essere una carcassa indesiderata che sta per crepare. 

Al bar di Prati dove passo i pomeriggi facendo finta di leggere i libri presi dalla rossa e guardando le fichette, i soliti merdosi si lamentano degli sbarchi di africani.
Io vorrei dire a tutti che questi sono i migliori migranti che la storia d’Italia ricordi.
Vedo circolare le ebony, un po’ chiatte un po’ pantere, col passo che certe italiche mature non sanno imitare. Ogni volta che ne incrocio una poso il mio sguardo tra le cosce, favoleggiando sulle dimensioni delle loro grandi labbra: voglio essere inghiottita, schiaffeggiata dalle loro chiappe, strozzata dal loro clitoride, grosso come il cazzo in tiro di un mulo.
L’Italia ha conosciuto altre invasioni, le ho leccate tutte. In ordine sparso: le magrebine ce l’hanno tartufata, la pelosa delle cinesi pare un tupè di barboncino, russe e ucraine tengono una lumaca in umido e non un’ostrica come credono, rumene e albanesi hanno più gusto, tipo foie gras. 
Le calabresi invece hanno la fica baffuta, come la faccia da scemo di Mercury Freddie.

Ciao sono Lea, sono nata a metà anni Cinquanta e ricordo che ero un cesso persino da bambina.
Sono nata in una cloaca chiamata Novara, non molto distante da un’altra cloaca chiamata Milano.
Da adolescente mi iscrissi in palestra per imparare a difendermi. Prima judo, che non serve a un cazzo. Quindi savate, uno sport che andava di moda all’epoca mia: ero la sola ragazza. Imparai a dare calci e cartoni. Capii presto che era meglio anticipare e che un pugno in faccia se lo meritano tutti. Anche se tu non sai perché, loro sì.

Call me Lea, Lea che si vuole ammazzare il giorno prima di invecchiare. Voglio morire all’Argentario in una giornata di maggio.
Come ultimo desiderio mi piacerebbe leccarla a una ventenne, una di quelle ricche studentesse che fino a quando stavo a Milano guardavo uscire dall’Università del Sacro Cuore, l’ateneo con più alta concentrazione di sorca che l’Italia conosca. Ubriacarmi, sì, e annegare in un mare di piscia cattolica.

L’unico punto in cui puoi trovare delle fregne qui è Roma Nord, per questo sono venuta ad abitare a Prati. A liquidare l’eredità che mi hanno lasciato quei dementi dei miei vecchi, che ho sempre disprezzato. Comincio a vedere fica già di prima mattina, quando vado al bar a fare colazione. Chiariamo: non ho una cucina, mangio sempre al ristorante e faccio colazione al bar. 
Purtroppo per un po’ non potrò più frequentare il quartiere Trieste, grande figaio, per uno sgradevole incidente occorsomi lo scorso giugno.
Ero seduta a farmi una spremuta di pompelmo e fissavo il capezzolame che intravedevo dal top di una puttanella, due pere che sfidavano Newton e quel ricchione di Copernico, quando il fidanzato, classico fascio di Roma Nord, tatuato e palestrato mi dice “Nonne’, guarda altrove. Non c’è niente per te, qui”.
Mi sono alzata, fingendomi sfigata, zoppicando via col mio bastone. Mi sono appostata. Quando la coppietta si è allontanata, l’ho seguita fino alla macchina. Poi mi sono avvicinata, il rasato si è voltato e gli ho sganciato una pedata nei coglioni. Il fascio è caduto come una pera, per prendersi il colpo di tacco che gli ha fracassato la dentiera.
La zoccoletta si è messa a urlare: l’ho corcata con una capocciata. Una volta svenuta le ho infilato le dita nella fregna. A casa mi sono scartavetrata con le dita sotto il naso: lime, mirtilli e orata.
Peccato, Trieste è un figodromo.

Sono Lea e nel periodo di massimo splendore parevo una Debbie Harry col vaiolo: bionda, magra e butterata.
Se c’è una cosa che mi fa vomitare è il bianco pelo. 
Le fiche mi gustano giovani e rasate. Così quando sbrodano hanno quell’odore di acciuga e frutta secca che mi inonda.
Che lerciume immondo queste mie coetanee che girano col capello bianco. 
Beati coloro che leccano il pelo: loro è il regno dei cieli.
Finirò all’inferno, a leccarla alle vegane. Le vegane hanno la fica che sa di merda di pollame.

Sono Lea e ho invitato a cena due africani, li chiamo John e Jackie.
Il loro vero nome me lo hanno detto ma non lo ricordo. Non si capisce un cazzo quando parlano. Non so di dove sono, se sono parenti o sposati. Vengono da me, il mercoledì e la domenica, si fanno lunghe docce, mangiano, poi lui si piazza sul divano a guardare il calcio e lei viene in camera a farsi slinguazzare sorca e ano.
Adoro il gusto di Jackie: crema di bottarga. 

Ciao, sono Lea, odio i giovani e faccio di tutto per lasciare un pianeta di merda. Uso più plastica che posso e la getto in mezzo alla natura. Spero che anneghino nella monnezza e vengano arsi dal sole. 

Un giorno, John ha cominciato a piagnucolare mentre stavo mangiando il culo a Jackie. 
Ho pensato che fosse geloso o qualcosa del genere. Invece voleva stare in camera con noi.
Gli ho dato il permesso di guardare. Ho scoperto che ha un gran cazzone, che ho ribattezzato “Joe Black”, ma pure da lavato conserva un afrore di marciume. Quindi lo faccio guardare e masturbare. Con il divieto assoluto di sborrare.
Alle volte gli faccio dei regali, ai miei due cioccolatini. A lei ho regalato orologio e orecchini. A lui la maglia del Paris e quella del City. Si è messo a ballare: erano originali. 

Ciao sono Lea e il giorno in cui mi ammazzerò penserò a quella tettona di Tarquinia, occhi azzurri e puppe a pera, che non voleva proprio farmela leccare quell’estate a Capalbio.
E ovunque i juke box suonavano Tu di Tozzi e Una ragione che cresce in me, nelle serate a limonare e a non farmela snasare.
E poi è arrivata quella tamarra di Treviso, in vacanza con i suoi, zero tette, zoccoli di legno e già porcella, che piangendo disse che voleva lesbicare un po’ con me. Ma la tamarra di anni ne aveva sedici e per poco il padre non mi affetta.
Mi chiamavo Lea, avevo vent’anni, e lo ingoiai al padre cinquantenne, che sborrò nella laringe, per non farmi denunciare.
E io, Lea, passai il resto dell’estate a sgrillettarmi su e giù per la Maremma.

Un’ultima volta Lea, solo Lea, e adesso che sto per crepare per un male che non si può curare, vi confesso: la bellezza è solo questo, ammazzarsi con la fica e non pentirsi.


A illustrare il racconto: foto di Deborah D’Addetta e Francesco Sammarco