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Fa sempre così Emma

Autore
Antonio Potenza
A scelta dello Chef
Narrativa generale
11 aprile 2023

Emma vive in spiaggia. Sussurra di notte e legge poesie la mattina, anche se la risacca in quelle ore arriva più forte e sporca la chiarezza dei suoi versi. Il pomeriggio spesso sonnecchia, poiché qui è perennemente estate e dopo pranzo è necessario riposare per godersi meglio gli stornelli dei grilli.
Fa sempre così Emma.
Un giorno, dalla linea lontana del mare cominciano a salire le nuvole. Emma le guarda estasiata e impaurita, non ne vede da anni. Bestie nere di pioggia la scrutano dal cielo lucente. Dopo poche ore lampeggiano come i pesci di fondo che scorge negli abissi. Tra gli squarci di nuvole arriva anche il vento. Le sposta i capelli dalla faccia. Sono corti, li ha tagliati da sola all’altezza del viso, poco più in basso della mandibola. Quando il vento diventa prepotente le vanno sulla bocca. La sfiorano con la stessa incertezza di una tenda di lino.
Quella sensazione tremenda di attesa le piace dopotutto. Aspetta sul bagnasciuga, con le caviglie immerse nell’acqua accaldata dall’ultimo sole. Il temporale arriverà e le inumidirà la pancia morbida, ma sono giorni infiniti quelli che trascorrono. Le nuvole si accavallano l’una sull’altra, si fagocitano a vicenda sulle colline oltre le sue spalle, in direzione della sua casa, ancora più in fondo verso il Paese, fino all’abitazione di suo padre. Funeste e scure, hanno creato una coltre grigia e lucente senza che succeda nulla.
Un pizzicore d’angoscia corre sulla punta delle dita.
La spiaggia che abita è una lingua sabbiosa a forma di u. La sua casa è esattamente nel mezzo della staffa, protetta da cespugli selvaggi di pini marittimi, baobab e macchia mediterranea. Ogni mattina si alza e aspetta il temporale. Ogni notte dorme e nuota negli abissi. Ogni pomeriggio si lava nella doccia dello stabilimento abbandonato, sceglie un vestito di macramè pulito e ritorna a immergere le caviglie.
Un tempo, il vespro era il momento delle visite, quelle di suo padre che puntuale veniva a pregarla di tornare a casa. Giorno dopo giorno, la implorava con meno insistenza e a volte pescavano insieme. Quindi cenavano e lui si fermava a dormire lì. La mattina si svegliava e se ne tornava in paese, tra le case di porfido, per poi essere a casa di Emma il pomeriggio successivo. Poi non era più venuto, la vecchiaia lo aveva piegato prima che potesse fare un’altra passeggiata o donarle un’ultima preghiera.
Quando pioverà?
Col naso all’insù pensa a Marco. Con lui i temporali erano l’occasione per correre in acqua. Un’altra, l’ennesima, per corrodere con la salsedine la propria pelle. Il pesce sul fuoco improvvisato aveva un sapore diverso, un odore più denso di quello che adesso cucina lei, benché la cottura sia decisamente migliore. Preparare la cena, o il pranzo, non rientrava nei pregi di Marco. Lo era raccontare storie.
Cosa le avrebbe raccontato Marco in una situazione simile?
Il primo tuono la scuote da quel sordido pensare. Un sorriso tra le labbra di marzapane. Piove, dice ad alta voce, come se Marco fosse ancora lì a condividere l’emozione. Plin, sul mento la prima goccia. Emma resta con la testa in su e le gambe nella risacca calda. Il temporale però non arriva.
Emma allora piange e torna in casa. I grilli fuori intonano canzonette stupide. Emma sa che non pioverà neanche quella sera e che non potrà più rivedere Marco, che è tornato in Paese, che ormai è un estraneo.
Quella notte però lo rivede. In sogno, Marco è ancora affianco a lei e le accarezza i capelli. A volte li porta al naso e li annusa. Si alza di scatto e prepara una pasta scotta nel cuore della notte. Emma lo segue con le gambe intorpidite e il formicolio alle braccia perché le infilza sotto il cuscino quando dorme. Marco le dà le spalle, mentre sbatte nello scolapasta  un carico eccessivo di spaghetti che trasbordando, cadono nodosi e violenti sul pavimento, si sporcano di sabbia. 

Cosa fai qui? dice lei. 
Gioco, risponde lui mentre rivolta gli spaghetti sul tavolo, come se ci fossero piatti invisibili a contenerli. 

Si sfilacciano e si allargano sul legno impolverato, ma Marco sembra non vederlo. Impugna la forchetta e la fa roteare nell’ammasso giallino, poi la porta alla bocca e mastica disordinatamente. Gli spaghetti bianchicci, come vermi vivi e impauriti, gli si divincolano nella bocca sporca di sabbia.

Eri partito, fa Emma. Ora sono tornato, puntualizza Marco.
Ti ricordavo diverso, risponde lei. Mi ricordavi diverso, ripete lui.

Ha ingurgitato tutta la pasta, un vento freddo s’infila attraverso gli infissi gracili. Emma si stringe le braccia al corpo, Marco batte le mani sul tavolo, si alza e va verso la porta. Lei non sa perché improvvisamente sia funesto. Forse si è accorto della mancanza dei piatti, pensa lei, e si sente in colpa per non averne preso uno dalla credenza.

Non lo voleva dire, ma lo dice: perché sei arrabbiato?
Perché non ascolti, risponde lui, e spalanca la porta in modo violento.

Il rumore la desta dal sonno. Marco non c’è, ma la porta continua a sbattere. L’aria che soffia all’interno della casa è gelida. Emma si alza e corre a chiuderla, ma guarda fuori ed è trafitta dalla sorpresa: la spiaggia adesso è bianca e il mare grigio. Dal cielo volteggiano fiocchi candidi che si depositano docili sul terreno. La risacca bagna questo nuovo vestito candido, sciogliendone appena gli orli. I pini marittimi sembrano acquattati sotto questi cappelli candidi e pesanti. Emma avanza di qualche passo nell’aria ghiacciata, affondando i piedi nella neve. Il suo scalpiccio ovattato è l’unico rumore oltre il dondolio del mare. Nello slargo della spiaggia il paesaggio è lunare. Verso le colline, oltre la casa, i tetti piccoli delle case svettano imbiancati avvolti in una cupola di lana. I suoi passi sono crateri.
Il pensiero di Emma va a Marco. Riesce a vederlo rannicchiato in un angolo del letto, con le ginocchia al petto, tremante e livido. Non può preoccuparsi di tornare a chiudere la porta di casa, che la neve entri pure in salotto e ghiacci le sedie e le posate. Emma deve correre per diversi chilometri, non può pensare ai dettagli.
Vola Emma, attraverso cumuli spessi di neve. Li disfa come un carro, anche se a volte annaspa nel ghiaccio. Le dita non esistono più. La strada che sale verso la collina è ripida, deve rallentare. Non ha fiato. Pensa che sarebbe inconveniente farsi vedere da Marco con le dita insanguinate.
Arrivata all’arco del paese, cerca le rotaie. Subito al di sotto della coltre di neve, coperta da strati di neve ancora morbida, trova una linea di ceramica nera che copre le vecchie linee del tram. La segue, attraversa la piazza centrale, poi il vialone verso la stazione, volta a destra, poi ancora a destra, fino alla porta di Marco.
Bussa. Trema, non capisce se per  il freddo o l’ansia. L’ultima volta, due anni prima, Marco aveva la barba incolta e un neo minuto sulla narice destra. I capelli disordinati e le orecchie pronunciate saranno peggiorati. Pensa a quale viso gli aprirà.
Marco tarda a rispondere. Così Emma insiste. Un brivido le percorre la schiena. Adesso sa che è per il freddo. La neve sull’uscio è troppa, Marco deve rispondere o lei deve entrare. Così spinge la porta con una spalla, entra nell’abitazione con i piedi intorpiditi, poi chiama il suo nome.
La casa non è molto più calda rispetto all’esterno. Emma aveva ragione, conosceva l’inettitudine di Marco. Lo richiama: Marco, Marco, Marco: nessuno risponde: nessuno risponde: nessuno risponde.
La voce risuona vuota per poi tornarle nelle orecchie con echi cavernosi. Si arrampica per le scale, verso un secondo piano dove crede possa esserci il letto di Marco, con lui dentro irrigidito e debole. Lei salverà il suo amico. Apre la terza porta del piano superiore, ma ciò che trova è un letto vuoto e ordinato. Una finestra sibila. Si avvicina al letto e accarezza quella forma approssimativa rimasta tra le pieghe di stoffa. Prende le lenzuola e le incastra sotto le imposte. Ora i soffi entrano con meno irruenza, con meno rumore.
In strada, schiaffi di tormenta. Sull’uscio di quella che un tempo era la sua casa, a pochi portoni di distanza da quella di Marco, giace una grassa cupola di ghiaccio soffice. Le finestre sono sprangate. Ricorda le ginestre sul davanzale, le carezze di sole.
A passi lenti e dolorosi, ritorna verso la spiaggia che ora è una tundra morbida. Il mare grigio continua a scioglierne i confini. Puntinato dalla neve sembra un quadro melanconico.
Sulla porta di casa, Emma guarda un’ultima volta le onde, nonostante i piedi nudi siano dei blocchi violacei. La apre, quella cigola, e sulla sedia in cucina c’è Marco con i capelli imbiancati da fiocchi di neve che piano si sciolgono nel caldo della casa. La schiena è curva. Emma strizza gli occhi, incredula. 

Riesce solo a dire: che fai?
Marco si volta, ha ancora il neo minuto sulla narice destra. Allontana dall’orecchio una conchiglia rosata e gliela porge.
Ho sentito per l’ennesima volta una storia fragile, dice. Ascoltala.

Emma, titubante, prende quel guscio madreperlaceo, sfiora appena le dita rugose di Marco.
Lentamente la mette all’orecchio. Fuori la neve smette di cadere, tutto tace, si sente solo un suono morbido all’interno di quelle labbra coriacee. L’eco si attorciglia sulla columella. Sembra la voce di un uomo, dal tono tranquillo. Tossisce, come per riprendere un discorso, poi dice:
Emma vive in spiaggia, sussurra di notte e legge poesie di mattina, nel pomeriggio invece sonnecchia per ascoltare meglio le filastrocche dei grilli, pensa spesso che le manca Marco, un giorno crede che stia per piovere, ma poi nevica e allora si preoccupa per lui, intirizzito dal freddo, corre in paese a trovarlo, ma nel suo letto Marco non c’è, esausta, sotto rivoli di ghiaccio, torna a casa dove invece lo trova sulla sedia che le porge una conchiglia dalla forma sferica, lei la posiziona vicino all’orecchio, ascolta la voce nella columella che dice:
Emma vive in spiaggia. Fa sempre così Emma.


A illustrare il racconto: una fotografia di Tatiana Cardellicchio @the_sound_of_the_shell