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Generazione Zeta

Autore
Rachele Salvini
Ciclo #2 - La vibrazione di un corpo
Narrativa generale
03 dicembre 2020

Sei nato poche ore dopo l’undici settembre, lo sguardo di tua madre incollato al televisore mentre uomini e donne saltavano nel nulla per sfuggire al fuoco, i corpi lanciati a troppi chilometri orari per poterli immaginare. Il mondo tremava, annaspava, e tu respiravi per la prima volta. Un boato e un crollo avevano inghiottito l’inizio del nuovo millennio, di una nuova vita. Gli occhi erano puntati su una città avvolta nel fumo mentre il resto del pianeta bruciava in silenzio. Una generazione – la tua – era nata morta. 

*

Ma non sei tu quello che è morto l’anno scorso, alla festa di Natale alla fine del primo semestre di università, quando Anita aveva cominciato a regalare punte di acido a tutti. Te ne aveva passata una con la lingua e ti eri sentito speciale per un attimo, ma l’avevi vista offrirne una anche a Johnny Ray, il tipo biondo con le treccine e gli speroni, e avevi capito che non c’era nessun presupposto per meritarsi una punta di acido con la lingua, che se persino Johnny Ray poteva ficcare la lingua nella bocca di Anita, allora non eri speciale – anzi, eri solo un tipo a una festa, ed eri già ubriaco. 

Johnny Ray aveva esitato. Ricordi Seth, il giocatore di football con quell’orrendo apparecchio di plastica, sghignazzare: Johnny Ray, se non la provi sei un finocchio. Tu avevi riso, e vorresti non ricordartelo, ma avevi detto, mezzasega, anche se a posteriori ti sei convinto che Johnny Ray non ti avesse sentito, che la voce di Seth fosse un tuono e la tua solo un soffio. Johnny Ray aveva subito tirato fuori la lingua. Anita gli aveva passato la punta e poi ne aveva data una a Seth. Del resto della festa ricordi il cervello che ti oscillava tra le pareti del cranio; ricordi di esserti sentito meglio, di aver guardato la musica prendere forma, le stoccate di basso espandersi in onde luminose in tutta la stanza per entrare nella bocca e nelle orecchie e nei corpi che ondeggiavano. Eri fuso e continuavi a bere e fumare e ridere e fissare la fila di lampadine appese al muro che sembravano sorriderti, finché Anita non si era accorta che Johnny Ray era sparito, i suoi stivali con gli speroni lasciati in un angolo della festa. 

*

E non eri morto neanche quando, a sette anni, tu e Andy vi eravate spinti ai limiti della foresta che bruciava intorno al lago McMurtry. Sentivi gli occhi pizzicare e ti asciugavi il viso con le maniche della felpa per non fargli vedere che piangevi. Ricordi una nebbia rossastra, la radura che vibrava, secca, ingiallita dal caldo di luglio, le punte dei fili d’erba scuriti, un armadillo che correva via col muso nella terra come un avvertimento. 

Il primo che si ferma è una mezzasega, aveva detto Andy, con i capelli rossi appiccicati sulla nuca. E le fiamme ti sembravano liquide, ondeggiavano contro il cielo mentre gli alberi cadevano, veloci come fulmini, e la terra vibrava. Tua madre pensava che tu fossi a scuola, al sicuro.  

*

Ricordi la festa dissolversi, il dormitorio che brulicava di studenti. Anita pensava che Johnny Ray si fosse appartato con qualcuna, ma tu sapevi – lo sapevano tutti – che Johnny Ray era un evangelico e cercava solo la ragazza giusta da sposare. Portava una grossa croce al collo da quando sua madre si era sparata in testa una notte d’Agosto, dopo aver beccato il marito a scoparsi una sedicenne. 

Altri dettagli che ricordi di Johnny Ray: studiava agraria, avrebbe ereditato l’attività agricola di suo padre e voleva più di tutto una famiglia normale. Tu non lo sapevi, cosa volevi, e non lo sai ancora. Eri andato al college quasi per scherzo, con migliaia di dollari in prestiti per pagarti la retta e l’alloggio, tua madre che ti aiutava come poteva. Non avevi ranch da ereditare. Tua madre scriveva di surriscaldamento globale di giorno e lavorava in una lavanderia cinese di notte; tua madre voleva che tu diventassi qualcuno – qualcun’altro. Ma quella notte di festa eri uno qualsiasi tra gli studenti ubriachi che incespicavano e chiamavano Johnny Ray a gran voce, l’eco che rimbombava nei corridoi, le grida che si disperdevano come spettri. Nel caos del trip avevi visto tua madre coi capelli unti dell’umido della lavanderia, la schiena di Andy che correva verso il fuoco. E tu, ancora fuso, seguivi gli spettri.

*

Eri stato il primo a fermarsi, ad ammettere, basta, è pericoloso. Andy aveva continuato a correre. Mezzasega, aveva gridato. I suoi capelli rossi stavano cominciando ad asciugarsi e incresparsi per il calore. Lo avevi seguito, perché nessuno poteva permettersi di chiamarti mezzasega, anche se allora non sapevi nemmeno cosa volesse dire. Anche se le fiamme ondeggiavano sempre più in alto, un velo si era steso sui tuoi occhi, e avevi visto un albero crollare a terra in uno scroscio di fiamme e scintille. Il fumo nero sembrava una lingua. Cercavi una scusa per fermarti, per gridare a Andy di tornare indietro. Non ne trovavi nessuna, tranne la più ovvia: non volevi bruciare.

*

Ti eri detto che eri solo in un brutto trip, che eri in paranoia, ma la gente sembrava davvero nel panico tra i corridoi del dormitorio, tutti questi studenti e studentesse a piedi nudi che gridavano il nome di Johnny Ray. In un angolo avevi visto persino tua madre che ti teneva in braccio in ospedale, avevi pensato alle storie di pompieri corsi sotto le torri e rimasti schiacciati dai corpi che precipitavano. Gli allucinogeni inventavano ricordi che non avevi: tua madre in ospedale, l’undici settembre, ma persino nel trip sapevi che nessuno ricorda la propria nascita, che erano solo storie interrotte dalle urla – non più quelle degli studenti che chiamavano Johnny Ray, ma i muggiti primitivi, disperati, di un animale ferito. 

Johnny Ray era salito sul tetto del dormitorio e si era gettato di sotto in una di quelle tragedie banali, bravo ragazzo fa uso di droghe allucinogene e si lancia dalla finestra di una confraternita. Ricordi i titoli sui bollettini del campus. Tutti, te incluso, si erano chiesti se Johnny Ray lo avesse fatto a posta, se la colpa fosse da attribuire al suicidio di sua madre. Seth, il giocatore di football con l’orrendo apparecchio, non si era più presentato a lezione e aveva trovato lavoro in un benzinaio di Oklahoma City. Nessuno l’aveva più visto. Tu eri tornato per il secondo semestre, ma quando ti sedevi nelle aule non vedevi più niente, non sentivi più le voci degli insegnanti, dei tuoi compagni. Alla fine eri tornato da tua madre che piangeva e ti chiedeva, cosa c’è che non va, andiamo da uno psicologo, non so più come aiutarti

Non lo sapevi neanche tu. Eri riuscito solo a dire: non sento più niente. 

*

Andy aveva cominciato a tossire – forte, come se stesse per vomitare. La maglietta ti si era appiccicata addosso, grosse gocce di sudore ti scendevano lungo la schiena, e continuavi a seguire la macchia del corpo di Andy contro il chiarore della radura anche se il fumo ti oscurava la vista. Poi Andy si era fermato. “Ho vinto, mezzasega”, avevi gridato, superandolo, con le lacrime che ti colavano sul viso. Ti eri voltato e avevi visto Andy, piegato su se stesso in una scarica di colpi di tosse che non sembrava finire più. E come potevi sapere che fosse asmatico, ti chiedi ancora; come potevi sapere che la cenere gli stava provocando una reazione allergica, che qualcosa sotto la pelle della sua faccia si stava gonfiando e gli impediva di respirare, che la lingua gli si era incollata al palato. Ricordi – anche quando provi a evitarlo, anche quando ti imponi di pensare ad altro – di aver gridato Andy, Andy, ma lui continuava a tossire e ansimare. Lo imploravi di tornare indietro, e lui aveva provato ad alzarsi, ma una scossa di tosse lo aveva colpito di nuovo. A volte vedi ancora la sua faccia, una maschera di lacrime e muco, e poi il silenzio totale – qualcosa dentro di te si era chiuso e non c’era più alcun rumore, solo il tuono degli alberi che precipitavano come meteoriti, la radura che crepitava e sembrava volervi scuotere via prima che il fuoco la consumasse. E per tutto il tempo avevi pensato a tua madre che credeva tu fossi a scuola – ti eri persino ricordato di quando, per un progetto di storia, ti aveva mostrato un vecchio documentario su Pompei e ti aveva tappato gli occhi per non farti vedere i corpi conservati perfettamente sotto la lava. Qualcosa, tra le sue dita che profumavano di detergente, lo avevi visto lo stesso. I corpi erano bianchi, polverosi, sottili come conchiglie. 

*

Da qualche parte, forse su internet o in televisione, senti un vecchio stronzo blaterare che la morte è un’onda che ti sfiora le dita dei piedi sulla battigia della vita fino al giorno in cui ti lascerai portar via. Ti viene il vomito e vuoi spaccare lo schermo, la faccia di chi ti dice che la morte sia una carezza, una gentilezza. La morte non è un’onda – la morte è la foschia intorno al dormitorio in quella notte di dicembre, la morte è una vibrazione familiare nell’aria. Il corpo di Johnny Ray, aveva detto Anita, si era spaccato in due, e la macchia di sangue sembrava essere rimasta sul pavimento per giorni. Qualcuno aveva detto di aver trovato il medaglione con la croce a qualche metro di distanza. 

La morte è il fumo negli occhi, il respiro spezzato, il modo in cui il corpo di Andy si era ripiegato su se stesso, accartocciato, sconquassato dalla tosse. Avevi provato a spingerlo, a portarlo via, l’ondata di fumo ormai vicina. Avevi cominciato a tossire. Eri corso a chiamare aiuto, ma la radura sembrava infinita. 

*

Certi giorni, quando non senti più niente, ti si appanna la vista e le tue dita cercano la boccetta di Adderall, immagini un ragazzo, un uomo come te, che si alza, fa colazione, si lava i denti, va a lavoro, e poche ore dopo si trova a decidere tra il vuoto e le fiamme: saltare o bruciare. Quante volte in TV hai visto le palle di fuoco, i corpi lanciati nel nulla, il fumo che avvolge i palazzi e le strade di una città a migliaia di chilometri dalla tua cittadina dell’Oklahoma rurale. Quante volte hai provato a sentire il vuoto sotto i piedi di Johnny Ray, il peso che lo costringe a precipitare come un albero in fiamme, le orecchie che esplodono, un rombo che fa tremare l’aria, la luce squagliata nel buio. Provi a piegarti su te stesso, coi polmoni che ti si accartocciano dentro, la gola chiusa dal fumo. 

E certi giorni, quando non senti più niente, ricordi il mattino in cui ti sei svegliato senza fiato dopo il brutto trip, quando ti sei reso conto che Johnny Ray si era ammazzato davvero. Ricordi il giorno in cui sei andato a scuola per la prima volta dopo l’incendio al lago McMurtry, quell’estate, quando la mano invisibile di un caldo mai sentito prima aveva appiccato il fuoco. Della foresta erano rimasti solo alberi morti, secchi e neri come tralicci. Ricordi quanto tremavi quando ti eri seduto di fianco al banco vuoto di Andy, gli sguardi dei tuoi compagni che ora, a distanza di anni, ti sembrano solo spettri come tanti. Più di tutto, però, ti sembra di vedere tua madre nel letto di ospedale, pochi giorni dopo l’undici settembre, le torri al televisore, il tuo corpo minuscolo tra le sue mani. Nessuno ricorda di essere nato; sono solo storie. Lo sai. Eppure tu senti quella vibrazione familiare, la ricerca spasmodica di un filo d’aria per respirare durante un boato. Non sei mai nato: sei sopravvissuto mentre il mondo crollava. 



Illustrazione di Damon Lam