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Di questi tempi non si sa mai

Autore
David Valentini
Ciclo #2 - La vibrazione di un corpo
Narrativa generale
19 novembre 2020

Calo la briscoletta sopra l’asso di coppe di Gabriele e mi godo la sua espressione stupita. Davanti a me, Leo dice Daje, mentre alla mia sinistra vedo Sandro alzare le braccia. A Gabrie’, dice, e che cazzo, ma stai attento no? Poi tira su col naso.
Faccio per arraffare quei tredici punti quando questo tizio che peserà un quintale si lascia cadere sulla panca, accanto a Sandro. Puzza di vinaccio e ha una macchia di vernice secca sul giaccone, proprio sopra una delle tasche in cui tiene infilate le mani.
Gli ciondola la testa ma lo sguardo è lucido. Ci viene spontaneo abbassare gli occhi appena ci punta il muso paonazzo addosso. L’unico a non farlo è Gabriele, che è coglione abbastanza da non ricordarsi le carte ma ha la stazza per tenergli testa. Infatti quello lo guarda, annuisce e sputa una risata bassa che fa vibrare tutta la panca. Poi tira fuori la mano ed è esattamente come la immaginavo: grossa, tozza e sbiancata dall’intonaco.
Vuoi fare bracio de fero?
Gabriele sembra persino pensarci su. Prego Dio che dica di no, invece accetta. Col sorriso sui denti, Gabriele accetta.

È sabato notte, stiamo violando un decreto dentro un bar che violerà a sua volta almeno un paio di regolamenti e forse persino qualche legge, ma quel maledetto accetta.
Il rumeno si alza di scatto. Vino aici, idiotule! urla a un tipo basso vestito di nero dall’altra parte del locale. Quello fa dei passetti nervosi e quando arriva solleva il braccio con un gesto meccanico.
Ho sfidato vostro amico, ci dice. Se vinco, Drago mi ofre bira. Se perdo, io ofre lui. Chiaro?
Poi si apre in quello che dovrebbe essere un sorriso. Ha denti bianchissimi, così perfetti che paiono incollati male su quel grugno animale, come uno di quei filtri che mia sorella usa per le stories insieme al gatto. Ma tanto io no perde, aggiunge. Tira fuori una banconota sgualcita ed emette una seconda vibrazione che sembra salirgli dallo stomaco.
Gabriele, che finora è stato in silenzio, sbatte altri cinque euro sul tavolo. Scommetto pure io. Si stringono la mano.

Nel frattempo Sandro si alza e va a parlare con il proprietario. Li vedo laggiù, lui e Paolo: distanti, circondati dai liquori, dietro ai rubinetti opachi delle spine. Leonardo è dalla parte opposta del tavolo, accanto a Drago: entrambi simulano una tranquillità tradita da dita frenetiche e sguardi nervosi.
Mi rendo conto solo ora di ritrovarmi con le spalle al muro, tagliato fuori da tutto il resto, con quelle due braccia enormi che occupano tutto il tavolo. Scaccio via pensieri di morte, ingoio il panico che sento nascere dietro gli occhi. Inspiro, espiro.
Gab, dico, togli il telefono.
Lui scuote la testa. Che?
Togli il telefono dal tavolo. Metti che cade.
C’hai ragione, risponde. Per metterlo via usa la mano sinistra. È già proiettato in avanti, Gabriele, è già concentrato su questo scontro assurdo. Solo di notte possono accadere certe cose, penso.
I due tornano a guardarsi con una specie di follia nello sguardo. Forse pensano di essere altrove. Magari su un ring, con i guantoni. Gabriele è alto quasi due metri e pesa centodieci chili. Ha fatto boxe e andava in palestra quattro volte a settimana, almeno finché non le hanno chiuse. Su Amazon ha ordinato un sacco che ha appeso nella cameretta adibita a sala pesi. I buchi sul soffitto li ha fatti lui perché non si fida dei muratori. Così ha detto.
Una volta lo abbiamo sfidato in tre e non siamo riusciti a smuoverlo di un centimetro. Dovevo aspettarmi che avrebbe accettato.

In testa mia ho già l’immagine nitida del rumeno scocciato per la sconfitta e per la birra che ora deve offrire al suo compare, invece senza neanche accorgermene mi ritrovo la mano di Gabriele schiacciata sul tavolo.
Fisso il mio amico, che fissa il rumeno, che si alza e prende a urlare frasi incomprensibili con un sorriso che gli spacca in due la faccia. Mo’ paga bira, dice al piccoletto. Ora che sta in piedi vedo che lo sovrasta di buoni venti centimetri. Paga bira, gli ripete, poi si rivolge a Paolo dietro al bancone e gli dice Due bire scure, ofrono Dragomir e quelo là!
Sandro, che non si è perso un secondo di questa scena, batte le mani, alza il pugno e urla Daje, offre Gabriele!
Vedo Leo tirare un sospiro infinito, come se fosse in apnea da cinque minuti. Alla mia destra Gabriele si fissa la mano: apre il pugno, lo richiude, come quando si dona il sangue.
Gli chiedo se è tutto a posto. Certe volte mi scordo che anche lui è fatto di carne, ossa e soprattutto tendini. Glielo chiedo un paio di volte, perché lui continua a fissarsi il polso.
Poi, appena il rumeno si allontana, Gabriele si volta verso di me. Sorride e mi sussurra qualcosa. Non faccio in tempo a capire cosa, che si è già alzato, ha già rivolto la parola a quell’omone che sarà alto – ora che lo vedo bene – anche lui sul metro e novanta ed è grosso, veramente grosso. Pensavo fosse il giaccone che aveva addosso, invece no: è grosso. Non mi vengono altri aggettivi.
La voce di Gabriele colpisce Leo, che alza gli occhi dal telefono, scuote Dragomir come una bandiera strapazzata dal vento e arriva alle orecchie del rumeno, che si gira, si pulisce la birra col dorso della mano e dice che sì, gliela concede la rivincita.

Vuoi scometere altra bira?
No, fa Gabriele.
Senza scomesa?
Facciamo cinquanta euro.
Il rumeno si fa serio. Dragomir, nel fuoco incrociato di sguardi, pare una pallina da ping pong. Ci mette qualche secondo a capire che deve levarsi di mezzo.
Mi piace tue pale, fa il rumeno. C’hai due cojoni così, aggiunge formando con le mani due cerchi delle dimensioni di due mele. Fa qualche passo, torna al tavolo e allunga la mano. Me chiamo Valentin, dice. Cinquanta euro va bene.
Si toglie il giaccone. Sotto ha una maglietta marrone sporca di vernice rossa, bianca e gialla, dalla quale spuntano due braccia pelose come tronchi ricoperti dal muschio.
Gabriele, risponde il mio amico, prima di tirare giù la zip della giacca di pelle per far vedere che non è da meno. Cinquanta euro. Eccoli qua.
Si stringono di nuovo la mano e penso che il piccolo Dragomir, più saggio di me, s’è tolto di mezzo mentre io sto ancora seduto qua, sulla panca, di nuovo con le spalle al muro, tagliato fuori dalle braccia grosse come tubi di questi due fuori di testa.

Sandro, che si sta scolando un amaro nella sua tana sicura, riprende tutto col telefonino. È lui a dirmi, da laggiù, che c’ho la faccia di uno che si sta cacando addosso.
Valentin mi guarda con due occhi azzurri e serissimi e mi dice che devo spacare.
Eh? chiedo.
Devi spacare.
Che devo fa’?
Oh, Tomma’, fa Gabriele annoiato, spacca ’sta scommessa così cominciamo.
Con un gesto incerto batto di taglio sulla mano di Valentin, una cosa dura e ruvida che pare un masso tirato fuori da una cava.
Tuo amico fifone, dice a Gabriele. C’ha bela ficheta bagnata in mezo a gambe?
Gabriele – quel testa di cazzo – caccia fuori una risata grassa da fumatore e dice che sì, noialtri siamo tutti delle mezze checche. Sento Sandro mandarlo a fanculo. Leo preferisce stare zitto. Paolo – è lui il più saggio di tutti – prepara una piccola chiara.
Poi si fanno seri, neanche fosse un esame di stato. Si fissano, fanno smorfie, Valentin grugnisce. Drago, dice, conta tu.
Dragomir, ora visibilmente eccitato – ha scommesso con Sandro, la birra sul bancone è del vincitore –, mette la sua microscopica mano su quelle dei due contendenti.
Tre, dice, e tutti tratteniamo un respiro.
Due, dice, e Sandro da dietro si sposta per riprendere meglio il tutto.
Uno, dice, e Leonardo forse senza accorgersene si fa il segno della croce.
Vai! urla, poi si ritira di scatto, al sicuro, lontano da quelle due presse idrauliche che si gonfiano nello stesso istante e prendono subito a vibrare. Non sono tanto quei bicipiti gonfi ad attirare la mia attenzione, quanto le unghie di Valentin: sono corte, mangiucchiate fino alla pelle. Sotto il bianco acceso dalla pressione delle falangi vedo una striscia di nero che non riesco a capire se sia terra, sporcizia o chissà che altro.
Anche Gabriele fissa quelle unghie per un istante prima di tornare a guardare il suo avversario. Un rivolo di sudore scende dalla fronte lercia di Valentin, mentre sulla testa rasata del mio amico si formano vene enormi e pieghe che sembrano dune. Sono due capibranco che lottano per il territorio.
Sandro parte con un ululato animalesco di incitamento. Non fa però in tempo a raggiungere l’acme, perché Gabriele fa una torsione rapida e schianta la mano di Valentin sul tavolo con un botto sordo di nocche. Poi scatta in piedi, solleva i pugni in segno di vittoria e urla Sì, mortacci tua, sì!

Valentin si guarda la mano, incredulo. Dietro di lui, Dragomir lo fissa con tanto d’occhi. Ma è un momento: quegli stessi occhi enormi di sorpresa si fanno minuscoli e la sua faccia sembra comprimersi quando Valentin prende a urlargli addosso in quella lingua che dovrebbe essere lontana parente della nostra ma non c’azzecca nulla. Lo spinge via mandandolo a sbattere contro il bancone, urla una bestemmia, poi sbatte il pugno sul tavolo di legno spezzandolo a metà.
Tu imbroliato! dice a Gabriele, che gli risponde che non si chiama imbrogliare ma bluffare e allunga la mano per riscuotere.
Di quello che succede mi accorgo un secondo dopo, quando già il pezzo di ferro lucido e nero è puntato verso la faccia di Gabriele, che con le mani alzate dice Oh ma che cazzo fai.
Tu imbroliato, ripete Valentin mentre la scacciacani gli trema nella mano vibrante di collera.
E veramente non sappiamo che fare tutti quanti, perché sono quasi le tre, Paolo avrebbe dovuto mandarci via ore fa, abbiamo un rumeno impazzito armato di pistola, Sandro che prima di tutto ’sto casino è tornato dal bagno con la polvere bianca sotto al naso e Leo, quello in teoria più autorizzato a chiamare le guardie, se lo beccano in questa situazione può scordarsi la carriera da magistrato per cui sta studiando da tre anni.
Io penso alle scuse che ho inventato per stare qua stasera perché a casa mi rompevo troppo. Che ne sapevo che sbucava fuori Valentin il muratore, con le sue pale eoliche al posto delle braccia e la scacciacani nascosta nella tasca del giaccone. Chiudo gli occhi perché non ho voglia di vedere il cervello di Gabriele schizzare sulla parete.
Ma il cervello di Gabriele non schizza sulla parete. Valentin non gli spara dritto in testa. Mette via la pistola e gli allunga i cinquanta euro. Questa mia intera giornata di lavoro, dice, tu bruto filio di putana imbrolione, ma c’hai due cojoni così. Te rispeto.
Poi Paolo gli offre due birre, ed è ben felice di perdere quei soldi dopo essersi risparmiato un morto ammazzato nel locale.
Valentin si scola le birre, butta i boccali per terra e se ne va. Dragomir, prima di chiudere la porta sul retro, si gira e batte due volte l’indice sulla tempia in direzione di Gabriele.

Sandro, a cui è scesa la botta artificiale, comincia a sbadigliare. Leo guarda l’orologio: dice che domani deve alzarsi presto per studiare. Ora hanno tutti fretta, ’ste teste di cazzo.
Paolo solleva la serranda e ci fa uscire. Quando Sandro gli chiede se venerdì prossimo possiamo replicare, quello gli risponde vediamo. Allora propone una texana a casa di Leo, ma anche lui dice vediamo. Alla fine tira fuori una sigaretta e se ne va mostrandoci il dito medio.
Anche io e Gabriele ci avviamo. Gettiamo occhiate qua e là. Sarebbe difficile spiegare alle guardie perché stiamo violando il coprifuoco a quest’ora. Per fortuna non incontriamo nessuno.
Sotto casa, prima di salire, ci giriamo un drummino. Ci sediamo a una panchina e restiamo in silenzio. Lui guarda la strada, io guardo lui.
Domani dovevo uscire con Fabiana, dice all’improvviso. Aspira a vuoto, si accorge che il drummino è spento, lo riaccende. Resto ad aspettare che prosegua, invece sta zitto.
A che pensi? chiedo.
Si volta. Eh?
A che pensi?
Ma niente. Cazzate.
Come sempre, dico. Mi scappa una risata. Lui resta serio, assorto. Poi aggiunge che prima, lì al pub, gli è tornato in mente quando da ragazzino andava a pescare con il padre, prima che i suoi divorziassero e tutto il resto, e passavano la giornata con la canna da pesca in mano. Ogni movimento produceva quei minuscoli cerchi concentrici che increspano la superficie dell’acqua. Ci si incantava a fissare il mondo distorto a quel modo. All’epoca non poteva immaginare tutti i casini che sarebbero capitati, né che un giorno si sarebbe ritrovato con una scacciacani a cinque centimetri dal naso.
Mi stringo nel cappotto. E quindi, dove la porti Fabiana?
Fa una smorfia. Pensavo al bowling ma sai, è da ’st’estate che mi chiede di andare al lago. Mi sa che ce la porto, prima che chiudono tutto. Di questi tempi non si sa mai.
È una brava ragazza, Fabiana.
Magari glielo dico che la amo. Che ne pensi?
Eh. Sarebbe ora.
Sarebbe ora. Vabbè, vediamo. Buona notte, Tommasi’.
Buona notte, Gabrie’.


Illustrazione di Chiara Tescione